ROMA

Ararat, l’ambasciata curda è a Testaccio

La rubrica Fuori Mercato va a Testaccio, alla scoperta di un pezzo di Kurdistan nel cuore di Roma.

Ararat è il nome del monte dove, secondo la Bibbia, è approdato Noè dopo il diluvio universale. Si racconta che l’Arca si trovi ancora tra quelle vette. Ararat è anche il nome di un barcone che il 26 dicembre del 1997 si incaglia davanti alla spiaggia di Badolato Marina, in Calabria. Oltre 800 curdi (donne, uomini e bambini) si rifugiano in un paese quasi completamento spopolato. Sono dovuti scappare dalla Turchia. Vengono accolti dal borgo calabrese. Soprattutto all’inizio, costituiscono una grande risorsa per un luogo destinato all’abbandono. Ne galvanizzano l’economia e la vita sociale. Qualcuno ci rimane a vivere.

Da quel link galleggiante tra Italia e Kurdistan prende il nome il centro-socio culturale curdo di Roma. Ararat viene occupato nel maggio del 1999, ma affonda le sue radici in alcuni avvenimenti degli anni precedenti. Durante i nineties l’Italia è terra di transito per i rifugiati curdi che fuggono dalle persecuzioni e dalle stragi dell’esercito turco. Iniziano a concentrarsi a Colle Oppio, dove cercano riparo. Ci sono i primi contatti con i ragazzi dei centri sociali, che portano aiuti e solidarietà. Nel frattempo, la questione curda irrompe nel dibattito politico italiano: ci sono due connazionali rapiti dal PKK, che li definirà sempre come “ospiti”, e un curdo giunto in Italia per trattare. L’uomo viene prima arrestato e poi liberato con l’obbligo di dimora presso la casa di Eugenio Melandri, europarlamentare di Rifondazione Comunista e presidente di Senza Confine. La questione curda è esplosa. L’Italia sembra un terreno fertile per l’intervento diplomatico dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan, che inizia a tessere relazioni e a fare pressioni sui parlamentari italiani ed europei. Nel frattempo, le rivendicazioni del popolo curdo cominciano ad attraversare il movimento italiano. Racconta Alessia, storica attivista dell’Associazione Senza Confine: “nel 1997 viene organizzato un treno della pace: 200 persone partono per Dyiarbakir per denunciare le persecuzioni dello Stato turco”. In quell’occasione “Dino Frisullo viene arrestato per la prima volta ed espulso”. Dino è una figura centrale nei rapporti tra italiani e curdi: “era uno di loro” ripetono in tanti. La seconda volta che viene arrestato in Turchia, l’anno successivo, rimane in cella per 40 giorni, durante i quali chiede di non fare una campagna per la sua liberazione, ma per la liberazione di tutto il popolo curdo.

Non è un caso, dunque, quello che accade il 12 novembre 1998: un evento enorme per i curdi, centrale anche in questa storia. Il Presidente Abdullah Öcalan, “Apo”, dopo essere stato costretto ad abbandonare la Siria e aver cercato invano rifugio in Russia, giunge a Roma. Si consegna alle autorità italiane e chiede asilo. L’esito della storia è, purtroppo, ben noto: invitato a lasciare la penisola, andrà in Kenya e lì sarà rapito dai servizi segreti turchi. Che lo condanneranno prima a morte e poi, su pressioni europee, alla prigione a vita in condizioni durissime nell’isola di Imrali. In tutta questa storia i servizi segreti e il governo greco giocano un ruolo estremamente ambiguo: prima sembrano proteggerlo, poi, dicono alcuni, lo consegnano. Il giorno dopo l’arresto, avvenuto il 15 febbraio 1999, ci sono scontri e disordini in tutta Europa: molte ambasciate greche e sedi ONU vengono occupate, diversi diplomatici sono presi in ostaggio, alcune persone si danno fuoco, ci sono presidi e manifestazioni dalla Russia alla Germania, dall’Armenia alla Svizzera, dal Belgio all’Olanda. Anche a Roma si verificano duri scontri: durante un corteo in cui curdi e solidali sfilano insieme, i ragazzi dei centri sociali attaccano la polizia e assaltano con un ariete gli uffici della Turkish Airlines.

Nei due mesi in cui il Presidente è rimasto in Italia è successo qualcosa. Migliaia di curdi hanno raggiunto Roma, tanti compagni si sono organizzati per sostenerli. Franco, uno di loro, ricorda: “con piazza Kurdistan inizia un rapporto strutturato tra i movimenti italiano e curdo, prima attraverso la rete di solidarietà organizzata per aiutare le persone accampate al Celio, poi con le lotte condotte insieme”. Una di queste vuole strappare uno spazio di accoglienza, confronto e organizzazione per i curdi che vivono in Italia. I primi due tentativi vanno male: da un edificio nelle vicinanze di piazza Bologna si decide di uscire; da un altro su via Nazionale si viene sgomberati. Il terzo tentativo va a buon fine: è il 21 maggio del 1999, una palazzina abbandonata dell’Ex Mattatoio di Testaccio diventa Ararat. Viene anche fondata un’associazione: Dino Frisullo è eletto presidente.

