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#NiUnaMenos: intervista a Nora Ferreyra, militante femminista argentina

Intervista a Nora Ferreyra, attivista femminista nella provincia di Jujuy, presidente locale dell’associazione delle Abuelas di Plaza de Mayo ed ex combattente dell’ERP.

Nora Ferreyra presidente dell’Associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo di Jujuy e fondatrice dell’associazione Juanita Moro, un collettivo di donne della città di San Salvador de Jujuy. A 14 anni inizia la sua militanza a Cordoba, nel maggio del 1969, durante il Cordobazo, un movimento sociale in cui sindacati e studenti si sono scagliati contro la dittatura di Onganìa e durante il quale la repressione ha ucciso molti dei suoi compagni di lotta. Subito dopo Nora entra a far parte del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori che poi intraprende la via della lotta armata con la fondazione dell’Esercito Rivoluzionario del Popolo, durante la dittatura successiva. Al suo ritorno in in Argentina, dopo un periodo trascorso in Paraguay dove era stata costretta ad emigrare per via dello stato ancora precario in cui verteva la democrazia, si trasferisce nella provincia di San Salvador de Jujuy per restare vicina alla frontiera. Qui inizia la sua militanza nel quartiere, diventa presidente del centro vecinal e fonda la Juanita Moro, un’organizzazione che deve il suo nome ad una delle oltre 200 combattenti per l’indipendenza che hanno perso la vita tra Salta e Jujuy, spesso dimenticate dalla storia ufficiale.

L’organizzazione entra poi a far parte dell’Unione delle Donne di Argentina, che nasce nel 1947. Questa a sua volta deriva dalla fondazione della FDID (Federazione Democratica internazionale delle Donne) istituita nel 1946 con lo scopo di conformare un gruppo di donne che lavorasse per la pace nel mondo.

Puoi raccontarci come nasce e come si trasforma la lotta delle donne in Argentina e più in generale nel continente latinoamericano? Come interseca tutte le altre lotte che attraversano il continente?

In America Latina per via della dittatura si dimentica [a lungo] la lotta delle donne, si chiama più in causa la lotta di classe o altre lotte. Per via dello scenario politico che abbiamo vissuto, le rivendicazioni delle donne tornano a farsi sentire con il ritorno alla democrazia in Argentina, nel dicembre del 1983. Quindi a marzo dell’84 già riprende la lotta femminista. Nel 1981 si fa un incontro delle donne femministe in America Latina, a Bogotà in Colombia. In questa occasione, le donne della Repubblica Dominicana lanciano il 25 Novembre come giornata contro la violenza sulle donne, per ricordare le sorelle Mirabal (Uccise nel 1960 per aver lottato contro la dittatura di Trujillo ndr.). Gli incontri regionali si tengono ogni due anni e quelli mondiali sono ogni quattro. Quest’anno si è tenuto a Bogotà, in Colombia. Si è deciso di farlo lì per via del plebiscito, poi alcune di noi si sono fermate a militare per la pace in Colombia […] perché le compagne ci avevano avvertito che la situazione a Bogotà era dura ed infatti il porta a porta lo è stato.

Questo anche perché Bogotà, come molte capitali è lontana dalle zone di conflitto, la società è più di destra, forse perché le persone pensano quotidianamente ad andare a lavorare per mantenere un certo livello di vita.. Anche se sono attivi dei livelli di militanza, non è come la società contadina in cui le persone vivono il conflitto e soffrono costantemente la disoccupazione, l’assenza di politiche pubbliche e c’è maggiore presenza di organizzazioni e più lotta. È stato molto difficile: a volte ti sbattevano la porta in faccia e non ti dovevi scoraggiare, ma continuare e bussare alla porta a fianco.

