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Alla destra del Cane. Alexandre Kojève, hegeliano di destra

Le sue lezioni sulla “Fenomenologia dello spirito”, tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études e pubblicate nel 1947, segnarono un’intera generazione di intellettuali francesi, da Lacan a Sartre, da Merleau-Ponty a Bataille

Verrà un giorno in cui, parlando di Kojève, ci liberemo dell’elenco.

Da quando è morto a Bruxelles nell’anno di grazia 1968, a qualche giorno dal Maggio, chiunque lo nomini, studiosi serissimi o parvenu affascinati dal mito, chiunque ne parli si tutela dalle perplessità dell’uditorio facendo un elenco. Come a dire che, benché ignoto, Kojève è notissimo. Basta pensare all’elenco. Di cosa, di chi? Di tutti gli intellettuali francesi o francofoni che lo conoscono a lezione, che ne sono influenzati finché morte non li separa. Di storie e storielle di cui è protagonista, narratore, falsario. Come quella di Lacan che corre a rubargli il concetto-chiave della psicoanalisi a venire. O di Jacob Taubes che lo mette sul piedistallo: «il più grande filosofo vivente!». Di Allan Bloom che ci va a cena al Quartier Latin. Di Kandinsky che è lo zio Vassja. E avanti ancora.

Finiti i riti di auto-legittimazione, occorre dirlo, Aleksandr Kožévnikov, russo fino all’Ottobre poi esule in Germania e infine in Francia, per tutti Kojève (1902-1968), fu filosofo hegeliano. Poi sì, fu anche mandarino di livello nella IV e V repubblica francese, commerciante di formaggi nella III, sospetto di spionaggio all life long, partigiano con grandi entrature a Vichy, caffeinomane a Weimar, globetrotter affamato nel dopoguerra. Ed è un altro elenco, in effetti.

E allora concentriamoci sul suo Hegel. Kojève ha scritto tanto anche di Kant e di Platone, ma solo grazie al suo Hegel possiamo stilare elenchi. Perché solo Kojève ha capito Hegel. Lo afferma nelle considerazioni preliminari di quel prodigioso inedito chiamato La nozione di autorità (datato «Marsiglia, 16 maggio 1942», riesumato nel 2004 e uscito da noi con Adelphi come quasi tutto il resto): «bisogna dire che la teoria di Hegel non è mai stata capita davvero e venne dimenticata molto rapidamente». Quale fosse la teoria di Hegel Kojève l’aveva detto qualche riga prima: è quella «che riduce il rapporto dell’Autorità a quello del Signore e del Servo (del Vincitore e del Vinto), dove il primo è stato disposto a rischiare la vita per farsi “riconoscere”, mentre il secondo ha preferito la sottomissione alla morte».

Brutale “macellaio” filosofico, Kojève aveva propagandato questa “polpa” del corpo morto hegeliano in un mirabile seminario – 1933-1939, what a time to be alive – tenuto di fronte a frotte di artisti, immigrati promettenti e normalisti. Quando nel 1947 un editor di nome Raymond Queneau si mise a trascriverli, apparve l’Introduzione alla lettura di Hegel. Per esergo aveva una citazione dei Manoscritti marxiani: «Hegel intende il lavoro come essenza, l’essenza dell’essere umano che si comprova». Sì, quell’Introduzione voleva mettere il lavoro al centro della dialettica – il lavoro come opera dell’essere umano quale agente negativo. Fondando uno Stato sul lavoro, come usava, Kojève aggiornava Hegel a Marx – così pareva – con un lessico tutto antropologico, tutto filosofia dell’esistenza, e in alcune appendici, alcune note proponeva uno «Stato» finale dove i lavoratori diventano cittadini fatti e finiti, che si riconoscono e lavorano il meno possibile, perché la natura è tutta «domata» o quasi. Quasi non sono più uomini.

Erano tempi interessanti, e convulsi: Leo Strauss, finito a New York dopo la persecuzione, ne parlò come «libro completo e intelligente al tempo stesso», ma poi aggiunse che non era vero che nello Stato finale ci sarebbe stato il riconoscimento reciproco universale. Né tantomeno ci sarebbe stata la soddisfazione (l’unica soddisfazione, caso mai, la darebbe la saggezza. Caso mai). E non è che quel «cane morto» (© Karl Marx) di Hegel aveva mai detto cose simili: fine dell’uomo, fine della storia. Proprio no.

A dire il vero, prima del 1933 Kojève non si era mai occupato di Hegel. Poi quell’anno si trova a sostituire Alexandre Koyré e, con un piccolo aiuto dagli amici (Koyré ed Eric Weil), attacca con ferocia il suo tema. Sceglie un solo libro: la Fenomenologia dello spirito. Al suo interno un solo capitolo da cui far scaturire la sua lettura: lo sdoppiamento dell’autocoscienza. Hobbes, la paura della morte violenta, la lotta tutti contro tutti, è sullo sfondo. Ma soprattutto bisogna riunire Marx (lavoro & rivoluzione) e Heidegger (finitezza & temporalità) nelle pagine della lotta servo-signore. Heidegger in Francia è pressoché sconosciuto (salvo Corbin, Bespaloff). Pochissimi sanno che intanto fa il rettore nazista a Friburgo.

