EUROPA

«Siamo il 97%». Una conversazione su proteste e repressione in Bielorussia

A pochi giorni dalle elezioni, nel paese post-sovietico un’escalation repressiva tenta di bloccare le proteste contro il premier Lukashenko e la perdita di consensi verso il suo potere assolutistico. Un’intervista all’analista e blogger Mikola Dzudiak

La prima domanda è d’obbligo: «Hai paura a parlare di quanto sta accadendo?». L’analista e blogger Mikola Dziadok ha già subito la repressione dello stato bielorusso per quattro anni, dal 2010 al 2015, nei quali – da attivista di area anarchica e antifascista – ha sperimentato anche l’isolamento in carcere. Al momento, la situazione nel paese post-sovietico sembra appunto indicare un’escalation di arresti e persecuzioni: alcuni dei candidati per le prossime elezioni presidenziali del 9 agosto si trovano in prigione, per strada si svolgono picchetti anti-governativi e si verificano scontri fra polizia e manifestanti anti-Lukashenko. «Ma da quando il mio nome e il mio orientamento politico non sono più un mistero per le autorità», risponde Mikola Dziadok, «il senso della mia esistenza come attivista è dato dalla condivisione delle mie esperienze. Cercherò, insomma, di parlare il più possibile e attraverso ogni canale disponibile».

Proviamo ad analizzare con lui la complessa fase politica della Bielorussia, che potrebbe trovarsi sull’orlo di un cambiamento epocale.

 

Più ci si avvicina alle elezioni, più sembrano aumentare arresti e repressione da parte delle autorità… 

Diciamo che in Bielorussia è una specie di tradizione: in vista di qualche appuntamento politico, c’è sempre un’escalation di proteste, scontri e arresti. Al momento i due principali avversari del presidente Lukashenko, il blogger Sergey Tichanovsky e il dirigente di banca Viktar Babaryka, sono stati messi in carcere e il numero di prigionieri politici è salito ormai a più di venti.

Eppure, mi sento di dire, questa fase è radicalmente diversa dalle precedenti. Innanzitutto, le persone che scendono in piazza e decidono di partecipare attivamente ai sommovimenti politici sono tante, davvero tanto. C’è un meme che sta girando qui in Bielorussia: «we are the 97%», recita con riferimento al fatto che molti sondaggi danno Lukashenko al 3% [tanto che al presidente uscente è stato affibbiato il nomignolo di “Shasha 3%”, ndr]. Persino alcuni membri delle forze dell’ordine, dalla polizia al Kgb, hanno manifestato il proprio dissenso attraverso dei flash mob, sebbene in forma anonima. Inoltre, è capitato che anche i mezzi di informazioni mainstream siano stati critici nei confronti del regime, fatto davvero eccezionale. Ma soprattutto queste sono le prime elezioni in cui la stragrande maggioranza delle persone si sta informando attraverso strumenti alternativi, dai blog indipendenti a Instagram a Telegram: non a caso, sono stati arrestati anche alcuni amministratori di siti web o canali di messaggistica istantanea.

 

Sono segnali di un indebolimento di Lukashenko e del suo sistema di potere?

Non so se è lui a essere diventato più debole di prima, ma quello che certamente si può dire è che si sono fatte più difficoltose le condizioni in cui si ritrova a esercitare e provare a espandere il proprio potere. Davvero, si tratta del contesto elettorale forse a lui più ostile dal 1996 e il fatto è che le cause non dipendono da lui. Innanzitutto, la Bielorussia sta attraversando una crisi economica significativa: la Russia e il Fondo Monetario Internazionale hanno deciso di non erogare altri prestiti, andando a peggiorare una situazione già altamente compromessa; la pandemia di Covid-19, chiaramente, non ha fatto altro che acuire i problemi; a questo si aggiunga infine anche l’emergenza con il rifornimento di acqua potabile che si è sviluppata negli ultimi giorni…

La debolezza di un potere assolutistico come quello di Lukashenko è data dal fatto che, nel bene così come nel male, ogni cosa che accade viene imputata alla sua responsabilità diretta. Ecco allora che in un contesto negativo, la disaffezione nei suoi confronti aumenta in maniera esponenziale.

