PRECARIETÀ

Verso una definizione di Beni Culturali come Beni Comuni.


Una riflessione preliminare sul lavoro nei Beni culturali in Italia. Tra stage, lavoro gratuito, sfruttamento e politiche inadeguate si mobilitano i lavoratori dei beni culturali.

Tutti conoscono la storia del vaso di Pandora: nel mito,una volta scoperchiato lo scrigno tutti i mali si sono riversati sul mondo,alterandone la fisionomia. Nell’attualità delle politiche “culturali” del sistema Renzi (pardon, Italia) invece,gli avvenimenti delle ultime settimane riversano sul nostro patrimonio l’etichetta di “male culturale”,in maniera indelebile. Solo che stavolta sono numerose le mani colpevoli di averne rovesciato il contenuto.

E’ evidente ormai che in Italia non si può più parlare di “Beni Culturali” senza associarli a misure d’emergenza,naufragi nella conservazione,voci di spesa e investimenti a perdere,nel volano della discussione (quanto mai noiosa e sterile) del rapporto tra pubblico e privato nella gestione del patrimonio. Molto spesso nel sentire comune il ritrovamento archeologico che “emerge” letteralmente dal sottosuolo è considerato (anche non a torto) dalla maggioranza delle persone come un fastidioso intoppo,un ostacolo allo sviluppo urbano,alla chiusura di un cantiere,alla costruzione di una nuova metro. Non servono analisi approfondite o l’esperienza degli “addetti ai lavori” per comprendere come il problema non coinvolga il “bene” in sè ma la sua gestione nel sistema di appalti pubblici,ma in questa sede ci serve solo per sottolineare come ormai si sia giunti a considerare i beni culturali (quelli che non generano profitto si intende!) come un male cronico e incurabile del nostro territorio,un problema inasprito dalla crisi al quale né le politiche dei governi né le ragioni di chi opera in questo settore hanno mai saputo dare una soluzione possibile.

Crediamo che adesso si sia giunti ad un punto di non ritorno,segnato dalle ultime notizie nell’ambito della gestione e del lavoro nei Beni Culturali e sostenuto da un informazione mainstream dall’alto valore strumentale.

Ma andiamo per gradi. Il registro delle notizie sul nostro patrimonio storico,quando non è improntato sulla sciagura e la strumentalizzazione del disastro (crolla Pompei! se non si struttura l’intervento dei privati non ci sono i fondi per gestire i siti storici più importanti),è composto da flash di notizie che tendono a sparire rapide dalla scena del dibattito pubblico,ma sanciscono l’inadeguatezza delle risposte e del dibattito interno dei protagonisti di turno. Gli esempi di questa scarsa aderenza tra i problemi e i temi della contemporaneità e chi si occupa di cultura e conservazione del patrimonio artistico del nostro paese a livello istituzionale sono molteplici e diversi tra loro. Appare ad esempio scomposta e insufficiente la reazione di sdegno agli scatti di G. Bruneau che ritraggono i celebri Bronzi di Riace con perizoma e velo da sposa tanto quando querelle senza esito tra il ministro Franceschini e la Sovrintendente al Colosseo dopo la proposta del primo di pavimentare (come nell’Ottocento) l’arena dell’Anfiteatro Flavio. Senza entrare nel dettaglio dei singoli episodi (per inciso: il “brand” del Colosseo è già stato donato al marchio Tod’s di Della Valle per 15 anni grazie al patrocinio sul restauro del momento simbolo della Capitale), sotto la coltre delle scaramucce tra l’accademia, la sovrintendenza e il ministero sulla politica del cultural management,si nascondo le insidie più grosse ed operazioni ben più gravi, in linea evidente col pensiero renziano (e quindi non criticate dai media). Da un lato la scelta della Sovrintendenza comunale di Roma di indire un bando per lo svolgimento di servizi di volontariato da attuarsi presso musei ed aree archeologiche e monumentali e dall’altro il progetto The Hidden Treasure of Rome,nato da un intesa tra la società ENEL e il Sindaco Ignazio Marino.

Apparentemente il bando nasce sotto l’urgenza di «valorizzare e promuovere i beni di carattere storico,artistico,i siti monumentali,archeologici e museali,al fine di migliorarne la fruizione,consentendo inoltre di rendere visitabili siti che diversamente non sarebbero aperti in modo continuativo al pubblico»,l’istituzione municipale porta avanti una politica di gestione dei beni culturali che di fatto promuove e obbliga a forme di lavoro non retribuito. Il fatto che nel bando siano richiesti curriculum e progetto è indicativo della volontà di cercare e sfruttare una qualifica professionale ben precisa,in forma totalmente gratuita,tutto questo sotto la parola d’ordine del “costo zero”. In nome di una (auto)evocata urgenza,sotto le sirene dell’allarme della morte dei beni artistici e archeologici,si cerca di delegare a forme di volontariato la gestione di uno dei patrimoni più importanti che l’Italia possiede.

