EUROPA

Essere antifascisti in Bielorussia. Una testimonianza

Nel paese post-sovietico l’opposizione a Lukashenko e i tentativi di fare politica dal basso hanno sempre potuto contare su pochissimo spazio d’azione. Tuttavia, almeno dagli inizi degli anni 2000, esiste un movimento di ispirazione radicale che ha provato a mettere in atto un cambiamento

«Sono cresciuto in provincia, dove non succedeva praticamente nulla. Trasferendomi a Minsk per l’università, ho potuto incontrare per la prima volta anarchici e ultras, persone “toste” che scendevano in piazza per delle manifestazioni e delle proteste. Mi sono detto: “Finalmente qua succede qualcosa di interessante”. Mi sembravano dei fighi: il loro modo di vestire, di atteggiarsi […] e di combattere per le strade le bande di nazisti». L’ipotesi di un cambiamento politico in Bielorussia – che in queste ore torna prepotentemente a farsi strada – passa anche da storie (e memorie) come questa. In 26 anni di dominio istituzionale della stessa personalità, l’ex-militare ed ex-direttore di fattorie collettive Aleksander Lukashenko, le capacità di auto-organizzazione e di militanza dal basso nella repubblica post-sovietica sono state ripetutamente represse e frustrate. Difficile agire al di fuori delle modalità canoniche previste dalla legge, mentre in tanti e tante sono scappati nella vicina Polonia per sfuggire alle persecuzioni. È il caso di D., che vive a Varsavia da oltre dieci anni: «Mi hanno incarcerato per qualche giorno e ho ricevuto pressioni da parte dei servizi segreti. Volevano che mi esponessi in televisione per dire: “Non andate alle manifestazioni sennò verrete puniti, come lo sono stato io”. Sono fuggito la sera stessa, dopo essermi rifiutato di fare ciò che mi chiedeva il Kgb».

 

Mentre in vista delle elezioni del 9 agosto la situazione pare essere quanto mai in bilico, con alcuni sondaggi che danno il presidente uscente al 3% e con numerosi picchetti anti-governativi che si moltiplicano in ogni angolo del paese, può allora essere utile provare a ripercorrere le vicende di chi si è opposto in passato al regime di Lukashenko e lo ha fatto nelle piazze, in maniera spontanea.

 

«Essere attivisti significa sostanzialmente prendere coscienza di trovarsi in uno stato totalitario», afferma P., anche lui fuggito a Varsavia da poco più di un anno. «Il numero dei nostri poliziotti è uno dei più alti al mondo e i cittadini della Bielorussia in pratica lavorano per mantenere le forze dell’ordine. Le elezioni sono truccate e non sono altro che un’occasione da parte dell’establishment di rubare ancora più soldi dalla popolazione. Si tratta di una dittatura, dove anche le più piccole attività e le più piccole espressioni della società civile vengono represse dal potere».

 

Punk oltre confine

Ma la Polonia e, in generale, le nazioni estere non sono semplicemente luoghi in cui poter fuggire dalla repressione. In alcuni casi hanno rappresentato, anzi, dei veri e propri spazi di educazione politica e formazione militante. «L’intero movimento bielorusso è stato pesantemente influenzato da quello polacco», spiega D. «Io personalmente ho frequentato molto lo squat di Białystok, che ha resistito una decina d’anni e per noi bielorussi era davvero un centro sociale leggendario. Si ascoltavano e si organizzavano concerti, si stringevano amicizie e si creavano contatti… Era come un’onda che veniva trasportata in Bielorussia: il movimento polacco era molto più vecchio e strutturato del nostro e noi abbiamo preso tante forme e modalità di militanza dal contesto oltreconfine». Forme e modalità che coinvolgono l’ambito estetico-culturale, ancor prima che politico: «La musica punk-rock era essenziale per tutto il movimento di sinistra», afferma sempre D.

 

«I concerti rappresentavano i momenti in cui gli attivisti potevano incontrarsi, discutere e scambiarsi idee. Tutte le risse con i nazisti avvenivano durante i concerti punk-rock!».

 

In un contesto in cui la stampa e in particolare l’accesso a internet sono stati fortemente controllati dal governo (a partire dal 2006, Reporters Without Borders ha classificato la Bielorussia fra i “nemici” dell’accesso alla rete), tali occasioni di ritrovo informali e magari presso spazi occupati e autogestiti hanno anche rappresentato delle “finestre sul mondo”, eventi in cui subire la fascinazione di storie ed esempi di militanza che arrivavano da lontano. «Fino a non troppo tempo fa, i concerti punk erano praticamente l’unico contesto in cui fare conoscenze di ciò che avveniva all’estero a livello politico», ricorda P. «Non si trattava solo di ricevere informazioni, ma anche di discutere del perché alcune cose avvenivano e soprattutto di ascoltare i racconti di come militanti e attivisti di ogni parte del mondo reagivano ai fatti. Era davvero interessante capire le modalità con cui le persone in diverse situazioni provavano a cambiare lo stato di cose esistente. Per me, per noi, significava sentirsi parte di un processo più grande».

