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Non solo il cinema dei padri: i premi di Venezia 78

Si chiude Venezia 78 con una premiazione all’altezza del programma proposto. Tra i riconoscimenti più importanti c’è senz’altro quello di un universo femminile che rompe gli argini della rappresentazione monodimensionale.

Si è chiusa una delle edizioni più ricche degli ultimi anni della Mostra del cinema di Venezia. I premi avrebbero potuto essere altri tanto è stato alto il livello dei film, la cura nella scrittura, l’intensità di interpreti maschili e femminili. Eppure, le giurie hanno evidenziato, con le loro scelte, una tendenza che era apparsa chiara già durante i primi giorni del festival, quella per cui lo spazio finzionale di molti film ha finalmente restituito aria a un ruolo spesso relegato ai margini delle storie: quello della madre e più in generale di donne che hanno a che fare con l’esperienza della maternità.

All’interno della tendenza, già maturata da qualche tempo ormai, di aprire le storie a soggetti femminili (le regole del product placement lo impongono) e renderli finalmente più complessi (il linguaggio della diversità lo richiede), sembra essere giunta l’ora di fare i conti con una delle rappresentazioni maggiormente costrette in una sacrificata monodimensionalità.

“A todas las madres” è la dedica di Penélope Cruz alla cerimonia di chiusura, premiata con la Coppa Volpi per il ruolo di Janis in Madres Paralelas di Pedro Almodóvar, film che riconfigura completamente quei ruoli onnipotenti che avevano costellato il cinema del regista iberico. Un film politico che intende disseppellire i “resti” del franchismo, dei desaparecidos mai recuperati né identificati, attraverso una scrittura che tiene insieme il travaglio collettivo con la vicenda privata di famiglie ormai giunte alla generazione dei pronipoti. In Madres Paralelas, che più di altri sembra un testamento del regista (che infatti inizia la sua carriera proprio in concomitanza della fine del franchismo), c’è dunque un doppio binario: da un lato la microstoria, incarnata nella relazione tra due donne legate dall’esperienza trasformativa della maternità e dall’altro quello che riflette sulla trasmissione, sulla genealogia, sul rapporto critico tra fonti ufficiali e memoria privata. C’è quindi un corpo materno anche simbolico che però Almodóvar riesce a radicare nel terreno politico della lotta per la “memoria storica” spagnola.

Ma la ricchezza di questa 78° edizione risiede nel più ampio coro polifonico di “madri parallele” che dalla Spagna alla Repubblica Ceca, dagli Stati Uniti al Cile, dall’Egitto fino alla Nuova Zelanda, ha agisce sulla scena della Mostra.

Cenzorka

Il tema della separazione e del distacco, desiderato o costretto, della madre dai propri figli accomuna altri due film premiati per la sceneggiatura: Cenzorca (107 Mothers), premio Orizzonti per la scrittura a quattro mani da Ivan Ostrochovský e Peter Kerekes, e The Lost Doughter, premio all’esordiente Maggie Gyllenhaal, questa volta anche dietro alla macchina da presa. Il primo film, con un equilibrio splendido tra fiction e realtà penetra il carcere femminile di Odessa seguendo le storie di alcune delle donne madri detenute. Anche qui persiste il più generale tema della discendenza, cinematografica e paterna questa volta, che esplode in un carrello a seguire lateralmente la discesa della celebre scalinata della città del sud dell’Ucraina. L’uso del carrello, diceva Bertolucci, corrisponde al racconto della storia e qui, infatti, ne sancisce la fine. Una chiusura possibile solo per lo spettatore poiché la durata rarefatta della carcerazione ha tutt’altre coordinate ed è difficilmente restituibile. Il film lavora proprio sull’espressività vuota di quanto non può essere raccontato, scandendo la vita di queste donne attraverso la costretta routine con cui costruiscono la relazione con i propri figli, per i primi tre anni della loro vita.

The Lost Daughter

Di segno apparentemente opposto è The Lost Doughter. Leda (un’eccezionale Olivia Colman) è una donna colta e libera che vent’anni prima, sopraffatta dalla vita, ha lasciato suo marito e le sue due figlie piccole per poi tornare circa tre anni dopo. È un film di fiction che strizza l’occhio al genere noir per attivare un gioco di rime tra passato e presente e mostrarci quella separazione come evento traumatico, vissuto allora e ricordato oggi dalla protagonista. Il tempo del passato è come un rigurgito incontrollato e l’ammissione liberatoria di aver vissuto con fatica la maternità – una responsabilità schiacciante per Leda – si scontra inevitabilmente con l’oppressione del senso di colpa di averlo ammesso e soprattutto di aver allora mollato, anche solo temporaneamente, il suo ruolo. Sulla natura insolubile questo intreccio lavora Olivia Colman incarnando un personaggio costantemente imbarazzato, a tratti punitivo e insieme irriverente. Vi è però un problema proprio nella scrittura di questa complessità: le ingombranti immagini che popolano la mente di Leda non lasciano abbastanza spazio ai necessari conflitti che dovrebbero orchestrare il materiale filmico, lasciandoci incastrati nella statica relazione oppositiva tra i due tempi del racconto.

L’événement

Il palmares della giuria guidata da Bong Joon-ho conferma questa tendenza, soprattutto con il Leone d’oro, che premia il bel film di Audrey Diwan L’événement, secondo lungometraggio della regista francese dopo Mais vous êtes fous (2019). Si tratta di un film crudo – alla proiezione stampa cui abbiamo assistito, una donna è stata male ed è stata accompagnata fuori dalla sala dal personale medico – ambientato nella Francia degli anni ‘60, dove l’aborto è considerato un crimine da punire con la prigione. Qui, Annie, studentessa universitaria di lettere, rimane incinta, ma non è assolutamente intenzionata a rinunciare ai suoi studi e alla sua vita; inizia per lei un’odissea nella quale dovrà affrontare l’arretratezza culturale di una società tremendamente bigotta, la spocchia ipocrita di tutto il mondo maschile, padri e professori in testa, l’indifferenza del partner che l’ha messa incinta e soprattutto la surreale resistenza ideologica dei medici. L’événement è scritto in modo ineccepibile a partire dal romanzo autobiografico della scrittrice Annie Ernaux, che questa via crucis l’ha attraversata davvero nel 1963, e impeccabilmente diretto da Audrey Diwan, che sceglie uno sguardo molto diretto e con pochi compromessi e soprattutto dirige magnificamente la giovane Anamaria Vartolomei, che si carica il film sulle spalle e sul volto.

Il lotto dei premi è completato dal leone d’argento e dal Gran Premio della giuria,  che vanno ai due film Netflix del concorso, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, di cui abbiamo già parlato e che sarà il probabile candidato italiano agli Oscar, e The Power of the Dog di Jane Campion, bellissimo anti-western della regista di Lezioni di piano, che usa il crepuscolo dell’epopea west per imbastire un discorso forte sulla mascolinità tossica, attraverso un personaggio indimenticabile come il cowboy Phil (Benedict Cumberbatch), un post-macho che cela dietro ai suoi atteggiamenti stereotipatamente aggressivi un segreto doloroso.

Con i premi si chiude una delle più ricche e appassionanti edizioni della Mostra del cinema di Venezia: appuntamento al 31 agosto 2022.