POTERI

Tre nodi oltre il referendum

Riflessioni sull’esito del referendum, sulle necessità della fase, sugli strumenti di lotta contro questo governo.

Il Referendum lo abbiamo perso. Inutile girarci intorno, né cercare improbabili combinazioni matematiche per rigirare i numeri contro il governo. Proviamo a riflettere a caldo su alcuni nodi che, comunque, sono stati sollevati, sia rispetto al quesito specifico, che in generale allo strumento referendario e al governo.

Primo. Il quorum è il peggior nemico di chiunque convochi un referendum abrogativo. Questo è chiaro dagli anni ’90, cioè da quando l’astensione è diventata pratica di massa, sia per la delegittimazione del sistema politico, che per la spoliticizzazione del corpo sociale. Da questa considerazione bisogna partire ogni volta che si immagina di attivare un meccanismo referendario. O il quesito è ancorato a processi reali di lotta, oppure il quorum non può che restare un miraggio. In questo caso, diversi comitati che nei mesi scorsi hanno condotto la battaglia contro le trivelle lungo l’Adriatico erano scettici sul referendum (che infatti è stato chiamato dai governi di 9 regioni). Motivo di perplessità era proprio l’estensione nazionale della consultazione, a fronte di lotte dispiegate soltanto in alcune regioni. Anche se alla fine nemmeno in quelle regioni è stato superato il quorum. A questo bisogna aggiungere che il quesito era molto tecnico e limitato. Cosa che non ha certo aiutato a generalizzare l’interesse e la sensibilità rispetto all’argomento. Del resto, Renzi si è speso fino in fondo per far cadere gli altri cinque quesiti proposti dalle regioni, ben consapevole che restringendo il tema avrebbe limitato la partecipazione. E, in effetti, qui sta un punto importante che la campagna referendaria ha comunque segnato: pur di allontanare il rischio quorum, il governo ha modificato lo Sblocca Italia per far cassare alcuni quesiti. In questo modo, 27 procedimenti per concessioni entro le 12 miglia sono stati ritirati.

Secondo. Il discorso della campagna per il Sì è stato incentrato inizialmente sulla proposta di “fermare le trivelle” e successivamente sulla trasformazione del referendum in un voto contro il governo. A posteriori è troppo facile, ma bisogna riconoscere che entrambe le strategie hanno fallito. I sostenitori del petrolio hanno avuto buon gioco a sostenere che le trivelle, comunque, non si sarebbero fermate. E lo hanno fatto su livelli differenti. Con le spiegazioni di geologi che, facendo leva sulla sempre efficace quanto falsa “oggettività” del sapere scientifico, si sono azzardati a vantare la sicurezza degli impianti e delle tecnologie estrattive, con l’unica decenza di fermarsi un passo prima di dire che il petrolio aiuta la biodiversità marina. Ma anche con le battute coatte e sprezzanti dei membri del governo: dal “referendum è una fuffa” al “ciaone” di ieri. Piani discorsivi che non stupiscono, né indignano più di tanto, considerando da quale classe politica provengono, ma che vanno tenuti in conto perché parlano a una fetta larga della popolazione. La seconda strategia discorsiva è stata, in fin dei conti, un tentativo molto azzardato di “chiamare a raccolta tutte le opposizioni” a ridosso del voto. Ma il nemico del mio nemico non è (quasi) mai un buon alleato. E comunque una simile chiamata non ha funzionato rispetto all’elettorato. Anzi, questa seconda dinamica ha fatto gioco al governo. Sebbene l’appropriazione dell’astensione da parte di Renzi sia la più alta espressione di quella “demagogia” che dice di combattere. Tra l’altro, lo vedremo alle amministrative e al referendum costituzionale quanto gusto potrà trarre dall’astensione.

Ma forse è stata un’altra la mancanza più grande della campagna per il Sì: cioè, la capacità di costruire un discorso forte in positivo. Diciamo questo non per dare colpe a qualcuno, anzi. Siamo ben consapevoli che il tema delle rinnovabili è stato agitato dai promotori del referendum, sebbene i mezzi di informazione lo abbiano silenziato e a volte ridicolizzato. Vogliamo invece introdurre degli spunti di riflessione più ampi che vanno al di là del voto di ieri. Crediamo che oggi sia necessario dotarci di strumenti capaci di disarticolare la retorica renziana dell’ “Italia del fare” e opporre ad essa un’alternativa programmatica. Il tempo dei “no” sta finendo. I discorsi “contro” lasciano ampio spazio al governo di proporsi come unico soggetto in grado di andare oltre le chiacchiere e le polemiche. Non possiamo lasciare a Renzi la questione del programma. Dobbiamo invece riappropriarcene e giocarcela con spregiudicatezza. Ripetiamo, questo vale in generale su tutti i punti di scontro.

Terzo. Renzi rappresenta i grandi interessi privati e agisce su tutti i fronti per proteggerli e favorirli. E lo fa anche facendoli coincidere con quelli pubblici. Cedendo interi pezzi di città ai fondi immobiliari, legando l’abitare dei più all’indebitamento perenne nei confronti delle banche, piegandosi a chiunque voglia mettere le mani sul territorio. Tra questi grandi interessi privati, ci sono ovviamente anche quelli dei petrolieri. Ormai gli esponenti del governo non hanno neanche timore a dirlo pubblicamente: dalle libere sull’uso degli spazi pubblici alle concessioni petrolifere, gli unici soggetti da proteggere sono i ricchi. E questo si fa inserendo tutto, dall’acqua del mare a quella piovana, nei meccanismi del mercato (dovutamente organizzati per schiacciare i lavoratori e i piccoli concorrenti). Per questo non hanno vergogna a rivendicare emendamenti a garanzia degli affari della cricca di Tempa Rossa. Per questo non potevano permettere obiezioni alla deregolamentazione delle attività estrattive. Per ottenere il fallimento del referendum hanno fatto di tutto: disinformazione organizzata, modifiche legislative per far cadere gli altri quesiti, indizione in tempi record del voto per tagliare con l’accetta il periodo di campagna referendaria e, ciliegina sulla torta, appello all’astensione. Quest’ultimo non ci scandalizza più di tanto: i “doveri istituzionali” e i rituali legati alle cariche rappresentative sono certamente, e sempre lo saranno, meno importanti degli interessi dei grandi petrolieri che il governo protegge. Il Presidente della Repubblica che va a votare solo dopo i tg della sera ne è la più evidente rappresentazione. Queste pratiche, però, segnalano il fatto che Renzi e la sua dottrina dell’efficienza non si faranno alcuno scrupolo, nemmeno formale, di fronte all’aspetto sostanziale e a quello procedurale della democrazia rappresentativa. Tanti paletti sono già caduti, tanti altri cadranno ancora. Anche su questo: le lamentele lasciano il tempo che trovano. Il punto è definire un piano del discorso all’altezza dei tempi, comprensibile a tanti e capace di definire un programma positivo.

Non possiamo farci rinchiudere nella casella di quelli che difendono l’esistente. L’esistente ci fa schifo, perciò dobbiamo immaginare e costruire nuove forme di democrazia, partecipazione e conflitto! La campagna referendaria di ottobre, contro la riforma costituzionale voluta da Renzi, non può essere soltanto difesa passiva della Costituzione vigente, ma va immaginata come l’inizio di una fase progettuale costituente.