 

Fra tifo e rivoluzioni

La repressione e il controllo del governo bielorusso, però, paiono essersi addirittura intensificati negli anni recenti. La militanza politica anarchica e antifascista del paese, oltre che con la scena musicale punk, è stata molto legata al mondo del tifo calcistico e sportivo. «Diciamo che si tratta di subculture tutte molto prossime fra loro», aggiunge D. «Quando sono fuggito io, poco prima delle grosse proteste del 2010, credo che gli apparati governativi avessero appena iniziato a “grattare la superficie” di questo “sottobosco”. Ma è poi soprattutto con gli eventi del Maidan ucraino che le autorità bielorusse si sono allarmate e hanno cercato di dare un giro di vite definitivo al movimento». La sollevazione del 2014 in Ucraina, che ha condotto alla destituzione dell’allora presidente Viktor Janukovyč, ha infatti portato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo che i gruppi ultras possono giocare in contesti di scontri di piazza e di ribaltamenti politici: i tifosi delle maggiori squadre del paese sono stati molto attivi durante le proteste – sebbene in modalità e in misure diverse, a sostegno di entrambe le fazioni “in lotta” – e in alcuni casi hanno svolto compiti da vero e proprio “servizio d’ordine” durante le manifestazioni.
«Perciò governo e servizi segreti hanno iniziato a voler fare tabula rasa di tutta la scena politica alternativa», conclude D. Gli fa eco P., che ancora si trovava in Bielorussia durante i fatti del Maidan ucraino: «Si nota che da qualche anno la scena punk-hardcore è molto più studiata dalle autorità.

 

Hanno appunto capito che non si trattava solo di concerti ma di un’intera controcultura, dove ci si scambiano informazioni e si organizzano azioni di varia natura, anche politica.

 

Immagino che abbiano pure incominciato a segnarsi i nomi di tutte le persone che partecipano ai concerti e stilare liste di sospetti, che vengano poi utilizzate per provocare e “punzecchiare” gli attivisti. Insomma, la repressione è aumentata».

 

Passato e presente

Le proteste di questi giorni e i segnali di un drastico calo del consenso a Lukashenko sembrano però dimostrare che il regime sia sempre più “in affanno” e che, anzi, la repressione poliziesca sia sintomo più di debolezza che di forza. Certamente a dominare la scena dell’opposizione, ora, sono realtà politiche di varia natura, talvolta anche conservatrici e che poco o nulla hanno a che fare col movimento anarchico che ha invece animato altre contestazioni del passato. «Le forze contrarie a Lukashenko sono composte soprattutto da socialdemocratici e da nazionalisti, che hanno molti pregiudizi verso i movimenti come quelli in cui militavo io ritenendoli degli “estremisti” e dei “comunisti”», spiega D. «A ogni modo, la propaganda governativa continua ad agitare lo spettro del Maidan e insiste sul fatto che l’opposizione riceva soldi “dall’Occidente”. Ma è naturale che sia così: se come partito ufficiale vuoi veramente avere un minimo di potere politico in Bielorussia, devi farlo. Per quanto riguarda i movimenti dal basso, invece, credo che il più grande limite sia dato dalla mancanza di comunicazione fra diverse generazioni di attivisti. Non si conoscono, quindi è come se ogni nuovo gruppo, ogni nuova generazione di persone impegnate politicamente debba sempre ripartire da zero».
Una frattura che registra anche D.: «Per quello che ho visto io da militante, la parte più anziana della popolazione in Bielorussia non cerca di partecipare in prima persona al cambiamento: tendenzialmente ci si accontenta dello status quo.

 

I giovani, al contrario, sono più attivi: talvolta, entrare a far parte del movimento significa anche semplicemente potersi occupare di tematiche che non sono mai affrontate dalla politica ufficiale, come l’ecologia».

 

In questo momento, tuttavia, il tema caldo sempre essere uno solo: «Stop allo scarafaggio», recitano i cartelli dei numerosi picchetti antigovernativi che si stanno svolgendo in varie città della Bielorussia, con riferimento Lukashenko. Le elezioni del 9 agosto potrebbero davvero segnare una svolta nella storia del paese, anche se già sono iniziate le incarcerazioni di candidati dell’opposizione e la repressione delle manifestazioni di piazza: la crisi sociale ed economica provocata dalla Covid-19 e l’esaurirsi di alcune condizioni che hanno favorito il mantenimento del potere da parte dell’attuale presidente (non da ultimo, il sostegno russo che proprio in questi giorni pare essersi incrinato) indicano che l’esito delle votazioni non tende a essere favorevole al blocco di governo che detiene il potere dal 1994. Se così dovesse essere, sarà certamente anche merito di quanti e quante – in tutti gli anni di regime – sono rimasti “in movimento”.

 

(testimonianze raccolte a Varsavia nel novembre 2019)

Foto di copertina tratta da una campagna per la liberazione del prigioniero politico bielorusso Nikita Emelianov