Forse i redattori saranno stati ispirati dalla storia antica della città,ma in quella Roma la schiavitù era chiamata col suo nome!

Passando al funambolico accordo tra il sindaco di Roma e Enel Green Power,questo riguarda in sintesi l’invio negli Stati Uniti di reperti archeologici a scopo di studio. L’iniziativa,sostenuta con forza dal Sindaco,è vista nel migliore dei modi,porterà infatti enormi vantaggi,accurati programmi di ricerca e analisi,è anche prevista la realizzazione di una grande banca dati che sarà un punto di riferimento unico per gli studiosi della Roma Antica. Come dire no a tutto questo! In linea di principio riteniamo virtuoso un possibile collegamento con il contesto internazionale. Ma non è questo il caso. Subito spuntano infatti le parole chiave che ci riportano sul pianeta Renzi e sui nuovi (si fa per dire) modelli di gestione del patrimonio culturale. L’operazione infatti è quanto mai appetibile in quanto sempre “a costo zero” e proposta come modello per ulteriori collaborazioni tra pubblico e privato.

Il modello è chiaro e il riferimento è l’EXPO 2015,animato dal lavoro gratuito di stage e tirocini di cui il governo Renzi si fa orgoglioso promotore: lavorare gratis si può, anzi si deve.

Uno recente contributo dell’archeologo E. Giannichedda ribadisce due punti fondamentali: «anche il fatto che il progetto Hidden Treasure of Rome, diversamente dalla questione Colosseo, non abbia trovato alcuno spazio sui media andrà considerato; i manufatti non fanno audience, il lavoro degli archeologi italiani non fa audience, la tutela e la conoscenza non fanno audience. Significativo, infine, sarebbe sapere chi ha avuto l’idea di mettere allo stesso tavolo sponsor privato, rappresentanti delle istituzioni italiane, accademici americani».

La tendenza che si avverte è un utilizzo della cultura e della storia del nostro paese come elemento aggiunto alle trattative d’interesse finanziario internazionale (qual è il reale beneficio per Enel, per altro società a partecipazione statale, in questa operazione americana?). Tuttavia queste operazioni vengono camuffate al largo pubblico dalla vignetta che vede il sindaco dirsi assolutamente colpito dalla quantità di materiale mai studiato e pubblicato nei magazzini dei musei capitolini!

Ancora una volta si viene sorpresi delle infauste conseguenze del rapporto,mai pienamente istituito o consumato,tra istituzioni e università,tra mondo del lavoro e istituzioni e ricerca. Per colmare il “vuoto di conoscenza” prodotto dal sovraffollamento dei sotterranei dei musei si svuotano,appunto,i magazzini oltreoceano,senza considerare il coinvolgimento di tutti quelle persone che si sono formate in questo campo,preferendo spudoratamente la linea del “costo zero”. Lo squilibrio nel rapporto costi/benefici dimostra però che il piano è falsato: basta pensare ai costi di spedizione e assicurazione necessari per il trasferimento dei reperti.

Diversamente dalla “politica archeologica” del PD è necessario che si apra uno spazio pubblico di discorso in grado di decostruire le manovre (tanto autoritarie quanto “di sinistra”) che istituiscono il disinvestimento e parlano di crescita a costo zero. I due esempi citati,attuali nel tempo e nei contenuti, colpiscono direttamente due categorie ben definite: i lavoratori dei beni culturali (categoria vasta ed eterogenea) e i soggetti in formazione. In entrambi i casi è chiaro che la politica,(ma anche le istituzioni e l’accademia),non ha le idee chiare proprio ora che ha perso i freni inibitori proponendo bandi di volontariato e mascherando lo sfruttamento con la possibilità di fare esperienza e curriculum. Le soluzioni che vengono proposte non partono dai problemi stessi ne li discutono, anzi. Se il “bene” quindi diventa un male incurabile e non più necessario,una frase apparsa pochi giorni fa sulla facciata di un noto museo milanese non potrebbe suonare più appropriata:«La cultura non si cura con dottori volontari!»

In conclusione si impone con evidente insistenza il problema di trovare una via di fuga,nuovi percorsi da intraprendere tra le macerie (mai paragone fu più appropriato) dei Beni Cultuali. Ad oggi non si può ancora definire tale percorso con necessaria chiarezza perché difficilmente i processi di rottura,come la stessa disciplina archeologica insegna,hanno una forma chiara nei loro momenti iniziali

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Parlare di patrimonio storico-artistico come Bene Comune è un processo in divenire,che deve superare schemi e discorsi di categoria ed uscire dall’ambito dei soli specialisti. Creare un nuovo discorso non identitario è,a nostro avviso,un punto di partenza imprescindibile per invertire la tendenza attuale per cui il bene culturale diventa oggetto di mercificazione e mezzo di scambio nel sistema complessivo degli investimenti a costo zero,proprio perchè « Confinare i propri studi alle mere antichità è come leggere a lume di candela a mezzogiorno» (D. Wilson, 1861).