Al posto di macerie e rifiuti, gli attivisti italiani e curdi realizzano un centro autogestito che svolge diverse funzioni: accoglienza, produzione culturale, mutuo soccorso. Sono migliaia i migranti che nel corso degli anni trovano rifugio ad Ararat. Non ci sono numeri certi. Yilmaz Orkan (presidente dell’associazione tra il 2005 e il 2010) parla di almeno 10.000 persone. Sono soprattutto curdi, ma non solo. Chiunque ha bisogno di un tetto ed è disposto a rispettare le regole definite collettivamente viene accolto. Il centro diventa anche un punto di riferimento importantissimo per la produzione culturale curda. In Turchia, lo Stato da cui provengono la maggior parte dei rifugiati, la lingua, le danze, i balli e le musiche tradizionali sono vietate. Ararat rende possibile riscoprire questo patrimonio ed esprimerlo liberamente. Vengono organizzate iniziative politiche e culturali di varia natura. La più importante è sicuramente il Newroz: il capodanno curdo che viene festeggiato danzando intorno a un enorme falò e che ben presto diventa un appuntamento imperdibile anche per tanti romani. In tutta Europa, quello romano è l’unico centro culturale curdo in cui questa ricorrenza viene festeggiata secondo il rito tradizionale, con quel fuoco che molti curdi non hanno mai potuto accendere a casa loro: la Turchia, infatti, lo vieta.

E ancora: Ararat è il luogo in cui i legami di solidarietà politica e culturale con il Kurdistan vengono stretti e organizzati. Le campagne di pressione per il riconoscimento dei diritti di questo popolo, così come la raccolta di aiuti concreti, trovano nel centro un punto di riferimento imprescindibile. Che dalla resistenza di Kobane in poi viene quasi riscoperto dai movimenti romani, anche grazie all’esperienza di Rojava Calling e a quella, storica, di Rete Kurdistan.

Racconta ancora Yilmaz: “i curdi non hanno uno Stato. I curdi scappano dagli Stati dove sono nati. Quindi non hanno consolati, ambasciate o istituti culturali. Ararat è tutte queste cose insieme”. Per esempio, “se un italiano vive all’estero e muore, i suoi amici o la famiglia si rivolgono agli uffici diplomatici per far rientrare la salma. I curdi si rivolgono ad Ararat”.

Ci sarebbe tanto altro da raccontare su questo luogo speciale. Per esempio le attività realizzate insieme al laboratorio di arte urbana Stalker: un buco nell’asfalto nello spiazzo di fronte al centro che diventa un giardino; un laboratorio multiculturale che rielabora in corda e rame il soffitto della Cappella Palatina di Palermo creando il “tappeto volante”, opera d’arte che gira il mondo ma lascia sempre un pezzo di sé ad Ararat; i pranzi insieme ai rom accampati poco più in là.

Come tante altre esperienze di autogestione di spazi occupati, anche Ararat inizia un percorso per la regolarizzazione, grazie alla delibera 26/1995. Nel novembre 2009 ottiene l’assegnazione dello spazio: il Comune deve riconoscere il valore politico, sociale e culturale che lì viene prodotto. Fissa perciò un canone sociale di affitto. Ararat inizia a pagare. “Paga anche gli arretrati degli anni precedenti, la manutenzione e diversi lavori di ristrutturazione dell’edificio”, racconta Yilmaz. Gli ultimi lavori di questo tipo vengono autorizzati dal Comune di Roma sotto la giunta Marino: proprio quella che voterà le delibere che hanno prodotto 800 lettere di sgombero in tutta Roma. “Abbiamo dovuto sospendere i lavori perché vogliono cacciarci. Ma se dobbiamo andare via, perché hanno autorizzato la ristrutturazione, che ci è costata un sacco di soldi?”, si chiede l’ex presidente. Il contratto di assegnazione, infatti, si sarebbe dovuto rinnovare a novembre del 2015. Già diversi mesi prima era stata presentata la domanda. Ma il Comune non ha dato alcun segno di vita, fino alla letterina che intima di lasciare l’edificio. A questa ha già risposto un presidio molto partecipato e un comunicato diretto a Tronca. Che finisce così: “i rifugiati curdi sono abituati a resistere e lo faranno anche questa volta”.

Resistenza, cultura, accoglienza, autogestione, musica, danze, sperimentazioni culturali, solidarietà attiva: Ararat è tutto questo e molto altro, un vero e proprio bene comune urbano che bisogna soltanto riconoscere e proteggere. Nessun bando pubblico potrebbe valutare tanta ricchezza.

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