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MONDO

Elezioni in Argentina, l’anomalia selvaggia

La travolgente vittoria dell’ultra destra in Argentina ci conduce in pieno in un film distopico. Da questo manifesto del collettivo editoriale della rivista Crisis emergono alcuni elementi per una lettura urgente delle elezioni. La resistenza è un enorme campo di apprendimento e nella disperazione si annida il germe di una inedita lucidità

Nell’anniversario dei 40 anni dal ritorno della democrazia, l’estrema destra di Javier Milei vince con il 55,69% le elezioni presidenziali, contro il peronista Sergio Massa, fermo al 44,3%. La nuova vicepresidente, Victoria Villaruel, che si ispira a Giorgia Meloni, è una negazionista dei crimini della dittatura, familiare e avvocata dei genocidi della giunta militare condannati per crimini di lesa umanità. Il neo-presidente eletto annuncia una terapia di shock economy senza gradualismi fatta di dollarizzazione, tagli “più duri di quelli richiesti dal FMI”, privatizzazioni delle imprese pubbliche e repressione, contando con il pieno sostegno di Mauricio Macri e Patricia Bullrich, e proclamando l’istituzione del Ministero del Capitale Umano al posto di ben quattro ministeri, quelli del Lavoro, dell’Istruzione, della Salute e dello Sviluppo Sociale. Tempi durissimi si attendono per un paese in crisi da anni, con l’inflazione che ha raggiunto il 149% e quasi metà della popolazione in condizione di povertà. Il voto rabbioso contro l’impoverimento e la svalutazione senza fine della moneta di un paese indebitato da Macri per cento anni con l’FMI finisce a una estrema destra che raccoglie consensi contro “la casta” promettendo la libertà di impresa, difesa della proprietà privata, liberalizzazione delle armi e lotta contro la “giustizia sociale”. Si apre da oggi una difficile e inedita transizione dal governo attuale al prossimo governo ultra neoliberista e di estrema destra che annuncia una fase durissima di orizzonti oscuri per il paese [Nota della redazione]

La sensazione di essere entrati in un film distopico è travolgente, anche per quelli che negli ultimi anni avevamo compreso la rilevanza epocale di una formazione politica di ultradestra che per la prima volta nella nostra storia si è sintonizzata con il malcontento dei settori popolari ed è riuscita a esprimere il desiderio di cambiamento di una gioventù senza orizzonti. Siamo di fronte a un cambiamento storico dalle conseguenza insospettabili.

Basta solo un dato per avere le dimensioni della enormità di quanto avvenuto: la formula presidenziale di Javier Milei e Victoria Villarruel, due personaggi recentemente lanciatisi in politica e che fino a poco tempo fa si muovevano all’interno di spazi caratterizzati da una forte marginalità ideologica per le loro posizioni radicalizzate sulle questioni relative all’economia e alla memoria storica, sono diventati i più votati del periodo democratico iniziato nel 1983. Il 55,7% ottenuto da La Libertad Avanza supera addirittura il 54,11% ottenuto dal Frente para la Victoria (di Cristina Fernández de Kirchner e Amado Boudou) nel 2011. Gli oltre 14 milioni di voti ottenuti dai libertari (contro i quasi 12 milioni ottenuti dal kirchnerismo nel suo miglior momento) gli assegnano una legittimità popolare per cercare di farla finita con tutto. E c’è di più: nonostante alleanze e manovre discorsive dell’ultimo momento, l’ultradestra è riuscita ad arrivare al livello più alto del potere istituzionale senza sostanzialmente moderare il discorso né rinunciare al programma massimalista.

È vero che la comparazione non è del tutto legittima perché il peronismo nel 2011 vinse al primo turno, mentre la batosta di ieri è arrivata in occasione di un ballottaggio. Ma ha la virtù di metterci davanti a una evidenza indiscutibile: qualcosa va molto male in questa democrazia che, nel compiere il quarantesimo anniversario, cede le redini dello Stato a chi lo disprezza. A partire da adesso, solo chi assumerà l’urgente necessità di ricreare le proprie basi di appoggio saprà difenderla in modo efficace. Chi si animerà a democratizzare sul serio, senza paura di confrontarsi con i poteri che la parassitano. Basta Realpolitik. Mai più il simulacro di una narrativa che si adorna dei valori più nobili, ma in pratica si dichiara impotente a trasformare la realtà e sottomette il popolo sovrano alla miseria.

Dai palloncini alla motosega

Il trionfo di Milei ha avuto in Macri un fattore decisivo. Il risultato del ballottaggio nasce dalla somma quasi perfetta dei voti presi dalle coalizioni La Libertad Avanza e Juntos por el Cambio al primo turno. Ovviamente, la politica non è mai matematica e sicuramente il conteggio implica un altro tipo di aritmetica. Ma la questione rilevante è l’unione attorno alla stessa offerta elettorale di due universi distinti: l’antiperonismo ancestrale rappresentato da Cambiemos [la coalizione di Macri, che aveva come simbolo i palloncini gialli, da qui il titolo, ndt] e una nuova forza sociale dal tono chiaramente plebeo e giovanile, con una sorprendente voracità contestataria.

Le dinamiche che hanno definito la contesa si sono andate sovrapponendo, con differenti livelli di profondità: in primo luogo, il voto di castigo contro un governo pessimo che ha finito per nascondersi in modo indegno; in seconda istanza, il voto di rabbia che ha puntato al cuore dello status quo progressista che ha osato rendere indipendente la sua sorte dalla realtà delle maggioranze; e l’emergere di una utopia ultracapitalista che è riuscita a capitalizzare la rottura, dissolvendo la minaccia della paura.

