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MONDO
In caso di escalation: appunti sul conflitto indo-pakistano tra politica interna ed estera
Per un verso quella odierna è la prosecuzione di un conflitto pluridecennale irrisolto, per l’altro accentua la svolta nazionalista e comunitarista in India e segnala i nuovi assetti in movimento nell’area indo-pacifica
L’escalation diplomatico-militare tra India e Pakistan mostra alcuni elementi di comprensione degli attriti tra Stati nazione nella contemporaneità segnata da continue avvisaglie di guerra convenzionale. Escalation progressiva, quasi lineare, partita dall’attacco terroristico nella località turistica di Pahalgam, nel Kashmir controllato dall’India, dove un commando terroristico ha ucciso 26 persone, tutte hindu a eccezione di uno stalliere kashmiro, e culminati con attacchi oltre-confine degli eserciti regolari indiano e pakistano. Nel mezzo una rapida escalation diplomatica tra i due governi che hanno visto deteriorare significativamente i rapporti, mettendo già in atto attriti premonitori del conflitto militare tra le forze convenzionali. L’Operazione Sindoor è un punto di ristrutturazione del rapporto tra Stati nazione, delle logiche di deterrenza e polarizzazione politico-sociale, nelle dinamiche regionali e globali che sostengono le parti.
La questione del Kashmir
«Il Kashmir occupato dal Pakistan è il gioiello della corona dell’India e il Jammu e Kashmir è incompleto senza di esso». Così il Ministro della Difesa indiano Rajnath Singh ha definito la regione divisa tra India, Pakistan e Cina, in un suo comizio del gennaio di quest’anno. La definizione è ricorsiva nelle parole dei leader del partito della destra hindu-nazionalista Bharatiya Janata Party, spesso usata per ricalcare come il compimento del divenire nazione dell’India sia ancora incompiuto.
Nazionalisti islamisti in Pakistan e destra hindu-nazionalista in India, vedono nel Kashmir l’oggetto da incorporare nella propria sfera di sovranità. A contornare le rispettive pretese fattori storico-culturali, uso selettivo della storiografia e colonialismo interno; tutti elementi essenziali per la polarizzazione governativa necessaria a creare enfasi nella militarizzazione della regione irredenta e legittimar le istanze di guerra convenzionale.
Tra i fuochi incrociati del Pakistan nato come nazione islamista e l’India sempre meno secolare, cadono nel silenzio le istanze di autodeterminazione della regione montuosa. Negazione dell’autonomia che si è costruita gradualmente, in un esercizio di storia orale che si fa storiografia, di tradizioni artefatte per legittimare con la religione il diritto di essere maggioranza etnica sul territorio.
Ne è un esempio il pellegrinaggio hindu Amaranath Yatra, le cui origini si rinvengono a metà Ottocento, quasi in contemporanea all’acquisto della regione da parte della famiglia hindu di Dogra, siglata nei trattati di Amritsar del 1846 con cui il Maharaja Gulab Singh ottenne popolazione, terre e bestiame del Kashmir per soli sette milioni e mezzo di rupie. Il pellegrinaggio è per certi versi esemplificativo di come i tentativi di nazionalizzazione della regione passino per traiettorie culturali, religiose ed economiche; tra l’attaccamento mitico costruito con le tradizioni, e la legittimazione del colonialismo interno in termini di sviluppo economico.
Far partire la ricognizione della nazionalizzazione delle masse prima della concessione dell’indipendenza, o partizione fra India e Pakistan nel 1947, è necessario a comprendere come quella che si vuole come una questione a due tra gli Stati dell’ex-Raj non tiene conto del terzo soggetto essenziale: il Kashmir, schiacciato tra i fuochi di guerra tra e negli Stati-nazione, impossibilitato a far sentire la voce della propria popolazione.
Guerra sul Kashmir che svetta d’intensità nel più ampio contesto della partizione, dramma umanitario-sociale, con episodi di violenza inter-comunitaria diffusi in tutto il subcontinente. Violenze acute nella regione, dove la tensione comunitarista sedimentata esplode nell’eccidio di oltre 200mila persone nel mezzo di una guerriglia diffusa tra fazioni islamiste supportate dal governo pakistano e destra hindu-nazionalista.
