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#4 Venezia79. La distopia della famiglia in Don’t Worry Darling di Olivia Wilde

Presentato nella sezione “Fuori Concorso” – e tra poche settimane distribuito in sala – la seconda opera da regista di Olivia Wilde è un thriller psicologico e distopico in cui la famiglia eterosessuale e mononucleare diventa l’incubo della protagonista interpretata da Florence Pugh

Nel deserto di Palm Springs una comunità distopica monosintomale, chiamata Victory, vive immersa in un’ambientazione retrò anni Cinquanta in cui le case a schiera si ripetono tutte uguali, si guidano macchine d’epoca colorate e la divisione binaria tra uomini e donne viene scandita rigidamente dalla divisione sessuale del lavoro. Gli uomini la mattina vanno in ufficio all’unisono, mentre le donne rimangono a casa a occuparsi delle faccende domestiche e dei figli, intervallando la monotonia delle loro vite con lezioni di danza in cui si predilige l’ordine e la precisione. Il motto di Victory, infatti, – secondo quello che appare come l’ultra-capitalista, guru, coach morale del gruppo, Frank – è che l’innovazione deve prevalere sul caos. Ma tale innovazione, nel corso del film, rimane un mistero, lo stesso da cui è avvolto il lavoro che svolgono gli uomini della città culto quando passano le giornate a dedicarsi allo “sviluppo di materiali innovativi” – quegli stessi che sembrerebbero causare le scosse di terremoto che tagliano la placida e regolarissima esistenza dei protagonisti del film. Tra questi, i giovani Alice (Florence Pugh) e Jack (Harry Styles) – l’unica coppia a essere ancora senza figli – sembrano più felici degli altri nella loro ordinarietà fatta di pranzi succulenti, festini tra amici e sesso in qualsiasi angolo della casa fino a quando la loro amica Margaret, la sola donna nera di questa oppressiva comunità di culto, non comincerà a manifestare segni di cedimento psicologico e non metterà in crisi un sistema artefatto in cui l’idealità di un ordine bianco e patriarcale si scontrerà con donne che vogliono oltrepassare i confini della realtà data. 

Non è la prima volta che il cinema si propone di affrontare il tema del rapporto tra modernità e fondamentalismo tradizionale e binario nelle relazioni di genere. È il caso, per esempio, del film del 1975 del regista inglese Bryan Forbes The Stepford Wives, ispirato alla sceneggiatura di Ira Levin, che racconta la storia di una donna che arrivata nella comunità di Stepford in Connecticut nota che le donne del luogo vivono completamente asservite ai loro uomini, fino a scoprire che non si tratta di persone umane ma di robot. Ma il conformismo nelle relazioni eterosessuali e patriarcali viene raccontato secondo gli stilemi della riproduzione biologica della famiglia e della rigida divisione sessuale del lavoro anche nell’ormai notissimo caso della serie televisiva e del romanzo Handmaid’s Tale che accosta il possibile futuro distopico americano e mondiale alla regressione violenta delle relazioni familiari e sessuali.

Olvia Wilde, allora, cerca di ricavare uno spazio di presa di parola all’interno di un genere di film “femministi” che ormai è sempre più affermato – un po’ come nel caso di Revenge di Coralie Fargeat del 2017 – e al quale unisce anche il tema dell’allucinazione visiva che scuote il rapporto tra realtà e finzione e tra ordine e caos – citando nitidamente il pluripremiato film del 1998 The Truman Show. In questa cornice, la citazione della famiglia americana degli anni Cinquanta vuole chiaramente alludere a un modello scomparso di household monoreddito in cui la divisione sessuale del lavoro dentro e fuori casa è rigidamente stabilita nell’ideologia pubblicitaria di radio e televisioni e nella definizione dei consumi dell’unità mononucleare. Per la protagonista del film di Wilde, Alice, questa realtà caramellata fatta di colori e forme che ricordano Mad Men, comincia a vacillare e diventare sempre più soffocante, fino al punto che la liberazione appare come l’unica strada percorribile. Che il risultato sia stato giudicato in gran parte dalla critica cinematografica poco riuscito e il tema già visto non pregiudica l’intento sovversivo di un film che prova a segnalare i grandi limiti della coesistenza tra innovazione economica e tecnologica ultramoderna (con tanto di retorica della performance e premi produttività) con forme di repressione sessuale, di genere e di razza tra le più retrive. Un tentativo di condanna degli Stati Uniti contemporanei e del mix tra ideologia californiana e tradizionalismo neofascista.