MONDO

Turchia, l’ergastolo a Osman Kavala e lo spettro di Gezi

La corte penale di Caglayan a Istanbul ha emesso delle condanne pesantissime nei confronti di 8 persone individuate come i principali responsabili e organizzatori delle mobilitazioni nate attorno alla difesa di Gezi Park

La rivolta di Gezi non è mai finita: la scure repressiva continua a colpire duro in Turchia per chi ha preso parte alle proteste del 2013. Il 25 aprile scorso, in collegamento dal carcere di Silivri in cui è rinchiuso da più di 4 anni, l’imprenditore e filantropo Osman Kavala è stato condannato all’ergastolo aggravato per “tentativo di rovesciamento del governo” ai sensi dell’articolo 312 del codice penale turco. Gli altri sette imputati, Mücella Yapıcı, Çiğdem Mater, Hakan Altınay, Mine Özerden, Can Atalay, Tayfun Kahraman e Yiğit Ali Ekmekçi sono stati condannati a 18 anni di carcere per aver assistito al “tentativo di rovesciamento”, con la corte che ha deciso per il loro arresto.

Nel leggere le motivazioni della sentenza e le biografie degli imputati ci si rende immediatamente conto del paradosso delle accuse. Si tratta di importanti esponenti della società civile, architetti, registi, cooperanti, docenti universitari, avvocati, tra gli animatori più noti della piattaforma civica Taksim dayanışması(Taksim Solidarity), nata attorno alle mobilitazioni che hanno avuto l’epicentro proprio in quella piazza da cui prende il nome e che hanno segnato l’intero paese nell’estate del 2013.

Comminare pene così dure, con motivazioni che paventano tentativi di golpe, per persone che si sono sempre esposte a viso aperto e alla luce del sole, e che hanno rappresentato importanti associazioni nazionali, come ad esempio l’Unione Turca delle Camere degli Ingegneri e degli Architetti TMMOB, fa capire quanto ancora faccia paura il ricordo delle mobilitazioni di Gezi.

Una rivolta che fa ancora paura

Nonostante non sia facile comprendere questa sete di vendetta dopo nove anni, in cui il paese, così come il contesto regionale e internazionale, ha vissuto importanti trasformazioni, le condanne del 25 aprile evidenziano quanto quelle mobilitazioni abbiano rappresentato un passaggio cruciale nella politica turca dell’ultimo decennio.

Gezi ha segnato un cambio di passo radicale delle mobilitazioni del paese, saldando, forse per la prima volta, diversi settori della società e unendo differenti generazioni di militanti e persone comuni. Dalle mobilitazioni contro la gentrificazione e per migliori condizioni di vita nei quartieri informali delle metropoli, alle lotte del popolo curdo e dei lavoratori, si è arrivati ad un’inedita convergenza nel paese che ha coinvolto studenti, ambientalisti, ultras, mondo dello spettacolo e tanti altri soggetti che non si erano mai organizzati e uniti insieme prima.

Le settimane di mobilitazione che hanno reso piazza Taksim uno spazio liberato, e che si sono espanse a macchia d’olio in tutto il paese, hanno segnato un’intera generazione e hanno dato il via a processo costituente che ha portato, tra le altre cose, alla nascita di nuove formazioni politiche come ad esempio l’HDP.

E proprio questa capacità costituente di Gezi, unita al duro colpo subito dall’immagine di Erdoğan e del suo governo che all’epoca era ancora considerato un modello democratico per la regione a livello internazionale, ha scatenato quella persecuzione che non si ferma nonostante il passare del tempo ed il cambiamento radicale dei rapporti di forza.

Un processo politico

In Turchia si può parlare di un prima e di un dopo Gezi, per l’importanza che ha avuto quella mobilitazione nell’innescare una serie di processi politici che hanno segnato profondamente il paese.

Nonostante la dura repressione Gezi è riuscita, anche dopo la fine della mobilitazione di massa nell’autunno del 2013, a dare forza e speranza alle tante resistenze presenti in ogni angolo dell’Anatolia. Nei mesi successivi sono continuate manifestazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti di tutti, nonché quel processo costituente che ha avuto la capacità di riunire diversi settori dei organizzazioni sociali e di sinistra con il movimento curdo, facendo diventare una nuova formazione politica come l’HDP un attore chiave nel paese.