Il Maharaja Hari Singh, allora a capo del principato che doveva decidere in quale Stato entrare, chiese supporto militare al governo di Jawaharlal Nehru. L’intervento militare terminato nel 1948 segna l’accesso definitivo della regione orientale del Kashmir nella federazione indiana, negando di fatto lo svolgimento del plebiscito popolare sulla scelta dello Stato di cui far parte. Da allora la regione non ha conosciuto pace. Le guerre del 1949, 1965, 1999 tra India e Pakistan, hanno come punto di inizio questioni politiche kashmire e sono state pretesto per risolvere questioni militari, politiche e ideologiche tra i due Stati.
La presenza di fazioni terroristiche islamiste, separatiste o filo-pakistane non è da considerare come eccezione nel lungo periodo ma come continuazione della conflittualità interstatuale a bassa intensità, in cui anche l’esercito convenzionale indiano gioca un forte ruolo. Su queste basi di volontà di sovranità sulla regione si spiegano i tumulti civili ed armati, con la sempre presente minaccia nucleare sullo sfondo, che hanno delineato la storia politica del Kashmir, tutt’oggi irrisolta.
L’attentato terroristico
L’attentato terroristico di Pahalgam del 22 aprile, in cui militanti del The Resistance Front – affiliati all’organizzazione terroristica Lashar-e-Tayyiba – hanno ammazzato 25 turisti/e hindu e una guida kashmira, ha fatto risalire la tensione riportando alla memoria gli eventi traumatici della guerra del Kargil del 1999. A differenza dell’attacco terroristico di Pulwama del 2019, con bersaglio quaranta militari indiani, a Pahalgam le vittime sono tutte civili e scelte su base religiosa.
Colpire i/e turisti/e non musulmani/e in Kashmir è una strategia che mira a contestare direttamente la riforma costituzionale del 2019. Con questa legge, il governo di Narendra Modi ha aperto alla compravendita immobiliare per i non residenti, una mossa considerata da molti un tentativo di modificare gli equilibri demografici dell’area. Nella stessa riforma, attuata con conseguente dispiegamento di 500mila unità dell’esercito indiano, è stato revocato lo status d’autonomia al Kashmir, tutt’oggi amministrato dal governo federale nonostante le elezioni dello scorso autunno.
Il massacro di Pahalgam ci restituisce una realtà fatta di militarizzazione della vita civile, spossessamento delle popolazioni tribali e musulmane e volontà di hinduizzazione forzata dell’unico Stato indiano a maggioranza di popolazione musulmana.
La reazione governativa non si è fatta attendere. Appena ricevuta notizia del massacro, Narendra Modi ha interrotto la visita diplomatica a Jeddah, Arabia Saudita, per presiedere il consiglio di sicurezza nazionale con i suoi Ministri dell’Interno, Amit Shah, degli Esteri, Subrahmanyam Jaishankar e della Difesa, Rajnath Singh. Incontro a cui è seguita la condanna pubblica del Pakistan come mandante dell’attacco dalla pressoché totalità delle forze politiche parlamentari indiane.
Responsabilità smentite prontamente dal primo ministro pakistano Shebaz Sharif, ma non smentite da Khawaja Asif, Ministro della Difesa pakistano, e Asim Munir, Capo di Stato Maggiore dell’esercito, che hanno anzi rincarato la dose. Posizioni espresse con ambiguità o in modo estremamente esplicito, arrivando a suffragare le accuse di Delhi di collusione dell’esercito con i gruppi terroristici.
Durante un’intervista concessa a Sky News, il Ministro della Difesa Khawaja Asif ha reso esplicita la collusione del governo pakistano con gruppi terroristici, agendo nell’interesse delle nazioni occidentali. Nelle sue parole: «Per circa trent’anni abbiamo eseguito questo ingrato compito per gli Stati Uniti, per l’Occidente e per il Regno Unito». Il dettaglio non è di poco peso nello Stato pakistano asservito ai giochi di potere dei vertici militari.
Escalation diplomatica: trattato sulle acque dell’Indo e trattati di Simlia
Dalle parole ai fatti è passato poco tempo. Il governo indiano ha mostrato sin da subito il pugno duro dando ordine di arresti di massa nei confronti di persone sospette in Kashmir, implementando contemporaneamente le operazioni delle forze regolari al confine. Repressione che arriva anche con abbattimenti di case di familiari dei sospetti affiliati a organizzazioni terroristiche, pratica divenuta ormai distintiva della destra hindu-nazionalista.
