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Biennale di Venezia, un nuovo umanesimo per l’architettura contemporanea

Riceviamo e pubblichiamo questa recensione alla XV mostra internazionale di architettura in corso alla Biennale di Venezia

Reporting from the front”, recita il titolo della XV mostra internazionale di architettura, in corso a Venezia, fino al 27 novembre, presso l’ “Arsenale”, i “Giardini” ed in vari altri luoghi della città . Di quale frontiera o fronte parla questa esposizione?

Il limite, inteso come demarcazione tra due spazi non omogenei, è oggi al centro di un vasto dibattito intellettuale, che investe la sociologia, l’ economia, la politica, la religione (basti pensare all’insistenza di Papa Francesco, sul tema delle periferie, materiali e spirituali, dell’esistenza) e l’architettura contemporanea non elude il tema, il cui svolgimento, inevitabilmente, segna un avanzamento nell’approccio progettuale e nella concezione dello spazio. Per gli antichi greci, il limes è ciò che sancisce la differenza tra dentro e fuori, tra incluso ed escluso, termini antitetici nel contenuto, ma concepibili solo in relazione l’uno all’altro. Il prodotto di questa concezione è una città idealmente organica nelle sue separatezze formali, territoriali, sociali.

Una geometria di tratto euclideo, che il mondo attuale rigetta. Cosa è centro e cosa è periferia oggi? Dov’è il limite? I territori urbanizzati proliferano, lungo un continuum che ne diluisce le gerarchie ordinarie. I territori urbani in espansione paiono destinati a triplicarsi nel trentennio 2000-2030, ospitando in media ogni anno 73 milioni di abitanti in più. Convenzione vuole che il 2007 segni lo spartiacque storico fra l’ umanità prevalentemente agreste – dal paleolitico medio in avanti – e l’ attuale, maggioritariamente concentrata negli ambienti urbani (53% dicono le statistiche). Valanga in accumulazione. Nel 1900, l’84% degli umani era stanziato nelle campagne. Nel 1975, solo tre città avevano più di dieci milioni di residenti, mentre, per il 2025, le Nazioni Unite ne prevedono 27. Infine nel 2050, quando dovremmo essere quasi dieci miliardi, si calcola che settanta persone su cento alloggeranno in città. Quale architettura foggerà l’abitato? Lasceremo che sia la speculazione capitalistica a gestire il cambiamento epocale, con le inevitabili ricadute ambientali negative o riusciremo ad andare verso risoluzioni non banali e autolesioniste?

Perché qui vi è certamente una seria impasse; non tanto nell’architettura come disciplina, ma nell’organizzazione umana, nella capacità nostra di avvalerci di essa e di chiamarla in soccorso sapendo con essa dialogare. Questioni complesse si pongono. Forse facilmente risolvibili, quando l’ architettura si limita ad esprimersi in isolati fenomeni spettacolari, dei quali le cosiddette “archistar” sono il catalizzatore mediatico, ma di difficile espressione quando si tratta del territorio, delle condizioni di vita e di lavoro di singoli o di comunità intere. L’ architettura può fare la differenza se diviene strumento di una civiltà umanistica, che evidenzi la capacità dell’uomo di essere padrone del proprio destino. Un’architettura in azione, come strumento della vita sociale e politica, dove sia possibile coniugare, ad un più alto livello, l’agire privato e le pubbliche conseguenze. Impedire il proliferare di una città diffusa, illegale e autocostruita, mediocre segno di un liberismo senza scrupoli, diventa allora il programma architettonico ideale di questo secolo e la mostra di Venezia, curata da Alejandro Aravena, ne offre molteplici esempi.

Alcuni meritano una particolare menzione. Il padiglione giapponese, affollato di minuziosi modelli in scala, video e fotografie, ponendo l’ accento su di una serie di soluzioni abitative, nate dalla seconda metà degli anni ottanta, che declinano il concetto giapponese di en, l’ arte di creare connessioni e relazioni tra persone, cose e ambiente naturale e urbano, in una società in cui le tendenze all’isolamento e alla rarefazione dei contatti fuori da internet sono un dato di fatto, mostra come sia possibile generare nuovi spazi di socialità e di apertura all’altro. Fa eco alla realizzazione orientale, il padiglione peruviano che espone un dettagliato progetto, Plan selva, teso a migliorare e ad estendere l’ educazione, con un programma pubblico in larga scala, alle comunità delle zone più inaccessibili dell’Amazzonia peruviana, attraverso un progetto di scuole assemblabili dalla comunità. Gli ingredienti base sono unità prefabbricate, facilmente trasportabili, alle quali si accompagnano corsi di autocostruzione e training per il mantenimento. Infine vale la pena ricordare i padiglioni albanese e spagnolo. Nel primo non aspettatevi modelli o grafici. Nessun progetto di housing; nessuna soluzione concreta, ma un intervento di rara poesia. Canti in una lingua sconosciuta ai più, di malinconica bellezza, si diffondono in uno spazio scarno di un centinaio di metri quadri, insonorizzato alla buona con una tenda in pvc. Unfinished, il titolo della proposta spagnola. Architetture non finite, lasciate a metà per mancanza di risorse sono il soggetto di una galleria di fotografie al centro del padiglione. Lungo il perimetro sono esposti una cinquantina di progetti con in comune l’ idea che l’ architettura costruita non si possa mai dire finita, ma che sia costantemente suscettibile di modifiche. All’architetto il compito di intervenire, rispondendo di volta in volta alla situazione economica contingente e ai bisogni della società. Azzeccato l’ allestimento di travi d’ acciaio che sembra richiamare le impalcature di un cantiere.

La mostra di Venezia è quindi l’espressione di una domanda di rigenerazione urbana attraverso la cultura, ma in un diverso modello organizzativo che metta in dubbio le narrazioni dominanti di progresso e benessere, ormai poco credibili di fronte alle reali condizioni ambientali e sociali di buona parte del pianeta. Quale significato dare al termine “sviluppo” oggi se non fondato su valori e obiettivi di qualità e di equità ben diversi: quelli della sostenibilità ambientale e sociale, della correzione degli squilibri che causano migrazioni planetarie (squilibri Nord/Sud, squilibri tra un mercato senza regole e le capacità regolatorie degli Stati). Lo studio del territorio e il suo reale funzionamento, l’ individuazione di forme nuove di mediazione tra le comunità, la possibilità di agire con immaginazione, la valorizzazione dello spazio pubblico inteso come spazio sociale di relazione e d’ incontro tra cittadini in una società plurale, queste sono le aree di competenza dell’ architettura contemporanea, che emergono prepotentemente da questa edizione della Biennale. Vale una visita.