In tal senso potremmo far coincidere l’onda lunga di Gezi con l’importantissimo risultato elettorale dell’HDP alle elezioni di giugno 2015, altro passaggio decisivo della storia recente turca, che ha marcato un salto di qualità nella repressione governativa.

Il successivo annullamento del risultato elettorale, con la nuova tornata del novembre 2015, ha portato a quel punto di rottura che ha fatto scivolare la Turchia in uno scenario sempre più autoritario. La ripresa del conflitto nel sud-est del paese a maggioranza curda e poi il fallito golpe dell’anno successivo hanno decretato l’inizio di una nuova durissima fase politica che arriva fino alle condanne di qualche giorno fa per il processo su Gezi.

Il continuo silenziamento delle voci critiche nel paese ha seguito spesso uno schema ben preciso, con accuse non sostanziate da prove ed una onnipresente teoria del complotto tendente all’eversione dell’ordine costituito.

Secondo uno degli avvocati del collegio difensivo Akçay Taşçı:

«L’accusa ha affermato che il movimento di Gezi sia stato finanziato da gruppi di potere internazionali e imposto artificialmente. Secondo il teorema accusatorio al centro di tale progetto eversivo c’era Osman Kavala e che il suo finanziamento fosse stato distribuito da Taksim dayanışması (Taksim Solidarity). Tuttavia, l’ufficio del pubblico ministero non ha prodotto alcuna prova concreta per sostanziare tali accuse. D’altronde si tratta di un’enorme menzogna perché le mobilitazioni di Gezi Park sono state pubbliche e spontanee! Parliamo di circa 10 milioni di persone che hanno partecipato per settimane a manifestazioni spinte dalle proprie idee e dal desiderio di esprimerle insieme in piazza. Nonostante la mancanza di prove concrete, si è andati a processo, con il risultato di un’ovvia archiviazione. Tuttavia, nonostante questa assoluzione, è stata intentata una seconda causa che si è conclusa anch’essa con un’assoluzione. Però, questa seconda assoluzione è stata annullata dalla corte suprema e durante l’udienza del 25 aprile 2022 abbiamo assistito alla condanna degli 8 imputati».

Lo spettro di Gezi e il desiderio di vendetta del governo riappaiono prepotentemente nella vita politica del paese, in un periodo non casuale, dato che ci troviamo a poco più di un anno dalle fondamentali elezioni del 2023 che segneranno il centesimo anniversario della Repubblica turca. Con l’aggravarsi della crisi economia e un contesto regionale e internazionale segnato sempre più da venti di guerra, non sarà facile per Erdoğan riconfermarsi saldamente al comando. Circostanza che agita non poco l’attuale presidente che sta ponendo in essere diversi tentativi di polarizzazione del panorama politico e di innalzamento della tensione, con l’ennesimo attacco oltre confine nella regione curda irachena ed ora con il regolamento dei conti con la storia di Gezi.

Nel 2013 le mobilitazioni di massa avvennero in un contesto economico favorevole, con una buona reputazione della Turchia all’estero e con un alto consenso popolare dell’AKP. Oggi potremmo dire che la situazione è quasi completamente capovolta, nonostante la leadership di Erdoğan regga ancora. La repressione ha colpito duramente in questi anni, tra processi, arresti delle più importanti personalità politiche di opposizione (su tutte quello di Selahattin Demirtaş) e purghe nelle amministrazioni pubbliche per ogni voce critica.

Il clima di paura e l’impatto della pandemia sicuramente giocano a favore del regime, ma la reazione alle condanne del processo Gezi, con manifestazioni spontanee di migliaia di persone, segnalano quanto sia ancora viva quella parte di paese che continua a resistere.

«Naturalmente, il procedimento legale proseguirà dopo. Siamo pronti ad andare fino all’ultimo grado di giudizio della Corte Costituzionale, e se non dovesse bastare, ci rivolgeremo anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ristabilire la verità – conclude Taşçı – Nel frattempo porremo in essere ogni tentativo affinché i nostri compagni vengano rilasciati prima della fine dell’iter processuale. Sia nelle aule di tribunale che all’interno della società di sicuro questa lotta non finirà qui. Lo slogan di Gezi era “questo è solo l’inizio, la lotta continua”. Uno slogan valido ancora oggi!».

Tutte le immagini di Burak Su da commons.wikimedia.org