Fortunatamente in America Latina c’è stato un ricambio generazionale, come in altri continenti, per esempio anche in Africa c’è stato un ricambio. In altri casi, come quello europeo no. In quanto alla lotta, lo vediamo quando facciamo il congresso internazionale. In questa occasione mi ha colpito la presenza di donne palestinesi ed israeliane molto giovani. Una delle israeliane raccontò in una delle tavole rotonde che tra i 20 ed i 25 anni le donne in Israele sono obbligate a fare il servizio militare ed ad andare a prestar servizio alla Striscia di Gaza. Questo gruppo di giovani donne si era rifiutato ed erano state detenute per sei mesi [..]. Hanno quindi chiesto al congresso di esprimersi ufficialmente per appoggiare le donne che obiettassero, per evitarne l’arresto. In questo congresso erano presenti solo traduttori dall’inglese e dallo spagnolo, quindi, quando intervenne una delle donne palestinesi per esprimere la sua opinione, a tradurre fu proprio la ragazza israeliana. Questo accade perché si lotta. Non si possono dare queste situazioni se non nella lotta. L’attitudine di queste generazioni giovani ci fa sperare in un cambio. È difficile che questi cambi si diano al livello di governo, perché i governi sono controllati dagli interessi economici e dai mercati, i cambi si fanno quando i popoli si uniscono nella lotta, sono gli unici che possono trasformare una realtà. Io spero che questo continui, è la speranza di molte di noi che erano lì, al di là di ciò che potevamo realizzare come congresso appellandoci al governo, il cambiamento non può avvenire a quel livello lì, il cambiamento deve venire dal basso.

Ci puoi raccontare come è organizzata l’associazione delle Abuelas di Plaza di Mayo di Jujuy? Come operano le differenze di età e di etnia in uno spazio con una tradizione storica così solida?

A Jujuy si è formata una rete per l’identità delle Abuelas di Plaza de Mayo. Seguiamo i giovani che hanno dubbi riguardo la propria identità. [Molti dei figli dei desaparecidos durante la dittatura furono sottratti alle famiglie ed affidate illegalmente in adozione durante la dittatura, ndr.]. Si fa un questionario e viene inviato alla casa centrale e quando si contano più o meno 10 giovani in una provincia, l’organizzazione manda un medico per fare il test del DNA. […] A Jujuy il lavoro è difficile perché per via dell’amnistia. C’è una legge che non permette di fare il test del DNA senza certificato medico, a meno che non SI presentino almeno due testimoni. Questa legge ci complica molto il lavoro, ma non possiamo spingere affinché sia tolta perché molti bambini nascono nelle montagne senza certificati, nell’ospedale.. […] Questa legge è piuttosto conosciuta, molti infatti sono venuti ad annotare i figli come propri a Jujuy da altre provincie.

Quindi arrivavano certificati di nascita di altre provincie e uno deve registrarli, giorno per giorno, è una militanza costante, per poter vedere quali documenti mancano. In quanto al tema dei diritti umani, si lavorava molto più in congiunto ed in blocco. Poi arrivò un momento che alcune hanno appoggiato più apertamente il governo kirshnerista. Seppure è vero che il governo ha alzato molto la bandiera dei diritti umani, ha anche operato una divisione dentro ai diritti umani. Alcune di noi hanno capito che pur avendo un cuore politico, dobbiamo mostrare un certo livello di imparzialità, perché i giovani che si avvicinano e vengono a a chiedere vari dati […] e sono di differenti provenienze: si sono persi nelle diverse epoche e spesso quando li incontriamo hanno già 40 anni e sono stati formati con l’ideologia che c’era nelle forze militari. Le nonne sono sempre state presentate come streghe, e noi continuiamo ad essere delle sovversive. [..]

È uscito un libro che si chiama “Puta e guerrigliera” perché per i militari della dittatura la guerrigliera era una puttana. Era molto difficile perché per quasi tutte le donne arrestate l’abuso sessuale era una costante. Questo perché loro così affermavano la loro volontà di ridurti al nulla. Cosa è di più sagrato per una donna della sua sessualità? Quindi era la prima cosa che attaccavano, perché in altre cose la donna è forte (nonostante ci chiamino il sesso debole). Quando ti torturavano la forma più facile di indebolire una donna era ledere la sua intimità sessuale. Già ti passavano una mano su un seno avevano rotto tutto un ermetismo che mantenevamo molto riservato. Così, anche nella società, quando iniziarono ad uscire i giudizi per lesa umanità si cominciò ad affermare che questi erano casi di tortura e tormento.

