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Addio maestro. Per farla finita con l’idea di autore

Con Bernardo Bertolucci muore una delle figure storiche del cinema italiano che ha contribuito a costruire l’immaginario del ’68, del movimento operaio, della sinistra. Ma con Bertolucci tramonta definitivamente anche la figura dell’Autore, legata all’idea di una produzione filmica individuale, frutto del genio (quasi sempre) maschile

Le horror story legate ai comportamenti degli autorevoli del mondo del cinema non sono solo americane, come ha svelato la lotta globale del #metoo e del #wetoogether. Il velo di Parrasio è stato squarciato facendo emergere le numerose storie nascoste dietro al fascino delle loro immagini. Storie scabrose, di violenza e supremazia maschile. Storie dimenticate o ambiguamente raccontate che oggi, però, assumono un peso da cui non è più possibile prescindere. Quello che i movimenti femministi stanno costruendo, infatti, è un altro modo di raccontare, di nominare, di guardare e il cinema, intreccio di regimi spettacolari e narrativi, celebrazione di una retorica dello sguardo e indagine che intreccia le immagini, gli apparati di immagini e la produzione di immagini, diventa oggi un ottimo terreno di svelamento.

Come hanno titolato molti giornali, in questi giorni ci ha lasciati l’ultimo imperatore del cinema italiano, la cui sovranità, appunto, è animatamente dibattuta tra i numerosi articoli e commenti nel web e sulle pagine culturali. Ma attenzione, è la sovranità in quanto marca di genere da sempre legata al genio creativo dell’artista a essere – giustamente – messa in discussione. Il cinema di Bernardo Bertolucci continuerà a essere celebrato e ricordato come una delle grandi sinfonie del secolo passato.

È un compito difficile quello di ricordare. Ancor di più se il ricordo è legato alla solennità della morte. L’esercizio della memoria in questi casi assume la forma della commemorazione, intreccio della dimensione pubblica della cerimonia con quella personale del lutto.

Proviamo allora a fare un esercizio vero di memoria, a mettere in relazione il presente in cui si parla con il passato di cui si parla. A dare spazio alla dissonanza.

Non ci auguriamo che a tramontare siano i suoi film, oggetti culturali che meritano di evolversi insieme ai loro spettatori, ma quell’auratica presenza divistica tipica dei registi-autori della seconda metà del secolo scorso. Più acclamati degli attori stessi, più divi delle attrici, sempre incarnazione del loro genio espressivo. Se è vero che a scomparire è l’ultimo grande auteur del Novecento, allora con lui può andare in frantumi un archetipo e il suo culto. Solo in tal senso la sua morte ci dà l’opportunità di fare una riflessione – forse già fuori tempo massimo – per farla finita con l’idea di autore. E per il tramonto di un’epoca, antica quanto l’arte stessa, di certo non dobbiamo essere in lutto.

 

 

Il compito più difficile è sicuramente il nostro: dobbiamo essere all’altezza del grande addio, salutare il topos dell’artista, la sua funzione e con essa i miti della creazione che prevedono la donna come grande Altro del processo creativo. E Bertolucci in quanto “maestro” ne rappresenta indiscutibilmente l’evidenza, quel principio autoritario e autoriale che oggi merita profanazione. All’autore in carne e ossa, colui che ci ha già lasciati, auguriamo invece che riposi in pace.

Del resto la stessa Politique des auteurs è nata dalle ceneri dei padri, come sapeva bene Bertolucci che, da fratello delle Nouvelle Vague europee, intentò anche lui l’assalto alla sua personalissima eredità paterna. Si potrebbe attraversare tutta l’opera filmica di Bertolucci all’insegna dei parricidi simbolici: da Prima della rivoluzione a Strategia del ragno fino a Piccolo Buddha passando per Il Conformista, e al contempo rintracciando i riferimenti alla poesia del padre Attilio (“Come se fossi morto mi ricordo…”).

Proprio da quei cadaveri nasce la mise en scène come espressione del significato interiore del regista. Premessa questa in un certo senso ambigua e che conferisce al maestro alcuni criteri di valore da cui scaturisce l’intrinseca qualità distintiva del film.

Quando infatti nell’inverno del 1962 Andrew Sarris traduceva sulle pagine di “Film Culture”, e dunque nella cultura anglofona, lo spirito della politique des auteurs, rafforzava le basi per un glorioso ingresso del cinema nel mondo delle arti, architettato sui tre cerchi concentrici che dall’abilità tecnica portavano al significato interiore passando per lo stile personale. Si innervava così in quei registi, che a ben vedere faranno la storia del cinema, la funzione dell’autore unico, universale, uomo e quasi sempre bianco ed eterosessuale, come quella storia ci ha insegnato.

