MONDO

La marea è diventata oceano

Torniamo con lo sguardo alle manifestazioni di sabato

La marea è diventata oceano, almeno per un giorno. Il giorno dopo l’inaugurazione del mandato presidenziale di Donald Trump. E se oggi le notizie già riguardano i primi cinque atti esecutivi del presidente (taglio dell’incentivo federale dello 0.25% annuo per l’apertura di mutui per la casa; annullamento del TTP; introduzione della Mexico City Policy annunciata da Reagan nel 1984, che toglie finanziamenti alle ONG che praticano l’interruzione di gravidanza; due misure per la costruzione degli oleodotti Keystone XL e Dakota Access, che autorizzano i lavori, ma solo con l’acciaio americano), diamo ancora uno sguardo alle manifestazioni di sabato.

Nonostante i numerosi cartelli “He’s not my president”, c’era chi diceva diamogli una chance, è un presidente eletto democraticamente (poliziotta in pussy hat sopra il cappello di ordinanza che fraternizzava e arringava in mezzo alla folla di New York City). Molti di più invece i cartelli sui numeri del voto popolare, di fatto annullato dai collegi elettorali scelti dalle cupole territoriali dei due partiti arrivati al ballottaggio – meccanismo ancora più restrittivo dell’Italicum. E ha capovolto il voto popolare.

Le manifestazioni di sabato hanno attraversato gli Stati Uniti facendo numeri che non si vedevano dall’inizio della guerra in Iraq. 500.000 donne a NYC; più di un milione a Washington DC. L’organizzazione della Women’s March parla di 5 milioni in tutto il mondo, ma, considerando gli Stati a maggioranza liberale, si può dire che un terzo della popolazione è sceso in strada contro l’insediamento di Trump. O piuttosto per combattere – simbolicamente – una serie di affetti negativi che hanno dato al paese quest’aria da funeral party negli ultimi due mesi. Solitudine. Nostalgia. Paura. Depressione. Senilità. Questa la normalità diffusa del post-trumpatic shock. Questa anche una condizione da cui ricominciare. Guardando in giro e attaccando bottone si capisce che c’è grande voglia di costituire nuovi progetti politici, ad esempio nasce “Women’s work is never done”, piattaforma di mutualismo femminista. Diversi media collective di donne e/o artiste con l’idea, molto pragmatica, di farsi fondazione, d’investire l’una nell’altra, d’influenzare i senatori al congresso, com’è nell’agenda della Women’s March, che prevede 10 azioni per i prossimi 100 giorni, tra cui l’esplicita ricerca di alleanze parlamentari per contrastare le misure di Trump.

Con la densità impressionante della “società civile” che quando scende in piazza lo fa con personal statements e un cartello a testa (forse per il principio una persona-un voto: “Kiss my muslim ass”, “This pussy has claws”, “Nasty women make history”), molti gli appelli per un generico fare l’America. “We make America”. Il tono di una rivoluzione ottocentesca bianca che ha avuto successo. Il tono del movimento per i diritti civili. Con uno spostamento: “Civil rights are Women’s rights”. E riappropriazioni femministe del “we shall overcome” del canto operaio, diventato un “we shall overcomb” (comb over è il riporto di Trump, overcomb è pure “fare il contropelo”). America resta una fantasia collettiva di giustizia, intesa come quel mettere in comune identità differenti che in fondo è il tratto più appassionante di essere in questa piazza. Quasi assente però Black Lives Matter. E sicuramente non ci sono segni di solidarietà con la rivolta anticapitalista di venerdì, che ha visto oltre 200 arrestati, con accuse che prevedono tra gli otto e i dodici anni di detenzione tra gli attivisti di Disrupt 20.

A Washington DC Madonna e Angela Davis parlano di rivoluzione. Prepararsi tutte a una nuova militanza, a nuovi sforzi per mobilitarsi. In un’intervista a Libération Judith Butler ha parlato della necessità per la sinistra che verrà di saper abbracciare un populismo di sinistra, mentre Lauren Berlan ha forse commentato questi eventi su Social text nel modo più lucido: il ritorno del Big Man, del sovrano dopo l’epoca della sovranità, è di certo un fatto, ma bisogna vincere un feticcio statalista, perché “lo Stato federale è solo una delle tante cose della vita. L’ibrido Stato-Nazione è solo una delle infrastrutture del politico negli Stati Uniti: dietro di sé ha molto potere, il potere della comunicazione e il potere della morte, la valorizzazione di una supremazia egemonica e una varietà di strategie persecutorie chiamate “consenso” per quelli che restano in vita. Credetemi, non sto minimizzando questo. Ma, come ho imparato dal femminismo e dall’anarchia, lo stato è solo una delle cose. La politica serve a rimettere in scala che genere di cosa sia”.