Misure drastiche adottate anche in politica estera, dando vita all’escalation diplomatica tra i due Stati. Da parte indiana, si è assistito al ritiro dal trattato del 1960 sulle acque dei fiumi Indo, Jhelub e Chenab, alla chiusura del confine terrestre di Attari e all’ingiunzione per tutti i cittadini pakistani di abbandonare l’India entro il 27 aprile. Figure chiave come i Ministri pakistani dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Marina, insieme ai funzionari dei rispettivi ministeri, sono stati dichiarati “persona non grata” e costretti a partire entro una settimana, mentre gli omologhi indiani a Islamabad e il loro personale sono stati richiamati immediatamente.
La risposta di Islamabad non si è fatta attendere, concretizzandosi in misure reciproche come sospensione dei visti ed espulsione di funzionari diplomatici indiani. A peggiorare il quadro si aggiungono la chiusura dello spazio aereo pakistano, interruzione degli scambi commerciali bilaterali e denuncia pakistana degli accordi di Simla del 1972, con cui si definì la Linea di Controllo, di fatti il confine, in Kashmir. Il quasi collasso delle relazioni diplomatiche è confermato dalla riduzione del personale delle ambasciate da 55 a 30 membri per parte.

Jammu, sud del Kashmir
Decisioni che hanno quasi resettato le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, proiettando già governi e società civile in uno stato di fermento per il preannunciato attacco militare. A svelare le carte ci ha pensato Shebaz Sharif, che ha sottolineato come l’uscita unilaterale dal trattato di Simla del 1960 è stata di fatto una dichiarazione di guerra, avendo come bersaglio la popolazione civile pakistana. L’uscita dalla convenzione bilaterale sull’uso delle acque dei fiumi Indo, Jhelub e Chenab è un duro colpo per le regioni agricole di Punjab pakistano e Sindh e per la popolazione civile pakistana tutta dato che lo Stato dipende per l’80% del suo fabbisogno idrico da questi tre fiumi.
Questa strategia di deterrenza idrica indica come le guerre possano volgere a proprio favore anche senza sparare un solo colpo d’artiglieria nell’epoca della crisi climatica, soprattutto in una delle regioni maggiormente afflitta dalle sue conseguenze.
L’assenza di infrastrutture capaci di deviare i corsi dei fiumi fa tirare un grosso sospiro di sollievo, ma preoccupa la possibilità di governare i flussi idrici con l’uso delle infrastrutture esistenti. Qualche prima avvisaglia di contingentamento delle risorse idriche è stata già messa in atto riempiendo le dighe già presenti e poi aprendole repentinamente con possibilità di causare inondazioni massicce; le denunce di deterioramento della qualità delle acque fanno pensare il peggio nella regione hotspot climatica.
Escalation militare: mezzi, prospettive e obiettivi
L’inevitabile conseguenza di toni e misure adottate è stata l’escalation bellica convenzionale. Le esercitazioni civili di massa disposte da Rajnath Singh nelle giornate immediatamente precedenti ai primi attacchi missilistici indiani hanno avuto funzione di preparazione della popolazione a eventuali attacchi di forze convenzionali e non.
Preannunciata nelle riunioni di sicurezza nazionale, fomentata nei media e recepita con clamore nell’opinione pubblica, l’escalation militare iniziata con gli attacchi missilistici indiani della notte tra il 6 e 7 maggio ha da subito raccolto i favori di governo e popolazione indiana. Il nome dell’Operazione Sindoor – polvere vermiglio con cui le donne si tingono la fronte per indicare di essere sposate – ha avuto appunto la funzione di etnicizzare la questione su toni di difesa degli hindu, di difesa della nazione dallo storico vicino-nemico.
Il primo attacco missilistico ha avuto come obiettivo nove siti tra Kashmir e Punjab governati dal Pakistan, individuati dall’intelligence indiana come avamposti d’addestramento e infrastrutture dei gruppi terroristici Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Tayyiba e Hizbul Mujahedeen. Tra i bersagli colpiti anche la moschea di Subhan Allah, a Bahawalpur, dove i servizi segreti indiani dichiarano di aver ammazzato Maulana Masood Azhar, leader di Jaish-e-Mohammed, assieme alla sua famiglia.
