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Per la forza-lavoro del tessile, la pandemia è stata uno stillicidio

Secondo un’indagine elaborata dalla Clean Clothes Campaign, nel solo primo trimestre della pandemia, le lavoratrici e i lavoratori della moda hanno perso strutturalmente salari per 5,78 miliardi di dollari. Gli ammanchi sono da ricollegare all’annullamento di ordini e spedizioni da parte dei grandi marchi, che si sono tradotti in migliaia di licenziamenti

“I have to do this”: è questa la frase che riassume in maniera più puntuale la parabola discendente vissuta da Hla, un’operaia diciannovenne proveniente da Yangon, città più grande della Birmania e centro strategico di una delle industrie autoctone trainanti: quella del tessile.

Qui, nel corso del 2020, decine di fabbriche di abbigliamento – la maggior parte delle quali situata nel distretto industriale di Hlaing Tharyar – sono state indotte a chiudere i battenti dopo che i marchi della moda occidentali hanno annullato milioni di ordini a causa della pandemia, cagionando una perdita di posti di lavoro vertiginosa.

Tanto per rendere conto dell’estensione dell’emorragia, basti pensare che, secondo il ministro regionale per l’immigrazione e le risorse umane gli, Moe Moue Su Kyi, nel solo mese di settembre oltre 220 fabbriche nella regione di Yangon hanno presentato istanza di chiusura completa, chiusura temporanea o licenziamento.

Una situazione che grava soprattutto sulle donne, la porzione più consistente della forza lavoro coinvolta nella filiera, proprio come Hhla, funestata dalla perdita improvvisa del salario e costretta a prostituirsi per sfamare il suo bambino e aiutare i propri genitori: quando l’indotto di Yangon si è bloccato, il suo matrimonio è fallito, suo marito l’ha abbandonata e suo padre si è visto costretto a vendere la sua unica fonte di sostentamento (nello specifico, il risciò con cui sbarcava il lunario trasportando i passeggeri in giro per la città).

 

Giunta allo stremo, per Hla, reinventarsi come sex worker ha rappresentato l’unica via d’uscita plausibile per tentare di scacciare lo spauracchio della miseria.

 

Quello di Hla è un campione minuscolo, l’indice di un malessere sistemico che, allo stadio attuale, ha infettato l’industria della moda a una profondità non più trascurabile: il legame che intercorre tra i centri di produzione del “fast fashion” e l’azzeramento dei più basilari diritti salariali della manodopera impiegata nella filiera costituisce, ormai, poco più di un di segreto di Pulcinella.

Lo schema è sempre lo stesso: i grandi marchi delocalizzano nei paesi cosiddetti in via di sviluppo per infilarsi tra le maglie larghe della deregolamentazione, allentare i costi di produzione, sfruttare a proprio vantaggio i vuoti normativi concessi da legislazioni sul lavoro elastiche e permissive e infoltire le fila di un sempre più nutrito esercito industriale di riserva del tessile.

Tuttavia, la diffusione di Covid-19 ha contribuito ad agitare le acque, esasperando un quadro già drammatico in partenza: a confermarlo sono le stime dell’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro), che evidenziano come le importazioni dai principali Paesi esportatori di abbigliamento in Asia siano calate a picco fino al 70% nel primo semestre del 2020.

 

 

Foto di Mircea Ploscar da CC Search

 

Se è vero che l’esacerbarsi della pandemia ha messo sotto pressione l’intera industria della moda, sono soprattutto i lavoratori – e, in misura maggiore, le lavoratrici – a basso salario coinvolti nella sua catena di fornitura a sopportarne le conseguenze più drammatiche, come evidenziano le rilevazioni emerse dal rapporto Stipendi negati in pandemia, basato su un’indagine condotta dalla Clean Clothes Campaign – la più grande alleanza di sindacati e organizzazioni non governative attiva nel settore – con la partecipazione del Worker Rights Consortium e il contributo del Solidarity Center.

Il report prende in considerazione la situazione di sette stati chiave della catena di erogazione – Pakistan, Bangladesh, India (le regioni intorno a Delhi, Tirupur e Bangalore), Indonesia, Myanmar, Sri Lanka e Cambogia –, analizzando i mancati pagamenti e i tagli salariali avvenuti ai danni degli operai del tessile nel periodo intercorrente tra marzo e maggio 2020, in seguito all’imposizione di aspettative non retribuite, tagli pubblici, interruzione dei rifornimenti e annullamento di commesse da parte dei brand.