Fino a 5 anni fa, le donne non trovavano la forza per denunciare la violenza sessuale. Poi magari [ai violentatori e torturatori] venivano dati otto anni. […] Allora si sono fatte coraggio per prime alcune donne di Rio de la Plata, poi quelle di Rosario, poi di Santiago del Estero, poi anche qui a Jujuy. Considerate che questo giudizio sarebbe dovuto iniziare a luglio, poi lo hanno spostato ad ottobre…poi a marzo e poi, il sei di marzo, è finalmente iniziato un nuovo giudizio ma non è stato incorporato questo tema della violenza sessuale. Perciò anche se è indubbio che abbiamo avanzato molto nelle nostre lotte, uno degli ambiti peggiori con cui avere a che fare è la giustizia, dove se denunci una violenza sessuale ti chiedono se portassi la gonna o se uscissi a ballare. Come se te lo stessi cercando…è come se avessero il diritto di ucciderti. In questa sede lottiamo anche affinché la parola femminicidio entri nel codice penale. Altrimenti ci sbattono sempre in faccia la questione dell’emozione violenta, chiaro perché se tu salivi con una gonna corta lui ha avuto una pulsione violenta e ti ha ucciso, quindi gli davano otto anni e non femminicidio.

E tu come lo vedi questo 25 novembre? Con #NiUnaMenos a giugno, con l’incontro di Rosario a ottobre, poi lo sciopero delle donne la settimana successiva… diciamo che ci arriviamo con alle spalle una primavera piuttosto calda.

Questo 25 novembre vedo la donna molto mobilitata, per fortuna, sono nate molte organizzazioni, di quartiere, di vicinato [… ] I femminicidi sono sempre esistiti, ma questa brutalità con cui sono compiuti, questa cosa di bruciarle…questo è un segno chiaro di una società violenta. […] Questo fa sì che le donne oggi si rendano conto che è necessario organizzarsi. Già nell’incontro nazionale delle donne si vedeva. Quando abbiamo fatto il primo incontro nazionale di donne c’erano 1200 donne e saltavamo dalla gioia.. E quindi è ovvio che la donna sta partecipando di più ora. [l’Encuentro Nacional de Mujeres che si è tenuto nel 2016 ha contato oltre 70.000 partecipanti, ndr.]. Prima venivamo da un tempo di dittatura, la paura, l’indicazione costante del “fatti i fatti tuoi”, “si salvi chi può” ecc. Questo ha lasciato un segno forte, è stato difficile. Per questo è stato molto lungo e molto sinuoso il cammino della lotta delle donne. Prima abbiamo dovuto lottare con il messaggio della dittatura e poi con il messaggio neoliberale, con il mondo del mercato che fino ad oggi, in quanto alla violenza simbolica non vuol capire, continua a praticarla. E queste contraddizioni che ci sono nei nostri funzionari: come quando in Messico ed in altri paesi, c’è l’ordine non allattare nella via pubblica. L’allattamento è osceno, però poi i giornali per vendere di più mettono sempre una donna nuda in prima pagina […] La donna come oggetto nel mondo del mercato c’è e questo si naturalizza. Anche questo è un altro cammino che dobbiamo andar disfacendo.

Qui a Jujuy, inoltre, da anni ci battiamo attivamente su vari fronti, per esempio c’è la battaglia per le quote in politica. Dall’84 lottiamo per il 30% minimo, che è stato poi stabilito dalla legislazione nazionale. Qui abbiamo fatto grandi lotte e solo dopo 19 anni, tre anni fa, la legge è stata implementata, proprio il 25 di novembre. Un gruppo di donne si era presentato alla legislatura [..] per chiedere che per lo meno si aderisse alla legge nazionale e che non si creasse una legge provinciale distinta. Lo stato le ha represse, cioè hanno esercitato violenza sulla non violenza. C’era un gruppo nella strada che stava volantinando, spiegando il perché delle quote. Pur essendo una legge discriminatoria, diciamo di azione positiva, è necessaria una quota istituzionale di almeno 30%. Noi, anche con tutta questa lotta, altrimenti otterremmo il 12%. Insomma, è anche lo stato stesso che genera violenza o non rispetta i patti di diritto internazionale.

