ROMA

No Border Fest: libertà di movimento oltre ogni confine

Da qualche anno si discute ormai di “razzismo democratico” grazie ai contributi di Annamaria Rivera, Marco Aime, Giuseppe Faso e tante/i altre/i. Tuttavia l’espressione ha avuto un’eco maggiore negli ultimi quattro anni, più o meno in concomitanza con l’insediamento del governo Renzi. Che cosa si intende quindi per “razzismo democratico”?

Per “razzismo democratico” intendiamo quell’insieme di parole, gesti e norme che, senza esprimere in maniera manifesta una volontà di esclusione, discriminazione, ghettizzazione e razzismo, creano la cornice perfetta perché questi elementi si rafforzino. Grazie alla reiterazione da parte delle istituzioni di queste parole, gesti e norme, che vanno dal «non sono razzista ma…» ad «aiutiamoli a casa loro», passando per la differenziazione tra differenti tipologie di migrazioni, si è rafforzata nel tessuto sociale una tendenza sempre più apertamente accusatoria, ghettizzante e ammiccante al fascismo. Un mantra reiterato da chi vanta di un curriculum “antirazzista” per l’occasione, che si dissolve quando si arriva al nucleo della questione: garantire la libertà di movimento a chiunque.

Il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione (2017) è l’incarnazione recente più evidente del razzismo democratico, prevedendo infatti la moltiplicazione dei centri di detenzione ed espulsione di persone migranti, l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo, la cancellazione dell’udienza e promuovendo l’impiego su base volontaria di richiedenti protezione internazionale in attività di utilità sociale. Se la legge nella sua interezza è un ulteriore dispositivo lesivo dei diritti delle persone migranti, quest’ultimo elemento è un pericoloso precedente che, inserito nel processo di trasformazione del welfare in Italia, rischia di subordinare la vita di una persona all’accettazione del lavoro non retribuito. Nello specifico, questo elemento diviene fondamentale nella fase di valutazione della richiesta di protezione internazionale, il cui ottenimento dipenderà così dall’individuazione utilitaristica di un’attività e, in seconda battuta, dalla qualità della sua realizzazione. Si può procedere così allo sfruttamento di manodopera gratuita e, se gli interessi politici lo richiedessero, a disfarsene con il procedimento di espulsione: la persona migrante merita di rimanere solo se sfruttata al fine di accumulare plusvalore.

La decima edizione del No Border Fest (22-23 giugno, La Città dell’Utopia) si inserisce in un questo quadro sociale e politico, che ha spianato la strada al nuovo governo Lega-5 Stelle. Con le spalle ben coperte, il primo provvedimento del governo è stato quello di intimare la chiusura dei porti italiani e riaprire la gogna mediatica delle ONG operanti nel Mediterraneo, accusate di collusione con i trafficanti di esseri umani. Nonostante le varie smentite, le accuse sono riuscite nell’intento di creare un clima di inagibilità sociale per le ONG.

A queste derive fortemente autoritarie, il No Border Fest vuole rispondere con suggestioni basate sulla libertà di movimento e sulla cittadinanza universale. Lo farà attraverso una narrazione e pratiche alternative, orientate a smontare gli stereotipi sulle persone migranti e a decostruire la logica ipocrita di chi afferma «non sono razzista, ma…» e «aiutiamoli a casa loro».