Kojève ne tira fuori un’epopea. Pensa alla lotta e al lavoro come princìpi-chiave che Hegel avrebbe estratto dalla vita per far nascere l’essere umano. La lotta e annessa vittoria del Signore la chiama antropogenesi. È l’inizio, il vero inizio della storia. Il resto è noto: il servo lavora, il signore comanda. Il servo prende confidenza con la realtà, il signore la perde. Il servo si appropria dei mezzi di produzione, impara infine a lottare e fa la rivoluzione. Stravince e fa lo Stato finale – Kojève lo chiama «universale e omogeneo», pensa a Napoleone e alla Rivoluzione Francese quando commenta Hegel, pensa a Stalin quando proietta sul contemporaneo. Pazienza per le purghe. L’obiettivo è lì, a portata di mano: cittadini tutti uguali, che si riconoscono e agiscono in base a un principio di equità. Fine della storia.

Ma conta anche quel che è stato in mezzo. Conta, prima e dopo il lavoro, la lotta. E qui Kojève vede Hegel sotto una lente strana, mai vista prima. Punta tutto sul Desiderio – mette sempre la maiuscola, un profluvio di maiuscole. Il desiderio del desiderio dell’altro: ecco il segreto, il motore della dialettica e della storia. Perché chi perde dimostra angoscia, dimostra mera animalità, attaccamento alla vita, non vi istituisce un rapporto negativo – vi aderisce e basta. Invece chi vince – chi ha l’Autorità, dirà in quel testo rimasto in un cassetto – è colui che ha dimostrato di non temere (non avere angoscia) la morte in battaglia, ma di volere impiantarsi nella mente altrui come un «valore» a sé: volere essere riconosciuti come valore autonomo. A generare l’autonomia, a generare l’uomo è una «lotta a morte di puro prestigio».

Kojève vede Hegel sotto lenti speciali, d’impianto recente: Marcel Mauss col suo Saggio sul dono, dove aveva fissato lo spreco come costante antropologica nella rivalità tra capi-tribù. E Carl Schmitt, col suo amico-nemico – la «possibilità reale» di uccidere come fattore determinante del “politico”. Se Mauss era lì e teneva corsi, preoccupato delle derive di certi suoi ascoltatori (Caillois, Bataille), Schmitt invece – con le sue infatuazioni naziste – era pressoché sconosciuto oltre il Reno. Ma Kojève ha più d’una notizia del suo scritto più importante, Il concetto di “politico” (forse da Strauss, che a Schmitt doveva molto nel bene e nel malissimo). Tanto che in un enorme trattato giuridico – il Saggio di una fenomenologia del diritto scritto nel 1943 e lasciato inedito – lo cita due volte: «suppongo note queste due categorie fondamentali, specificamente politiche», dice. Le due categorie sono l’amico e il nemico. Il commilitone, il brother-in-arms, precisa, è l’amico. Il nemico è invece il «nemico militare, che deve cedere o morire; e se non cede e non è ucciso, fa morire». Quella scena complessa della Fenomenologia dello spirito appare ridotta a un crudo confronto bellico, dove sono in gioco dominio e obbedienza, minaccia e sottomissione. E questo, proprio questo, sarebbe specificamente politico. Questa sarebbe la politica.

Che poi per Hegel non sia così, che vi sia un universo di relazioni concrete sociali e statuali, che il “riconoscimento civico” hegeliano sia composito (giuridico, economico, etico) e soddisfacente, Kojève lo sa bene – e lo mima pure nel saggio giuridico. Ma per l’eco suscitata contano i fatti, gli scritti noti.

Anche di fronte al plauso dello stesso Carl Schmitt che ne legge il commento hegeliano e gli scrive ammirato, Kojève lascia tutto il suo versante politico – il diritto, l’autorità, i piani geopolitici dipinti a fine guerra – nel silenzio, nell’inedito. Al pubblico, ai contemporanei, preferisce tracciare di sé un’immagine para-esistenzialista e insieme ironica. Predicare l’imminenza o addirittura la “realtà” della «fine della storia». Sovietica, americana, cinese, nipponica, a seconda dei casi, delle provocazioni, delle note aggiunte fuori tempo massimo, comunque intesa la «fine della storia» sarà una macchina mitologica efficacissima – un dispositivo di neutralizzazione politica. Allan Bloom lo adorerà. Il micidiale Fukuyama ne farà un cocktail post-nietzscheano servito con olive escatologiche. Schmittismo e liberismo si abbracceranno invaghiti sotto un ombrello di maiuscole.

Strano a dirsi, per entrambi la politica sarà affermare di essere un valore per altri, come un Achille, un Aiace, per poi gestire la lunghissima fine di ogni conflitto con l’annoiata sapienza del negoziatore di trattati commerciali, mentre il desiderio va in giro a cercare negazioni e il riconoscimento della propria realtà umana è sancito «ragione ultima di ogni emulazione tra gli uomini e di ogni lotta politica». Davvero tanto di ciò che Kojève ha licenziato per la stampa corteggia una nuova definizione di aristocrazia, all’altezza del trionfo di una borghesia inedita, globalmente spalmata. Lasciando agli oppressi molto consumo e il solo olezzo della lotta passata.

Un giorno, quando ci libereremo dell’elenco di coloro che ha influenzato, plagiato, rimato, nel firmamento hegeliano vedremo Kojève per ciò che è stato nel pensiero del Novecento. Costellazione del Cane – vivo, morto –, in alto a destra.

 

Immagine di copertina: Black Circle, Kazimir Malevich, 1915