In quanto all’aborto, lo scorso anno, qualcosa al livello nazionale si stava muovendo, ma quest’anno con l’attuale governo e la sua composizione la vedo molto male. In quanto alla legge per la salute sessuale e riproduttiva, che è uscita a livello nazionale, ci è costata tanto quanto la legge del 30% delle quote a livello provinciale. Noi lottavamo, davamo battaglia perché questa legge uscisse. Beh è uscita dalla legislatura ed il governatore ha imposto il veto, quando abbiamo chiesto al governatore il perché, ci ha detto di parlare con il vescovo. Iniziammo quindi una lunga lotta contro la chiesa ed alla fine il vescovo ha accettato la legge con la dicitura “Paternità e maternità responsabile”… Beh a noi non importava il nome, l’importante è che si distribuissero i contraccettivi negli ospedali pubblici e che ci fossero delle politiche pubbliche attive. E così a Jujuy abbiamo la legge della paternità e della maternità responsabile. Anche in altre provincie è costato molto implementarla, perché ci sono dei legislatori e governanti che non solo non ne vedono la necessità, ma credono anche di dover andare a negoziare con la chiesa i diritti delle donne.

Infine, c’è il fronte della violenza sessuale che qui a Jujuy ci vede protagoniste di una dura battaglia. La maggior parte dei violentatori non viene arrestata. I giudici li assolvono, e girano liberi e ci è costato molto affinché si compisse anche solo il protocollo della pasticca del giorno dopo in caso di violenza sessuale. Qui per esempio, nell’unico ospedale che abbiamo in cui ci sono le strutture per poter abortire, il capo di ginecologia e tutto il gruppo di ginecologia e ostetricia si rifiuta di praticare aborti, perché sono obiettori di coscienza. Noi siamo stati a parlare con il ministro, chiedendo che lo licenziassero [..] Queste sono contraddizioni che sembrano ovvie, ma che dobbiamo permanentemente mostrare a chi ci governa e dobbiamo lottare permanentemente. Due volte, ad esempio, abbiamo avuto un problema con giovani donne che erano state violentate, una è stata mandata a Buenos Aires con l’aereo medico. Il ministro per farci stare zitte, è arrivato addirittura a questo, per dimostrare che aveva risolto il problema. Noi gli dicevamo che il problema non era risolto, perché continuano ad esserci gli stessi medici e sappiamo che nelle loro cliniche e nei loro consultori privati gli aborti si fanno. Quindi non è una obiezione di coscienza, è una obiezione di tasca. Poi c’è il problema delle donne che non si avvicinano al movimento, che non intercettiamo e che vanno direttamente all’ospedale. Qualora vadano, il che non è sempre scontato quando si è vittime di violenza. Noi non possiamo essere onnipresenti.. ma cosa accade quando ad una donna viene rifiutata l’attenzione?

Questo 25 di novembre il movimento delle donne di Jujuy sta cercando, da oltre 5 anni, di far dichiarare a Jujuy l’emergenza della violenza sessuale e domestica. Dato che non vengono stanziati i soldi pubblici vengono generate strutture totalmente vuote con personale senza competenze specifiche. Con la dichiarazione di emergenza sarebbero obbligati a stanziarli, quindi noi vogliamo sapere con quali fondi possiamo contare per le politiche pubbliche di genere.

In questi giorni sto leggendo molti articoli sul tema del femminicidio, parola coniata da Diana Russell nel 1992 per denunciare il falso neutro della parola omicidio, che invero rimanda all’uccisione di un uomo, e dunque riconoscere giuridicamente la specificità dell’uccisione di una donna proprio per il suo essere donna. Qui in America Latina la parola inglese femicide è stata invece tradotta nello spagnolo femminicidio dalla messicana Marcela Lagarte, con l’intenzione di recuperare semanticamente la dimensione strutturale del patriarcato che spesso si traduce in impunità, collusione delle istituzioni, pratiche relazionali maschiliste e misogine. La curiosità è dovuta al fatto che oggigiorno il problema del femminicidio, sulla spinta dello slogan Ni Una Menos, sta riattivando e riassemblando le lotte femministe nel continente. A partire da un fenomeno efferato, l’uccisione delle donne, che in realtà è la punta di un iceberg, la violenza più profonda esercitata ogni giorno in ragione del genere. Tenendo conto della tua traiettoria come femminista, come guerrigliera, come attivista politica, cosa è quello che sta succedendo in Argentina, e più in generale in Latinoamerica? Perché ora se toccano a una ci mobilitiamo tutt*? Come vedi questa rivitalizzazione delle lotte femministe?

