EUROPA

Le spectre de la ville

Note sulla rivolta delle banlieues

«les banlieues étaient le spectre de la ville»

Henry Lefebvre, 1985¹

Pas de justice, pas des paix

Da qualche tempo ci chiedevamo se non fosse giunto il momento di avanzare un bilancio delle mobilitazioni che hanno attraversato la Francia tra la primavera e l’estate del 2016. Dopo l’ultima grande manifestazione di settembre non si erano più date grandi convocazioni di piazza. A seguito dell’approvazione della loi travail, e di fronte alla radicalizzazione delle piazze come dei suoi stessi iscritti, il sindacato aveva abbandonato il campo della mobilitazione generale. Intanto, si moltiplicavano le azioni repressive nei confronti dei tanti che si erano mobilitati, e si intensificava l’attacco ai migranti: lo smantellamento della giungla di Calais vale come esempio di una tendenza più generale.

Il dibattito politico, nel corso dell’autunno e dell’inverno, si è così del tutto ridefinito con l’avvio della campagna per le presidenziali. Una campagna che sembra segnata da una certa scomposizione delle forze del patto repubblicano. Se a sinistra, dopo la disfatta del quinquennato di Hollande, si registra una rottura della continuità, politica e burocratica, del socialismo francese e una frammentazione delle forze in campo (Hamon, Mélenchon)², il campo della destra è segnato da pesanti dinamiche corruttive. Nel mezzo, la vittoria di Trump negli Stati Uniti. L’attenzione della stampa internazionale nei confronti della Francia si è così rivolta morbosamente al fenomeno Marine Le Pen. Non c’è due-senza-tre, ci dicono, implicitamente o talvolta esplicitamente, gli organi di informazione, autentiche centrali di populismo: dopo il Brexit e Trump, sarà la volta di Marine Le Pen.

A fronte di questo cambio di scenario, un bilancio di quelle lotte ci sembrava perciò urgente. Tuttavia, ci pareva difficile formularlo in termini canonici. Qualcosa infatti sfuggiva alla delimitazione temporale di un “prima” e un “dopo” delle mobilitazioni. Il proliferare di iniziative, dibattiti, assemblee, il moltiplicarsi dei collettivi, in particolare nei licei e nelle università, a Parigi come in molte altre città della Francia, ci mostravano un fertile terreno di sedimentazione di pratiche, discorsi e modi di vita. In altri termini, quel laboratorio di politicizzazione di massa che aveva preso la forma spuria delle NuitDebout e degli scioperi metropolitani, ci sembrava fosse alla ricerca, un po’ dappertutto, di una nuova dimensione spaziale e politica.

Ma accanto a ciò, accadeva dell’altro. Nelle banlieues del nord di Parigi, che il récit di questi anni ci ha descritto come luoghi marginali, invisibili, improduttivi, e ormai caduti nella spirale della radicalizzazione jihadista, cominciavano a prendere corpo nuovi processi di lotta e di autorganizzazione, in risposta a brutali atti di violenza poliziesca. Il 19 luglio 2016 veniva ucciso Adama Traoré, un giovane di 24 anni. Lo scorso 2 febbraio, Théo Luhaka, nel corso di un “regolare” controllo di polizia, veniva violentato.


Foto di Jean Segura

Mais qui nous protège de la police?

Adama Traoré, giovane di origini maliane, viene ucciso nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno a Beaumont-sur-Oise, a seguito di un controllo d’identità. Le prime testimonianze dei poliziotti coinvolti nel suo fermo fanno pensare che sia stato vittima di una tecnica di immobilizzazione chiamata plaquage ventrale che ne ha causato la morte sotto il peso di tre agenti che lo tenevano immobilizzato (una tecnica vietata in molti paesi e indicata come pericolosa da diverse associazioni contro la tortura).

Alla morte di Adama sono seguite dichiarazioni contraddittorie da parte delle autorità pubbliche e di polizia e tentativi di nascondere le verità emerse dalla seconda autopsia (ottenuta grazie alla determinazione della famiglia e dei suoi avvocati) che dimostravano la morte avvenuta per asfissia. Non sono mancate inoltre minacce ai familiari, intimidazioni politiche, giudiziarie e poliziesche ai danni di chi a Beaumont-sur-Oise, e non solo, si è mobilitato in solidarietà con il comitato “Verité et Justice pour Adama”.

La lotta contro gli abusi regolari della polizia nei quartiers populaires ha così cominciato a parlare e a intersecarsi con quella nuova composizione sociale metropolitana che si è mobilitata contro la loi travail. A poco a poco veniva così decostruito il discorso politico-mediatico che descrive il “casseur” e il “giovane delle banlieues” come due varianti diverse di uno stesso nemico interno, e si creavano di conseguenza le basi per un fronte comune di lotta alle discriminazioni razziali e per l’accesso ai diritti di cittadinanza.

Il carattere non accidentale e non eccezionale di queste violenze è emerso non solo nella denuncia di una lunga serie di episodi all’interno del quale si iscrive la vicenda di Adama³, ma anche nella riproposizione, a pochi mesi di distanza, di un episodio in tutto e per tutto simile. Il 2 febbraio a Aulnay-sous-Bois (nella Seine-Saint Denis) un altro giovane, Théo Luhaka di 22 anni, dopo essere stato fermato e aggredito da quattro poliziotti, viene violentato.

