MONDO

Afghanistan, i nodi di un negoziato appena iniziato

Mentre in Italia i due ministri battibeccano sull’uscita del paese dal conflitto, in Afghanistan la tregua rimane ancora appesa a un filo

Il fatto che il ministro degli Esteri Moavero Milanesi abbia detto di non saperne nulla, all’indomani delle indiscrezioni sul ritiro dall’Afghanistan dei soldati italiani nell’arco di 12 mesi deciso dalla ministra Trenta, è non solo anomalo e imbarazzante ma la spia di due debolezze. La prima riguarda una scelta evidentemente non condivisa all’interno del governo se un ministro dice una cosa e l’altro, in un certo senso, la smentisce. La seconda riguarda invece una debolezza strutturale degli ultimi governi del Paese, di centro sinistra come di centrodestra e ora di indefinito colore: quella cioè di aver affidato al ministero della Difesa la gestione della guerra afgana, un trasferimento di poteri che bypassa il primo ministro e il titolare della Farnesina, le due figure istituzionalmente deputate alla gestione di un conflitto. Anche un terzo elemento è di una certa gravità: l’aver ignorato il parlamento (e persino il consiglio dei ministri), come se una decisione tanto importante – il ritorno dei nostri soldati da una guerra che dura da 17 anni – possa essere una misura che si decide con un provvedimento amministrativo da parte di un ministero. È la spia di un processo lungo che ha visto nel tempo diminuire la presenza della diplomazia e affermarsi la primogenitura delle armi.

I premier italiani hanno smesso di visitare l’Afghanistan lasciando l’incombenza ai ministri della Difesa. Questi ultimi, ormai vestiti in mimetica come se fossero soldati e non rappresentanti civili di un governo, si guardano bene dall’andare a salutare per primo il presidente afgano in carica. Passano in rivista le truppe e, se va bene, incontrano il loro omologo o, più spesso, i vertici Nato in un Paese dove l’occupazione militare è stata la cifra di una “missione di pace” approvata – si disse allora –­ per combattere il terrorismo ma anche per sostenere lo sviluppo, la libertà delle donne, i diritti umani. Se la forma è anche sostanza, la beffa di due ministri che battibeccano nientemeno che sulla fine della partecipazione a un conflitto, non è che la logica conseguenza di questo percorso. Debole (perché demanda in realtà agli Stati Uniti la decisione se si debba o meno restare in Afghanistan) e pericoloso (perché abitua i cittadini a pensare che il tema della guerra appartenga soltanto alla sfera militare). Da questo punto di vista, anche la società civile italiana non è esente da critiche. L’associazionismo italiano ha lasciato scorrere l’acqua della guerra afgana – la più lunga della storia recente – come un flusso tutto sommato di ordinaria amministrazione. Distratta da nuovi conflitti (Siria, Kurdistan, Libia) si è dimenticata di quello più vecchia: la madre di tutte le guerre a cavallo del secolo che, nel dicembre prossimo, compirà 40 anni.

Intanto, se il condizionale è d’obbligo nelle questioni afgane, anche la bozza d’accordo che i talebani avrebbero concordato nel Qatar con l’inviato americano Zalmay Khalilzad va trattata con prudenza. Dopo quasi una settimana di colloqui diretti, Khalilzad e la rappresentanza politica talebana che ha sede a Doha, sono arrivati a un accordo di massima su alcune questioni fondamentali anche se non del tutto risolutive. La prima riguarda un calendario d’uscita delle truppe straniere dal Paese (Nato compresa, che – come ha già ha fatto Roma – si adeguerà alle scelte americane), precondizione per trattare il resto. Gli americani avrebbero anche ottenuto garanzie su un’uscita indolore senza attacchi di sorpresa, mentre i talebani si sarebbero impegnati a non avere nessun legame né con Al Qaeda né con lo Stato islamico. Gli altri punti nevralgici – il dialogo col governo di Kabul e il cessate il fuoco – restano invece dei nodi, non secondari, da sciogliere. Non è nemmeno chiaro se Washington potrà conservare l’utilizzo – magari con un ridotto numero di soldati – della base aera di Bagram, hub strategico in caso di conflitto con Mosca o Teheran. Difficile che gli americani vi intendano rinunciare.

Se c’è una buona notizia è che la discussione va avanti e che qualche punto è già in agenda. La seconda è che ci ritiriamo (se Washington non cambia idea) dall’Afghanistan. Quella cattiva è che per ora non c’è nulla di ufficiale e, soprattutto, che i fucili continuano a sparare. Non solo, sia Khalilzad sia i talebani devono adesso avere luce verde dai rispettivi capi: Donald Trump, un presidente ondivago e umorale, e mullah Akhundzada, che pur avendo scelto come capo negoziatore mullah Baradar – considerato una “colomba” – deve render conto a un movimento per nulla omogeneo, che comprende correnti e ideologie differenti più o meno radicali (e anche qaediste). Lo dimostra la nascita di molte “shure” (consigli) ognuna delle quali ha il suo sponsor e una sua agenda personale. Infine per adesso i talebani non intendono rinunciare all’offensiva invernale condotta con notevole intensità e che consente loro di negoziare da una posizione di forza. Potrebbero magari concordare una tregua, ma non sembrano disposti a trattare il loro rifiuto di parlare con il capo del governo di Kabul, Ashraf Ghani, relegato a una figura di comparsa sulla strada molto in salita di un negoziato che è appena all’inizio.