Guarda io non voglio peccare troppo di femminismo ed arrivare all’estremo opposto, ma tutte le grandi lotte sono nate dalle donne. Se parliamo della Russia dove sono uscite a lottare per il pane, se parliamo del maggio francese dove le studentesse si sono levate i reggiseni, se parliamo dell’Argentina con le Madres di Plaza de Mayo. Qui sono state le donne che si sono scontrate con la dittatura e tutto ciò non sorprende affatto, perché la donna tende ad organizzarsi. Sarà perché sa che da sola non può far nulla e perché ha sempre dovuto affrontare molte cose sola, che il suo lavoro è sempre stato invisibilizzato, così come il suo lavoro domestico. Che è stata marginalizzata e le venivano attribuiti ruoli che le impedivano di studiare. Non si poteva far altro che lavare, stirare e prendersi cura dei bambini.

Oggi perciò può lottare per i suoi diritti, ma in realtà lo ha sempre fatto, solo che a differenza di prima, oggi è più visibile. Ha un potere di organizzazione costante. […] Però una donna muore ogni 30 ore ed ora si sta riducendo anche perché marciamo, ma intanto non ci sono politiche pubbliche e per quanto possiamo marciare, contiamo sempre più morti. […] Chiaramente è perché questo si è visibilizzato di più il fenomeno. E poi le donne sono state picchiate, quasi da sempre. Oggi come oggi, si fanno coraggio e vanno a denunciare, anche per questo i numeri stanno aumentando. Prima era la regola che l’uomo, se era il marito oppure il compagno, avesse tutto il potere sulla donna. Poteva picchiare e questa mentalità era accettata dalle donne. Questa società maschilista e patriarcale, però, è riprodotta dalle donne, la riproduciamo anche nel linguaggio. […] Ci inglobavano nella parola “uomo” e noi dicevamo di no. Ora ci sono alcune che non dicono uomini, ma maschi. Cioè che bisogna dire i maschi e le donne, sono due generi, l’uomo continua ad inglobarci tutti. Insomma, cambiare il linguaggio ci aiuta a volte a modificare le pratiche che abbiamo molto incorporato e naturalizzato. Di fatto un maschio o una femmina, un bambino o una bambina passa molte più ore con una donna che con un uomo. Perché il personale docente è donna, e perché se non c’è la mamma, magari perché è a lavoro, è la zia o la nonna che la aiuta a crescere i figli. Il bambino o bambina passa più tempo in percentuale con una donna, quindi quelle che riproducono il patriarcato siamo noi, per prime.

Non c’è dubbio che dopo tanti anni che ci portiamo dietro questo peso, questa pratica, che abbiamo naturalizzato ruoli ed abbiamo naturalizzato un linguaggio ci costa disfare tutto e tornare a fare tutto da capo. In questo la dona sta imparando a non rimanere in silenzio, a non naturalizzare, a denunciare […] progressivamente impara, perché anche se sono poche, ci sono delle politiche pubbliche e delle leggi che la tutelano […] Ci sono linee gratuite e si può far la denuncia anonima, e progressivamente va imparando quali sono i suoi diritti. E se lei non riesce a farsi coraggio, lo racconta ad un’altra affinché si faccia avanti ed è l’unica forma in cui si va avanzando, va affermando i suoi diritti e questo ci fa vedere che non è sola: scende in piazza.

Alcune giovani scendono in piazza per se stesse, altre si stanno organizzando in associazioni e ci sono le vecchie storiche che cerchiamo di tracciare un cammino che le altre generazioni possano transitare. Questa è la cosa più importante, questo cambio generazionale, affinché le lotte non decadano e si continuino a conquistare diritti e si continua a difendere i diritti che sono stati conquistati. Questa è la cosa più difficile, perché affinché un diritto veda la luce del giorno, sono sempre corsi bagni di sangue , ma poi difenderlo è una delle cose più difficili.

*foto di Pablo Mardones Charlone