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Almodóvar e la sua messa in scena con “Dolor y Gloria”

In corsa per la Palma d’oro, Pedro Almodóvar mette in scena il suo cinema e, in parte, anche la sua vita. “Dolor y Gloria”, già in tutte le sale italiane e in concorso a Cannes, è un favoloso dramma che riavvicina Almodóvar al suo pubblico

Si dice screening quando il corpo viene passato ai raggi x. Ma lo screening è anche la proiezione di un film, c’è l’idea dello schermo dentro, di screen appunto. Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar abbraccia questa ambiguità in senso pieno, con un film che scruta i segni dolorosi del corpo e il cinema come dimora gloriosa delle sue immagini residuali. Almodóvar presenta in concorso la sua anatomia della memoria, ne monumentalizza il corpo e, ricostruendo la traccia della sua storicità, anima il ricordo. Il cinema – come diceva qualcuno – non mette il movimento soltanto nell’immagine, ma lo mette anche nello spirito.

Ci sono continui cortocircuiti visuali in questo film. C’è un’ipermediazione che passa attraverso gli schermi e le schermate: dal desktop del computer come archivio di memoria allo schermo da cinema come dispositivo attraverso cui rendere attuale quella stessa memoria, oltre allo schermo classicamente inteso come cinema. Che siano interfacce digitali o schermi classici, i supporti vitali restano pur sempre delle superfici di proiezione. Questi schermi funzionano, dunque, come un cervello e queste immagini sono modulazioni di un fluire continuo nello spazio e attraverso il tempo. Le parti del corpo vengono scannerizzate, sono graficamente scomposte sullo schermo e trattate come fossero la geografia di un territorio. Sono immagini, però, fusioni di sensazioni e di idee, e non semplici cose.

È per questo che il film ci appare come un lavoro intimo di Almodóvar su se stesso e sul suo cinema, sul desiderio – el primer deseo– e sulle sue età. Un lavoro sull’idea di fiction e di identità, sulla loro relazione espressa con toni ironici e leggeri tanto da rende un favoloso il dramma. E c’è un po’ di follia naturalmente. Siamo immersi nei colori luminosi di un digitale lasciato nella sua fredda piattezza. Ma questa cromia un po’ kitsch veste bene quell’organismo non per forza bello e piuttosto disfunzionale.

 

 

Dolor y Gloria è un film che inizia letteralmente in apnea, con un corpo nudo immerso nell’acqua e segnato da una lunga cicatrice toracica, il cui ritmo è quello privato del fluire interno. Inizia così la storia di Salvador Mollo, un regista stanco e dolorante – interpretato splendidamente da Antonio Banderas –  che tutto sa e niente conosce del proprio corpo. È un lungo viaggio – di Salvador come di Pedro – che punta a ritroso: i fantasmi, il primo e febbricitante desiderio, i film, gli attori e i personaggi, in una parabola che termina con l’istituzione di nuove norme, con l’adattamento delle regole del set per un nuovo inquadramento della vita.

Il montaggio è lo strumento per riattivare una credenza sbiadita, per tornare credere al mondo così com’è per poter continuare a usare creativamente la materia di cui questo è fatto. Ci sono i flashback allora, che sono immagini della memoria ma anche organizzazione di un girato possibile ancora da montare. Sono inserti del passato che rivitalizzano il corpo e i suoi organi che, sebbene con alcune difficoltà, funzionano ancora.

È necessario dunque passare per le lacrime stupefacenti, per i tunnel uterini della dimora d’infanzia, per gli oggetti transizionali. Bisogna mettere in piedi una terapia, rifunzionalizzare l’esperienza di una vita gloriosa nella stanchezza di un doloroso presente. Questo film fabbrica un nuovo paradigma indiziario che raccorda Almodóvar con il suo pubblico, in parte ormai disilluso di poter ancora godere di una tale vitalità. La musica di Mina accompagna il finale. Sogno, sogno /e tu sei con me /chiudo gli occhi /e in cielo splende già / una luce. Come una sinfonia, questo film è il cuore di Pedro Almódovar di questi tempi.