Bombardamenti a cui sono seguite veline di abbattimento di cinque jet delle forze armate indiane sulla stampa pakistana, di cui solo due sono stati verificati da osservatori internazionali.
Attacchi con armi pesanti a medio-lungo raggio accompagnati dal costante fuoco leggero tra le forze convenzionali lungo la Linea di Controllo in Kashmir e sporadici lanci di artiglieria pesante si sono susseguiti per quattro giorni tra i due eserciti. Nei quattro giorni e notti di attacchi frontali, sono sedici indiani/e e quaranta pakistani/e le persone civili morte sotto il fuoco, a cui vanno aggiunti i cento terroristi ammazzati in territorio pakistano dichiarati dai servizi di intelligence indiani. Il conto dei deceduti è insufficiente a determinare la gravità del fronteggiamento armato.
L’aumento della già alta insicurezza delle popolazioni civili ai due lati del confine ha toccato nuove vette con il costante fuoco d’artiglieria a scandire le ore della notte, facendo sì che molti abitanti del luogo lasciassero le zone di confine per paura che l’artiglieria colpisse le proprie case. Preoccupazione non banale dati i rinvenimenti di droni e missili nei dintorni di villaggi, della capitale estiva del Kashmir indiano Srinagar e la distruzione di una chiesa nel distretto di Poonch che ha portato alla morte di due persone.
Quattro giorni di fuoco incrociato e conferenze stampa governative; quattro giorni di minacce di lancio di testate nucleare, fortunatamente mai messe in atto. Quattro giorni di escalation conclusisi con attacchi mirati delle forze armate indiane negli aeroporti militari di Nur Khan, Sargodha, Bholari e Rahim Yar Khan, basi militari pakistane, e nei dintorni delle città di Lahore e della capitale Islamabad; a cui è seguito un massiccio contrattacco di circa 400 droni pakistani nelle zone di confine con l’India, in Kashmir, Punjab e Rajasthan. Scopo dell’ultimo attacco era colpire le infrastrutture nevralgiche dell’esercito pakistano in una vera e propria prova di forza tra gli eserciti dei due Stati.
Seppur concentrato in quattro giorni di conflitto armato e in ambito regionale, quanto successo apre delle riflessioni necessarie su quanto un conflitto ben delimitato sia costruito al giorno d’oggi su direttrici internazionali. La guerra tra i due Stati ha dei tratti che potremmo definire propri delle guerre di nuova generazione: uso ristretto della fanteria, massima efficacia nell’uso di armamenti altamente tecnologici.
L’India, che si vuole superpotenza globale, ha negli ultimi anni rafforzato il proprio arsenale implementando la produzione industriale nel subcontinente con aziende parastatali e joint venture in loco con aziende straniere, necessarie per il trasferimento di conoscenze e tecnologie, tra cui vale la pena citare FinMeccanica e Leonardo ritornate a fare affari con Delhi a dieci anni dallo scandalo corruzione Augusta Westland.
Supremazia militare programmata in un lungo piano di riarmo che ha visto l’India spendere 86 miliardi di dollari nel 2024 nel settore bellico, deviando la già carente spesa pubblica nel settore della difesa. Si giovano della spesa le aziende leader del settore in India Hindustan Aeronautics, Bharat Electronics e Bharat Dynamics, che nel giro di dieci anni hanno aumentato il proprio fatturato del 174%, anche grazie alle politiche economiche interne promosse dal governo Modi come l’iniziativa Make in India. Riarmo funzionale, sul piano della difesa in senso stretto e sul piano più politico, a implementare la narrazione che descrive l’India come super-potenza globale in essere.
La logica di autoproduzione convive con la massiccia importazione di armamenti. Stando al report annuale sul commercio di armi globale dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, l’India emerge come secondo Paese importatore di armi dietro all’Ucraina, con un volume di entrate pari all’8,3% globale – dato in calo del 9,3% rispetto al 2015-2019.
Le direttrici del commercio in entrata meritano attenzione a causa di fattori storici, come la dipendenza dalla Russia, e la nuova strategia diplomatica del governo Modi che mira a rafforzare i legami con Francia e USA e a intensificare, come ha fatto negli ultimi dieci anni, la collaborazione con l’industria bellica israeliana.
