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Venezia 1/”Quo vadis, Aida?”

Sugli schermi della 77° edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, “Quo Vadis, Aida?” della regista bosniaca Jasmila Žbanić racconta come si consumò il massacro di Srebrenica, il genocidio più feroce commesso in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Già premiata nel 2006 con l’Orso d’oro per Il segreto di “Esma, Žbanić” torna con un film di finzione doloroso di cui è anche sceneggiatrice

Aida, interpretata dalla bravissima Jasna Đuričić, è il primo piano su cui passa inesorabile il concatenamento crudele della Storia. È il soggetto che incarna il martirio (Quo vadis?) a cui sono state costrette donne, violate e stuprate, di mariti e figli (tra i settemila e gli ottomila uomini e ragazzi musulmani della città di Srebrenica) trucidati dalle milizie serbo-bosniache tra l’11 e il 19 luglio del 1995, di fronte al consenso delle truppe olandesi dell’ONU, presenti sul territorio per garantire la tutela della popolazione civile bosniaca musulmana. Aida è impiegata da questi come traduttrice, di mestiere è una maestra elementare, una donna colta, coraggiosa e intelligente che si trova accreditata a poter stare – nella contingenza del suo ruolo – all’interno del compound delle Nazioni Unite, fuori dal quale migliaia di persone in fuga dalla città si ammassano chiedendo la protezione che era stata loro garantita. Solo in trecento furono lasciati entrare, ma anche per loro, la Storia ci insegna, l’ingresso nella “fortezza” non garantì più di qualche notte al coperto. Aida è prima di tutto una donna che si trova a muoversi in un sistema maschile. Il badge blu le permette di transitare negli ambienti, oltre la sbarra di confine del compound, di entrare nelle stanze militari, di assistere alla mancata volontà di risoluzione, di insistere difronte a decisioni spacciate per regole. E al contempo quel badge la condanna a far parte di un assetto che sta mandando a morte migliaia di persone. Aida traduce gli ordini, facendo passare anche per lei, o piuttosto su di lei, l’orrore dell’accondiscendenza.

 

 

«Abbiamo superato la guerra, passerà anche questo», dice a suo marito, riuscito a entrare insieme ai due figli nell’area protetta. Sappiamo che si tratta di una menzogna, sebbene Žbanić abbia pienamente diritto a raccontarcela, mentre chi ha scritto la Storia avrebbe dovuto fare un servizio migliore.

Il film, infatti, ci parla di una grande menzogna: la falsa protezione delle Nazioni Unite, gestita da truppe impreparate e giovani soldati sotto shock; il falso negoziato tra i civili e gli occupanti guidati dal generale Ratko Mladić, oggi condannato all’ergastolo per genocidio. Le registrazioni originali, i video delle dichiarazioni rassicuranti che il generale rilasciò a garanzia della parola data, prodotti in quei giorni e tutt’oggi disponibili su youtube, vengono nel film rimessi in scena ribaltando così il rapporto tra immagine, documento e notizia. Sappiamo oggi che, mentre Mladić parlava, ammiccando alle donne e ai bambini, si stava già consumando il progetto di “pulizia etnica” dei bosniaci musulmani.

Il film non commette l’errore di correggere la storia: il racconto di Aida si sviluppa in modo credibile e misurato, restituendo il senso dell’abuso più feroce che può soffrire una vita. Non vediamo violenza fisica, nemmeno morte. Vediamo i fucili e ne sentiamo il frastuono, vediamo il viso di una donna mentre intuiamo che una mano palpa sotto la gonna.

 

 

Quo Vadis, Aida? è certamente un film lineare, senza la pretesa di offrirsi come opera in sé rivelatoria. È un bel film, forte ma misurato, dalla messa in scena potente e accurata. La sua forma classica ha il ritmo sostenuto del film di genere, mentre mette lo spettatore davanti a una memoria storica recente, se non al ricordo diretto, con cui si è fatto i conti con vent’anni di ritardo. Il j’accuse non è però solo rivolto a chi non intervenne allora, come le Nazioni Unite o gli Stati Uniti, quanto piuttosto alla banalità di un esito che troppo tardi abbiamo riconosciuto, invece, come pianificato. Ma soprattutto il film parla ai pericolosi meccanismi di ripetizione della Storia, perché mentre siamo commossi, a tratti straziati, di fronte alle immagini di questo film, dovremmo essere contemporaneamente consapevoli che ai Rohingya, nel nord dellaBirmania, qualcosa di molto simile sta accadendo ma senza testimoni.

Jasmila Žbanić è una brava regista e il suo merito più grande è la capacità di usare il cinema come linguaggio per elaborare una memoria ancora da alcuni rinnegata. Traduce per tutti noi, come la sua Aida.