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San Lorenzo il magnifico

Da qualche anno San Lorenzo è al centro di un dibattito tra quanti rimpiangono il vecchio rione romano operaio, triste ma genuino, geloso dei propri valori e delle proprie tradizioni, e quanti inneggiano all’idea di un quartiere proiettato verso i fulgori della cultura, dell’arte, del “saper vivere”.

In ogni caso, basta una semplice passeggiata per cogliere il suo definitivo tramonto come quartiere più malfamato e povero della città, in cui – come scriveva nel lontano 1907 Maria Montessori – “La gente per bene passa solo dopo morta”.

I suoi caseggiati non sono più le orride grotte che rifiutavano il sole, in cui – scriveva sempre nello stesso anno Sibilla Aleramo – “Si saliva da scale chiazzate d’acqua, buie, ed ai lati dei pianerottoli si aprivano corridoi neri e da questi uscivano donne scarmigliate, il seno mal coperto da camicie sudicie, lo sguardo ostile, le voci rauche che non imploravano, ma davano con indifferenza notizie di malattie, di scioperi forzati, di ferimenti”. Né le sue strade sono più teatro, ancora da Maria Montessori, “Di delitti, di sangue, di risse, di spettacoli immondi e quasi inconcepibili”.

La storia di San Lorenzo è segnata dalle stigmate della povertà, i suoi primi abitanti sono quei manovali e muratori del Centro-Sud che, attratti nella Capitale dal boom edilizio del ventennio 1870-90, vengono autorizzati a dormire in una serie di luoghi pubblici tra cui, appunto, la scalinata della Basilica di San Lorenzo.

E ancora un secolo dopo, negli anni 1970-80, pur evadendo dalla condizione infernale delle cronache d’anteguerra, il quartiere resta sempre popolare, molto povero, abitato da operai, da lavoratori dell’edilizia e del terziario meno qualificato, da vaste fasce di sottoproletariato. L’unico elemento di novità, di trasformazione, è la presenza degli studenti universitari fuorisede che non trovano posto nella casa dello studente di via De Lollis e, legata a doppio filo ad essi, l’esperienza di una nuova sinistra, giovanile e rivoluzionaria, che in queste strade trova un immediato e forte radicamento.

I nuovi sanlorenzini

L’affacciarsi di nuove forme di lotta e di nuove figure politiche in un quartiere che ha combattuto strenuamente il fascismo, e che da esso è stato strenuamente perseguitato, rielabora e riattualizza una memoria storica di comunità rossa e popolare, ribelle ad ogni potere e sopruso, rifondandola intorno ad una rinnovata mitopoietica. Il San Lorenzo di questa fase, dignitosamente – non più disperatamente – povero, con la propria sintesi di vecchi e nuovi proletari [lo “studente-massa”], con le osterie alla buona e le trattorie da fuorisede, con le bischette dei malavitosi, le botteghe artigiane e le sedi politiche, con i bagni sui pianerottoli ed i muri pieni di scritte, fiero delle sue identità, storia e carica antagonista, diviene in pratica l’immagine per antonomasia del quartiere, tutto ciò a cui tutti pensano quando si nomina la zona.

Questo modello appare però decisamente estraneo alle dinamiche che iniziano a svilupparsi a cavallo del millennio. La passeggiata di prima ci consegna un quartiere totalmente diverso. I primi cento anni di vasti cambiamenti sociali e politici hanno tramutato in dignitosa indigenza la primitiva disperazione, i venti successivi hanno addirittura eliminato la povertà, deportandola in periferici altrove. San Lorenzo non è più povera, se non ormai in minima parte, non grazie a un generalizzato processo di miglioramento economico ma attraverso la sostituzione di un ceto con un altro, più abbiente.

I nuovi sanlorenzini provengono dalle professioni liberali, dal mondo dell’arte e della cultura, dall’università e dai mass-media. I palazzi, grazie anche ai finanziamenti pubblici, hanno definitivamente abbandonato l’antico aspetto tellurico per proporsi come eleganti architetture umbertine. Palazzo Lamperini, raro caso di architettura operaia “di ringhiera” a Roma, finisce sui libri, la ex-vetreria Cerere diventa una colonia di artisti, il III Municipio aggiusta strade ed erige monumenti. Grazie a una popolazione giovanile numerosa ed esuberante, i muri presentano ancora scritte, graffiti, tags, manifesti, ma l’impressione è che anche questa sia una gara persa. Gli abitanti, prima indifferenti a certe pratiche , tendono ormai ad adontarsi se vengono a sapere dal muro appena ridipinto del proprio palazzo che Mirko ama Cerbiatta o che la Roma is Magic. Non sono più gli stessi abitanti, non sono più gli stessi muri.