Sono altre le traiettorie di commercio del Pakistan, a cui affluisce il 4,6% delle esportazioni globali di armi. Spiccano le forniture di droni di produzione turca e il ruolo della Cina come principale fornitore, da cui Islamabad dipende per l’81% di importazioni.
Elementi che sono nei fatti ricaduti nell’escalation militare di inizio maggio. Tra le armi impiegate nell’offensiva sono stati utilizzati i missili di produzione indiana Brahmos, i droni di coprogettazione indo-israeliana e i caccia Rafale e Mig-21, un segno dell’ampia scelta negli arsenali indiani. Dall’altro lato, è notevole segnalare il battesimo del fuoco degli aerei di progettazione cinese J-10, il cui ruolo è stato incisivo nell’abbattimento dei jet indiani individuati nello spazio aereo pakistano. Cronaca bellica utile per comprendere come la guerra latente tra Cina e USA si debba testare sul campo in conflitti regionali, atti a valutare l’efficacia degli armamenti in una multiforme logica di deterrenza.
La diplomazia internazionale
All’escalation bellica è corrisposta un’attivazione della diplomazia internazionale ondivaga, composta di flebili prese di posizione e consolidamento dei rapporti diplomatici pre-esistenti. Arabia Saudita e Iran si sono immediatamente proposti come mediatori tra i due Stati, colmando il vuoto dell’iniziale indifferenza degli USA sulla questione. Da segnalare le posizioni di Turchia e Azerbaijan, tra i pochi sostenitori del governo di Islamabad.
Senza soffermarsi troppo sul ruolo dell’Iran, desta attenzione l’operato del principato saudita che consolida anche in questo modo il proprio ruolo di centro diplomatico globale primario. Diversa invece la postura di Cina e USA. L’allineamento di Pechino a Islamabad è motivato da elementi storici risalenti alle guerre cinesi e pakistane contro l’India dello scorso secolo. La percezione dell’India come nemico ingombrante, connessa alle molteplici contese sui confini irrisolti a Nord nel Kashmir e Ladakh, a Nord-Est nel Sikkim e nell’Arunachal Pradesh, sono più volte culminate in brevi conflitti militari.
Vale la pena far riferimento ai recenti attriti in Ladakh iniziati nel giugno 2020 e chiusisi con il riavvicinamento diplomatico nello scorso anno, fatti che si possono leggere come momento di attrito di una guerra di vicinato di lungo periodo segnata da sconfinamenti infrastrutturali, parole al veleno sul governo cinese durante la pandemia da parte degli hindu-nazionalisti e richieste di sovranità sui territori contesi, come nel caso dell’Arunachal Pradesh.
Alle ragioni più territoriali si accompagnano quelle di ordine economico. Il Pakistan è uno degli alleati principali di Pechino nell’area, in partnership con la Belt and Road Initiative sia per il corridoio commerciale sino-pakistano, che attraversa il Kashmir governato dai due Stati, sia per le linee marittime, di cui il porto di Karachi nel Sindh pakistano è un nodo cruciale delle rotte cinesi. Tutti elementi che hanno portato il governo di Pechino a supportare le condanne da parte di Islamabad dell’offensiva militare indiana, seppur celate sotto appelli al ripristino della pace tra i due paesi.

Jammu, sud del Kashmir
Diversa la posizione degli USA, storico alleato del Pakistan nel secondo Novecento in funzione di contenimento delle avanzate comuniste nel confinante Afghanistan e poi, dal crollo dell’Unione Sovietica, progressivamente avvicinatosi a Delhi. Avvicinamento provocato da ragioni economiche, effettuato in conseguenza all’apertura al libero mercato dell’India nel 1991, visto dalle aziende statunitensi come possibilità di espandere il proprio dominio economico ed esternalizzare forza-lavoro a basso costo.
Sotto le presidenze Trump e il governo Modi, guidato dalla diplomazia degli abbracci, l’affinità ideologica tra i due leader di governo si è tradotta in una stretta relazione per ragioni politiche, di contenimento dell’espansione commerciale-militare cinese nell’area indo-pacifica, e commerciali, come testimoniato dai recenti colloqui successivi alle dichiarazioni di imposizioni di dazi dell’attuale amministrazione statunitense.