 

Nel frattempo si vota in Polonia e in Russia c’è stato il referendum istituzionale… queste nazioni possono giocare un ruolo nelle evoluzioni politiche del vostro paese? 

Ci sono alcuni analisti che definiscono Viktar Babaryka «l’uomo del Cremlino», ma io penso che non sia in alcun modo così. Se la Russia fosse stata dietro alla sua candidatura, la sua campagna elettorale avrebbe assunto tutto un altro aspetto. Anche gli scambi di messaggi fra Russia e Bielorussia che sono seguiti al suo arresto, hanno più che altro riguardato la nazionalizzazione della Gazprom Bank [a cui è a capo Viktar Babaryka, ndr] piuttosto che una qualche presunta crisi diplomatica.

Mi sembra dunque che in questo momento gli sviluppi del nostro paese si giochino prevalentemente sulla base di fattori interni. Ciò che va rilevato è che – insisto, complice la crisi economica e l’emergenza sanitaria – Lukashenko ha registrato un drastico calo di popolarità per quanto riguarda la sua immagine di “uomo al comando”. È significativo guardare anche a questa parabola: dopo il “golpe costituzionale” con cui ha ottenuto il potere nel 1996, l’attuale presidente ha provato a creare un insieme di valori forti in cui i cittadini potessero identificarsi. Evocava l’unità del popolo slavo, si richiamava all’esperienza dell’Unione Sovietica, si scagliava contro i capitalisti «barbari e selvaggi»…

 

Oggi una simile retorica non funziona più?

Più che altro oggi è chiaro che Lukashenko, con tutte le aziende di sua proprietà, è il primo e unico vero capitalista della Bielorussia! Sono davvero pochi gli argomenti a suo favore: «Sotto la sua presidenza non abbiamo mai avuto la guerra!» – è tutto quello che riescono a dire i suoi sostenitori. La sua retorica si è arroccata nel corso del tempo sempre più attorno allo spauracchio del “Maidan”, provando a far passare il messaggio per cui qualsiasi tipo di cambiamento politico avrebbe portato a un conflitto civile. Sul serio: i telegiornali di stato fanno passare le immagini dei riot statunitensi, suggerendo parallelismi con la situazione bielorussa.

La realtà è che i valori che Lukashenko in questo momento riesce a offrire al popolo corrispondono al vuoto pneumatico! Le persone sono stanche del suo modo di porsi, della sua mancanza di competenza… L’unica fiducia che ancora gli viene accordata è dovuta al sistema produttivo: la stragrande maggioranza delle aziende presenti sul nostro territorio appartengono allo stato e molti dei dipendenti restano fedeli al regime per paura di perdere lo stipendio.

 

Tutti gli altri scendono in strada? 

Si stanno verificando le manifestazioni più partecipate dalle proteste del 2017. Tanti vanno in piazza per supportare un candidato specifico. Per quanto riguarda i movimenti di sinistra – e quando parlo di movimenti di sinistra qui in Bielorussia mi riferisco in particolare al movimento anarchico e “antifa” – ci si unisce alle manifestazioni provando più che altro a capire il corso degli eventi.

Negli ultimi tre anni la repressione nei confronti degli ambienti alternativi si è inasprita, anche in seguito all’introduzione delle leggi contro l’“estremismo”. Pertanto, le forze di sinistra recentemente si sono più che altro preoccupate di sopravvivere e di non finire in carcere, invece che elaborare un piano organizzato.

Ma è vero che si sta creando una nuova atmosfera per cui persone che prima non si interessavano alla politica ora sentono l’urgenza di scendere in piazza. Nei blog, sui canali Telegram e su Facebook si cercano consigli, si discute di sperimentare nuove pratiche, si condividono messaggi contro il presidente. «Non avremo un Maidan, non ci sarà mai una rivoluzione in questo paese», ha ripetuto Lukashenko per anni. Questa affermazione gli si sta rivoltando contro.