Ad aver cambiato fisionomia sociale non sono soltanto i palazzi, ma anche le strade. A quella che era una zona prettamente diurna, e che anzi – per tornare alle origini – diveniva con le tenebre territorio proibito alla “gente per bene”, si è sostituito un sistema da divertimentificio notturno animato da oltre cento locali legati alla ristorazione e al tempo libero – pub, pizzerie, wine-bar, ristoranti, bar, enoteche, sale da tè, kebab house, rosticcerie, finte associazioni culturali, music-hall – e dalle loro migliaia di avventori.

La fascinazione dei ceti economico-culturali alti per i quartieri popolari, siamo sempre lì. Volete mettere il gusto di cenare in un ristorantino non solo intimo, raffinato e adeguatamente costoso, ma che magari ha anche preso il posto, nel corso di oltre un secolo, di quel che era prima stata una fraschetta per poveracci, ancor prima un cupo antro artigiano – guardando le foto d’epoca, il termine “bottega” appare a dir poco eufemistico – e alle origini un deposito di stracci? Oppure il piacere di assaporare un calice di vino accompagnato da stuzzichini in luoghi in cui, ancora fino agli anni ’70 del ‘900, nelle case si pativa la fame e molti ragazzi giravano senza scarpe?

Il luccichio del trendy

Ma bando al populismo. Il mondo cambia, i quartieri pure. Quando una zona da vecchia diviene prima vetusta e quindi addirittura antica inizia a far gola a chi sa e può vivere. È stato il destino del centro storico, di Trastevere e Borgo Pio, perché non dovrebbe accadere a San Lorenzo?

Oltretutto anche qui la vera povertà sembra ormai relegata al popolo degli invisibili: i barboni che pescano cibo nei cassonetti della nettezza urbana, i senegalesi che battono le strade con i borsoni pieni di calzini acrilici e di camicie stampate, i bengalesi che t’inseguono di pub in ristorante con le proprie rose scarnite. Anche i figli del vecchio San Lorenzo non sono più gli straccioncelli d’un tempo. Sono proprio come i ragazzi della vicina e “borghese” piazza Bologna, o come le migliaia di fuorisede che affollano a 350 euro a posto letto l’intero quartiere. Non solo hanno tutti le scarpe, ma spesso ce l’hanno anche griffate. Proprio come gli altri: ognuno con il proprio stile, ma appunto indistinguibili da chi vive oltre le mura Labicane, il Verano o la Sapienza.

Possedere oggi dei metri quadrati da queste parti significa del resto essersi assicurati come minimo una vecchiaia tranquilla. E l’aspirazione al benessere può essere beffeggiata soltanto da chi non ha mai patito il peso della povertà. Oggi i sanlorenzini, o almeno quelli che ancora abitano nel quartiere, e in ogni caso con le immancabili eccezioni, sono molto meno miseri e disperati d’un tempo. Il mondo cambia, i quartieri pure.

Eppure, sotto il luccichio del trandy artistico-culturale, sotto le mille luci dei locali che rendono il quartiere allegro e vitale, sotto i fulgori della speculazione immobiliare e dell’intraprendenza commerciale, sotto un’apparente coltre interclassista che sembra aver se non domato almeno addomesticato i rapporti di classe, una serie di dinamiche sociali più interne, quasi sotterranee, disegnano un quartiere in cui le relazioni tra sfruttati e sfruttatori mantengono attuali le analisi sulla trasformazione dei mezzi di produzione, e con essa delle forme di sfruttamento, di tutti quei giovani e meno giovani che a partire dagli anni ’70 rianimarono con le proprie idee e le proprie azioni la vocazione antagonista e sovversiva del quartiere.

Sotto le eleganti sembianze del nuovo San Lorenzo, dietro le sue raffinate enoteche e le sue associazioni culturali, compaiono brutture antiche quali il lavoro nero, la privazione di diritti, la negazione di identità.

[da Carta n.43, 2003]