L’India di oggi guarda attentamente a occidente, vedendo nell’attuale conformazione del sistema politico-economico globale le condizioni ottimali per accreditarsi come sostituto della Cina come fabbrica del mondo. Tale aspirazione è corroborata dalla crescita economica sostenuta del PIL negli ultimi vent’anni e dal riconoscimento dell’importanza strategica della penisola indiana per il controllo militare-commerciale dell’area Indo-Pacifica, tesi ulteriormente avvalorata dagli accordi di difesa QUAD e I2U2.
La nota di ricognizione delle relazioni statunitensi è utile a comprendere il ruolo degli USA nel conflitto. Inizialmente in disparte con dichiarazioni di condanna fini a sé stesse dell’attacco terroristico di Pahalgam e appelli alla pace all’inizio dell’escalation militare, l’amministrazione Trump ha messo in atto una strategia diplomatica a tratti caotica. «Fondamentalmente non è un nostro problema», ha dichiarato il vice-presidente statunitense J.D. Vance in un’intervista a Fox News, il giorno prima di essere smentito da Trump e dal segretario di Stato Marc Rubio, corsi il 10 maggio a intestarsi i meriti del raggiungimento del cessate il fuoco. Dietro l’angolo, gli interessi di Washington nell’assicurarsi i favori del governo Modi per conto di aziende statunitensi volenterose di penetrare ulteriormente nel mercato sud-asiatico per assicurarsi nodi della supply-chain globale.
La narrazione interna tra escalation e cessate il fuoco
La riuscita del conflitto tra Stati passa per l’annichilimento della conflittualità interna ai propri confini nazionali, come sublimazione del processo di nazionalizzazione delle masse. Sin dalle ore immediatamente successive all’attentato terroristico di Pahalgam, i principali media indiani hanno fatto da megafono alle dichiarazioni del governo indiano, indicando da subito la diretta responsabilità di governo e forze armate pakistane.
Ore di trasmissione ossessive, con talk interminabili e ripetizione delle immagini disponibili, in uno schermo contornato da hashtag inneggianti alla vendetta contro Islamabad sono state la costante delle settimane di escalation. Opinioni personali passate come informazioni, veline di governo riprodotte in modo pressoché integrale dagli anchor man televisivi, reportage degni della cronaca rosa pomeridiana hanno scandito il tempo televisivo; immagini e dichiarazioni degli esponenti di governo sono state le uniche interruzioni ammesse dalle direzioni editoriali.
Il tutto sorretto da una costruzione mediatica intenzionata a sostenere la supremazia indiana in guerra, con spot degli armamenti prodotti dalle aziende del subcontinente, seguiti da immagini prese da altri attacchi armati spacciate per iniziative dell’esercito indiano. Eclatante l’uso di immagini artefatte della distruzione del porto di Karachi schizzate in televisioni e social, come a ribadire la supremazia indiana rispetto allo Stato pakistano su ogni fronte, anche su quello degli attacchi strategici a infrastrutture nevralgiche dell’altro nemico, la Cina.
In questa infosfera si è consolidato il già forte sentimento nazionalistico, fondato sul senso comune costruito dalla destra hindu-nazionalista la cui ragion d’essere può essere riassunta nel cercare di creare una nazione etnicamente omogenea, progetto speculare alla fondazione del Pakistan. Ricadute immediate nella società di tale narrazione sono stati gli episodi di violenza comunitaria nei confronti di kashmiri e musulmani/e registrati/e in molte località del nord dell’India, dove fazioni hindu-nazionaliste hanno preso di mira studenti, venditori/trici e lavoratori/trici poveri/e additati/e come complici dei gruppi terroristi.
Il minimo comun denominatore degli episodi di violenza è il far sentire musulmani/e e kashmiri come degli infiltrati/e in India, rei di essersi ritrovati/e o aver scelto di vivere nel subcontinente, la cui espulsione deve essere promossa con tutti i mezzi a disposizione. La legittimazione istituzionale lascia ampli spazi di manovra ai gruppi della destra hindu-nazionalista, impuniti nelle loro azioni intimidatorie o di devastazione settaria. Rotture che rendono l’India una casa ostile per kashmiri e musulmani/e. A più di un anno di distanza dal discorso di Banswara in cui Modi definì in piena campagna elettorale i/le musulmani/e come infiltrati/e possiamo constatare la penetrazione della definizione nel senso comune di parte della popolazione hindu in India.