Il risultato conferma il peggior finale possibile per il ciclo inaugurato nel 2001, quando la resistenza popolare alla crisi del neoliberismo lasciò spazio a uno schema di governabilità basato sulla contestazione delle politiche di aggiustamento strutturale e della repressione. L’appropriazione libertaria dei canti emblematici di quelle indimenticabili giornate di inizio secolo, “que se vayan todos” y “se viene el estallido” [“che se ne vadano tutti” e “arriva l’esplosione sociale”, slogan delle rivolte del 2001, ndt] insinuano sul piano simbolico una svolta di 180 gradi nella configurazione ideologica che da adesso sarà propagata dalle istituzioni statali. Un altro slogan cantato dalla moltitudine indica come il revisionismo punta ad andare oltre e cercherà di riformulare il consenso di base della democrazia: “Massa, basura, vos sos la dictadura” [Massa, spazzatura, tu sei la dittatura, usando contro il peronismo lo slogan usato contro i responsabili della dittatura militare, ndt]. E l’appello permanente al ritorno di una “Argentina potenza” da parte del presidente eletto, ci parla addirittura della pretesa di rifondare i pilastri del progetto nazionale.

È possibile che il nuovo governo fallisca in modo strepitoso e tutto questo non sarà che un incubo di cattivo gusto. Un incidente storico senza senso né rilievo. Ma bisogna tener conto della possibilità che ci troviamo di fronte a qualcosa di più di una battuta d’arresto elettorale. Che ci tocchi affrontare una sconfitta politica come quella sperimentata dalle generazioni precedenti nel 1976 o nel 1989. Assumere con sincerità la sfida che ci tocca è decisivo per rilanciare con impeto e intelligenza una nuova avventura per l’emancipazione. Questa volta, senza mezze tinte e senza inginocchiarsi.

Cosa viene adesso?

La sconfitta, quando arriva, coinvolge tutti quelli che ci sentiamo parte di un campo politico. Quelli di sinistra e di centro, i trotzkisti e i pragmatici, i progressisti e i nac y pop [abbreviazione per nazionale e popolare, ndt] le femministe, gli ambientalisti, gli sviluppisti, i cinici illuminati. È un soggetto storico che deve ricomporre le sue forze, riorientale le strategie, ricreare i linguaggi. Nessuno si salva. E non serve alzare il dito accusatore. Occorre farsi carico della situazione e al tempo stesso andare fino in fondo con l’autocritica. Affrontare la tempesta con dignità, ma anche liberare l’immaginazione dai vincoli e dagli errori che ci hanno portato al fallimento.

Alcune configurazioni della tappa che si chiude devono mutare senza dubbio. Cominciamo dalle cose più immediate: l’idea che «il peggiore dei nostri è meglio del migliore dei loro», perché è capace di fabbricare una enorme macchina del fumo che alla fine finisce per narcotizzare solamente le nostre stesse ansie di qualcosa di migliore. Per dirlo con nome e cognome: Sergio Massa non ha conquistato la sopravvivenza che aveva promesso e, nel suo tentativo di arrivare alla presidenza senza risparmiare risorse, ha favorito la crescita dell’estrema destra e ci ha condotto a un penoso conformismo con questo presente pieno di ingiustizia. Smettiamo di affidare il nostro destino a professionisti del pragmatismo senza risultati.

La batosta elettorale di ieri colpisce in pieno la leadership kirchnerista, definitivamente in ritirata. Una volta ancora lo schema gerarchico che esige subordinazione e valore e dissolve qualsiasi dibattito, ci ha condotto a una via senza uscita. Il disorientamento e l’esaurimento sono evidenti. Ma la cosa che più chiama l’attenzione è l’assenza di idee, la poca disposizione a costruire futuro. Basta con il fascino del potere e con lo scommettere tutto sulla sua conservazione, a qualsiasi costo. Serve più generosità e ascolto, meno maestri-liberatori e giocatori di poker. Alle esoteriche forze del cielo [riferimento al discorsi di Milei, ndt] bisogna opporre la potenza di una comunità tellurica che cresce dal basso e va oltre i propri idoli.

Noi che ci sentiamo parte di un ampio e diverso tessuto di esperienze di base il cui principale proposito è contribuire alla costituzione di un soggetto popolare, trasformatore e democratico, dobbiamo anche ripensare buona parte dei presupposti che ci hanno guidato durante la fase che si conclude adesso. Il feticismo dello Stato, la ricerca di un riconoscimento istituzionale come misura del successo, l’integrazione di alcuni che rende insensibili alla sofferenza delle maggioranze, l’accettazione rassegnata del male minore per evitare la catastrofe, il godimento rispetto a un tatticismo politicista senza strategia di medio periodo.

I prossimi mesi – o magari anni – saranno duri. Ma ogni epoca ha il suo incanto. La resistenza è un enorme campo di apprendimento e nella disperazione si annida il germe di una inedita lucidità. Adesso non si tratta di ritornare migliori. Non c’è più margine alcuno per la nostalgia. Né scuse che ci proibiscano di comporre le nuove canzoni della rivoluzione che verrà.

Articolo pubblicato sul sito della Revista Crisis, che ringraziamo per la gentile concessione. Traduzione in italiano di Alioscia Castronovo per Dinamopress.

Immagini nell’articolo di Maria Eugenia Cerutti, Gala Abramovich, Rata Vega, Emiliana Miguelez per Revista Crisis.