Bertolucci ha saputo mantenere quel personalissimo carattere che lo ha reso un autore europeo persino in un colossal come fu L’ultimo imperatore, che lo rende tutt’oggi l’unico italiano ad aver conquistato l’Academy con ben nove premi Oscar. Carrello, dolly, panoramica come strumenti a favore della storia, del respiro, della suspense. Con queste armi potenti ha attraversato oltre mezzo secolo e raccontato il carattere mitico-epico del Novecento, fino a essere superato dal suo stesso tempo e per questo, probabilmente, ripiegato nel privato di un racconto casalingo come fu il voyeristico The Dreamers. Gli ultimi anni, non sono già più i tempi degli spazi vasti della pianura padana, terra del Po eletta dal cinema degli autori, né gli ambienti claustrofobici de L’assedio, film girato in un vecchio appartamento di Piazza di Spagna e che incarna senza timori lo spirito degli anni Novanta. Nel film sul Sessantotto francese, invece, come anche con l’ultimissimo Io e te, già ci sono tutti i segni di un cinema che non riesce più a nutrire la sua giovinezza, ripiegando nella stanchezza di un atteggiamento borghese tipico di una figura intellettuale ormai fuori forma e rivolta solo verso se stessa. Ma come pretendere che un autore svanisca dalla propria immagine? Del resto Bertolucci è già da sempre un borghese colto e in quanto tale incontra il movimento operaio e il comunismo (Prima della rivoluzione e, in modo diverso, Novecento) facendo esplodere nelle immagini l’intreccio tra politica e desiderio e contribuendo così a costruire la storia del nostro immaginario. Storia con cui oggi siamo chiamati fare i conti.

 

 

Ciò che a un autore si deve chiedere può essere piuttosto di restituire al pubblico il come delle immagini, che abbia l’onestà intellettuale affinché la gloria personale si trasformi in una festa collettiva.

Spesso sono alcune scene a incidere nella memoria, come fu la celebre “scena del burro” nella storia del cinema, nota anche a chi il film, probabilmente, non lo ha mai visto e a chi, proprio per ciò che sappiamo su quella scena, non lo vuole vedere. Più nota del rogo che si fece poi di quella pellicola considerata blasfema e moralmente impura e per cui Bertolucci perse temporaneamente i suoi diritti civili. E sicuramente più nota della violenza che subì la giovanissima Maria Schneider, umiliata su quel set in nome di un’improvvisazione. A lei, certamente, quelle immagini andrebbero restituite.

Non è più, come nel 1973, una morale a fare il processo a quel film e al suo autore, ma l’urgenza di raccontare il costo pagato silenziosamente da una giovane donna che rimase schiacciata dal peso della sua stessa immagine ottenuta senza permesso. Donna che denunciò la violenza, e per cui ricevette le scuse solo post mortem. Abbiamo imparato dai movimenti femministi che il mancato consenso è violenza. Non dovrebbe esserci bisogno di aggiungere altro.

Ma sarebbe lunga la lista delle celebri scene costruite su impalcature ambigue e passate alla storia silenziandone i rumor. Pensiamo a Shelley Duvall vessata e umiliata durante le riprese di Shining o a Uma Thurman, che dichiarò di aver rischiato la vita sul set di Kill Bill in nome di una verità espressiva altrimenti difficilmente ottenibile – secondo il maestro Tarantino. Giunge allora una domanda ineludibile, semplice ma di cui siamo in attesa di risposta: cosa c’è da dover estrarre da questi corpi oltre a quanto un’attrice non metta per scelta a disposizione su un set? A cascata ne viene in mente un’altra: in che modo una tale sistematicità di abuso si è configurata come metodo? Ciò che certamente non è più sufficiente è la giustificazione che passa per l’alibi estetico, come anche l’idea che l’arte possa essere separata dall’artista o dal suo produttore. E qui siamo ben oltre l’episodico e ben al di là del regista appena scomparso.

Di cosa un’immagine sia l’immagine, al di là e oltre il regime del visibile che in essa si manifesta, è forse una delle domande a cui non dovremmo mai smettere di provare a trovare una risposta.

Salutiamo, dunque, insieme alla sovranità dell’autore anche la funzione della sua musa e con questa un’idea perversa di proprietà.