Le opposizioni sono, in parte, silenti davanti all’escalation bellica, pronte a intonare «Jai Hind!», vittoria all’India, all’unisono con la maggioranza parlamentare nelle celebrazioni degli attacchi missilistici, e capaci solo di reclamare uno spazio di discussione condiviso per le decisioni del governo sulle operazioni militari.

Srinagar, Kashmir
Dietro la ragione di Stato tutti i maggiori partiti rappresentati in Parlamento hanno chinato il capo, sparute le forze politiche disallineate dalla salvaguardia dell’interesse nazionale anche nell’area socialista, che poi si sono lanciate in appelli al cessate il fuoco nelle ultime giornate di conflitto bellico. Degne e minoritarie forze politiche come il Partito Comunista Indiano (Marxista-Leninista) e le compagini maoiste, sottoposte a costanti attacchi militari dell’esercito indiano, hanno espresso fin da subito il loro rifiuto di parteggiare per l’interesse nazionale.
Il quadro politico-sociale ha influenzato il recepimento dell’accordo di cessate il fuoco raggiunto nella notte del 10 maggio tra i Ministri degli Esteri dei due paesi, mediato dall’intervento diplomatico statunitense.
Il cessate il fuoco è stato inizialmente accolto come una sconfitta nella sfera mediatica indiana perché non giustificato dalla vittoria sul campo, bollato come un’ingerenza dell’amministrazione statunitense in quella che si vuole come una questione meramente bilaterale. Cessate il fuoco che, per com’è arrivato, è suonato come un’imposizione, giustificabile solamente per l’assenso del premier Narendra Modi, le cui posizioni non sono oggetto di discussione per i media asserviti agli interessi di suoi partner economici. Come ogni conflitto che si rispetti sono seguite manifestazioni di festeggiamento nazionaliste tiranga rally, in tutto il subcontinente, a rimarcare il senso comune della vittoria dimezzata dalle ingerenze estere.
Sentimento comune che viene ripreso in varie forme istituzionali: dagli striscioni nell’ambasciata indiana in Portogallo – «L’operazione sindoor non è ancora finita» -, ai biglietti del treno che riportano il banner dell’operazione, ma anche le gigantografie di Narendra Modi aviatore e l’esaltazione a mezzo stampa dei sistemi di difesa aerea indigeni Akashteer. Più spinta l’enfasi del primo ministro indiano nel suo comizio a Bikaner, Rajasthan, dove l’attacco è sì definito come «una nuova forma di giustizia», atta a dimostrare al mondo e ai nemici dell’India «cosa succede quando “sindoor” diventa “barood” [polvere da sparo]».
Seppur breve, l’escalation tra India e Pakistan mostra traiettorie ragguardevoli di come si nazionalizzano delle masse, a maggior ragione nell’attuale fase segnata da conflitti bellici convenzionali su varie aree regionali e crescenti attriti nelle relazioni diplomatico-economiche tra le superpotenze globali.
Leggere il conflitto come una guerra per procura è certo pressappochista, un punto di vista figlio di una volontà di guardare alle rotture tra gli Stati-nazione come marionette delle guerre globali; ma non situare questi conflitti all’interno dell’economia mondo, da cui consegue un nuovo assetto di potere allineato a Washington o succube di quello che si vuole come il nuovo ordine del multipolarismo autoritario, sarebbe miope e riduzionistico.
Giocano un ruolo fondamentale le traiettorie internazionali in cui si costruisce e legittima lo stato di guerra latente permanente. Nella corsa alla conversione bellica degli impianti produttivi civili e della risposta alla crisi delle rendite finanziarie nell’industria bellica, l’internazionalizzazione delle filiere produttive è uno dei fattori su cui si costruiscono alleanze tattico-strategiche volte a influenzare la ristrutturazione della produzione capitalistica globale. Il raggiungimento del cessate il fuoco non deve ingannare: sulla frontiera irredenta del Kashmir l’escalation è conclusa, il sempiterno confronto tra governi ed eserciti no.
Immagine di copertina di Luca Mangiacotti, scattata a Srinagar, Kashmir
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