 

La fotografia dello stato dell’arte che se ne ricava è sconfortante: nei paesi assunti a campione dallo studio, i lavoratori hanno ricevuto strutturalmente il 38,6% in meno di quanto gli spettasse (circa 1,82 miliardi di dollari; in alcune regioni dell’India, si supera addirittura il 50%).

 

Inoltre, al fine di stimare il divario salariale globale maturato nel medesimo trimestre, i ricercatori hanno sviluppato due scenari complessivi, escludendo dal computo la Cina («dove è ragionevole ritenere che i lavoratori possano contare su un maggiore sostegno da parte del governo») e applicando, in via prudenziale, solo metà della percentuale media del 38,6%.

Il primo ha preso in considerazione 50 milioni di lavoratori con un salario minimo di 200 dollari al mese, impiegati nelle industrie globali dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature, stimando un divario salariale globale di 5,78 miliardi di dollari; il secondo si è concentrato solo sulla manodopera attiva nel settore delle esportazioni (una forza lavoro pari a circa 20 milioni di lavoratori), prefigurando 3,19 miliardi in termini di perdite salariali.

Ulteriori stime sembrano confermare questo trend discendente: ad esempio, il rapporto Union busting & unfair dismissals: Garment workers during COVID-19 , pubblicato dal Business and Human Rights Resource Center (Bhrcc), ha messo in evidenza un «modello emergente e diffuso di fabbriche e fornitori che sembrano prendere di mira i lavoratori sindacalizzati per il licenziamento», computando una perdita di quasi 5.000 posti di lavoro in nove fabbriche in Myanmar, Cambogia, Bangladesh e India; nello specifico, i lavoratori intervistati sostengono di essere stati presi di mira in modo sproporzionato a causa della loro appartenenza a un’organizzazione sindacale.

Tra i casi menzionati dallo studio spicca quello di un fornitore indiano, rifornitore dell’azienda di abbigliamento svedese H&M, che ha licenziato 1.200 lavoratori nel solo mese di giugno, citando come causa giustificante la diminuzione di ordini generata dall’avanzare della Covid-19 nella regione.

Non dovesse bastare, secondo i dati forniti dalla Bangladeshi and Garment Manufacturers Exporters Association (Bgmea), più di un milione di lavoratori tessili bengalesi sono stati rimandati a casa senza paga o hanno perso il lavoro dopo che i marchi di abbigliamento occidentali hanno annullato o sospeso commesse per 2,4 miliardi di sterline.

 

Tra i marchi coinvolti rientrano Primark, Matalan e Edinburgh Woollen Mill, che hanno cancellato collettivamente ordini per 1,4 miliardi di sterline per ridurre al minimo le perdite.

 

La Bgmea ha affermato che l’impatto delle cancellazioni è stato «catastrofico» per il Bangladesh: più di un quarto dei quattro milioni di operai tessili presenti nel paese hanno perso il lavoro o sono stati licenziati senza paga a causa del rifiuto, da parte dei marchi, di pagare le spedizioni interrotte.

A partire dallo scorso 28 settembre, Abiti Puliti – sezione italiana della Clean Clothes Campaign – partecipa attivamente all’iniziativa #payyourwirkers, volta a chiamare i grandi marchi all’assunzione di responsabilità nei confronti della forza lavoro senza diritti che gli consente di infoltire i loro profitti, ottenendo come contropartita salari da fame: «Marchi e distributori hanno la responsabilità legale e morale di garantire che le lavoratrici nelle loro catene di fornitura non paghino il prezzo di questa pandemia.

 

Foto di Ilo Asia-Pacific da Flickr

 

Accettare di pagare per gli ordini già effettuati non basta: devono assicurarsi che i lavoratori ricevano i salari che gli spettano e le dovute indennità. I marchi sono i principali beneficiari di profitto nella catena del valore e quindi hanno la forza di intervenire».

L’obiettivo è quello di indurre i brand a pubblicare sui loro siti ufficiali l’adesione a un’assicurazione salariale che possa garantire alle maestranze rimaste senza reddito di ricevere quanto loro dovuto, sia durante la pandemia che oltre, attraverso l’adesione a un fondo di garanzia che possa assicurare che non restino senza reddito anche nel caso in cui la loro fabbrica dovesse fallire.

La pandemia ha messo in luce tutte le criticità proprie di un settore in cui, da troppo tempo, l’ineguaglianza rappresenta la norma: per la forza-lavoro del tessile, la rivendicazione di un giusto salario non è mai stata più urgente.

Foto di copertina di Ross Funnell da CC Search