Le molteplici denunce dei contrôles aux faciès (controlli su base etnica) e delle continue vessazioni che subisce il segmento della popolazione “nera” o “araba” sono confermate dai dati emersi da un’inchiesta nazionale del garante dei diritti francese(4). Questi dati affermano in maniera inequivocabile che i controlli, molto più frequenti tra i giovani, sfociano in molti casi in oltraggi e violenze a marcato sfondo razziale. Uno scenario allarmante se si considera che in Francia sono circa 15 ogni anno (più di una al mese) le morti causate dagli abusi della polizia e censite con un lavoro attento e meticoloso dall’associazione “Urgence Notre Police Assassine”.

In queste contesto, a partire dal 3 febbraio molte periferie a nord e all’est di Parigi sono state investite da émeutes. Tra queste: Aulnays-sous-Bois, Argenteuil, Bobigny, Fontenay-sous-Boi, Ermont, Chanteloup-les-Vignes, Nanterre, Mantes-la-Jolie, Epinay-sur-Sein, Sartrouville, Clichy-Sous-Bois, Drancy, Goussainville, Sevran, Rosny-sous-Bois, Villepinte, Tremblay-en-France, Sevran, Blanc-Mesnil.

Nella giornata di mercoledì 8 febbraio i media francesi, che fino a quel momento avevano sottaciuto o ridimensionato la portata degli eventi, mostravano le immagini di Hollande che visitava Théo in ospedale, assicurando che la “giustizia farà il suo lavoro”. Nelle ore precedenti il video di Théo accasciato e pestato aveva fatto il giro del web. Ma proprio negli stessi giorni, ulteriori elementi favorivano l’inasprimento della situazione. Il Parlamento francese approvava in prima lettura la proposta di legge volta a modificare in senso repressivo l’istituto della legittima difesa, offrendo così un segnale di ulteriore legittimazione dell’esercizio della violenza arbitraria da parte della polizia. Intanto, il tribunale interno della polizia declassava le accuse nei confronti dei poliziotti a semplici “percosse”.


Foto di Jean Segura

L’altro della metropoli

Quando parliamo di banlieues ci riferiamo alla metropoli, nello stesso modo in cui ogni volta che parliamo di “periferia” evochiamo un “centro”. Tra queste due dimensioni dello spazio urbano esiste una relazione di alterità, la quale determina un continuo intreccio di dinamiche di inclusione e di esclusione all’interno del tessuto produttivo metropolitano. I quartiers populaires, costruiti ai margini dei grandi agglomerati urbani, vivono da decenni una profonda frattura socio-economica, fatta di povertà, di sovraffollamento e di gravi carenze del welfare (educazione, case, trasporti, salute). Negli ultimi decenni molte di queste periferie sono state al centro di violenti processi di “urbanizzazione”– come già veniva preconizzato da Henry Lefebvre nel 1968, nel suo “Le droit à la ville” – che avvengono sotto il segno dell’espropriazione e della rendita. La segregazione sociale di cui fanno esperienza gli abitanti di questi quartieri si riflette negli alti tassi di disoccupazione giovanile come nell’inclusione nei settori produttivi a più elevato tasso di sfruttamento. Tale tendenza si iscrive dunque in un processo di segmentazione del mercato del lavoro, che organizza la metropoli come uno spazio striato in cui convivono figure produttive eterogenee.

Parlare di questa alterità significa, inoltre, sollevare il tema dell’identità della sua produzione materiale e simbolica e della modulazione del dispositivo securitario che da questa dipende. Nella produzione simbolica dell’identità francese, come ricorda Mathieu Rigouste(5), sembrano coesistere due dimensioni: la prima estensiva e esplicita che comprende l’insieme della popolazione nazionale francese senza distinzione di cultura, religione, colore della pelle; l’altra invece restrittiva e implicita che tende ad escludere tutti coloro che non rientrano nella categoria dei “francesi di origine – français de souche” descritti come bianchi, prevalentemente cristiani e fedeli al patto laico e repubblicano, allorché proprio le diversità, per parafrasare Fernand Braudel, sono un elemento strutturante della “identità della Francia”.

Questa produzione simbolica, ben incarnata nella proposizione continua di stereotipi mediatici veicolati dai reportage sulle banlieues, è quella che oppone veri e falsi francesi, buoni o cattivi immigrati, islam moderato o radicale, assimilabile o non assimilabile. In poche parole definisce i contorni di ciò che potendo rappresentare una minaccia (un nemico interno) va controllato attraverso una continua modulazione del dispositivo securitario. Una tendenza che si è indubbiamente approfondita dopo gli attentati del 2015 e del 2016 a causa dell’état d’urgence, in vigore ormai da più di quindici mesi. Questa frattura materiale e simbolica è decisiva per cogliere l’importanza della resistenza che si esprime in questa nuova rivolta delle banlieues. Lungi dal poter essere definite come luoghi di mera passività, le banlieues sembrano qualificarsi pienamente solo nel momento in cui insorgono, ponendo al centro l’appropriazione dello spazio metropolitano, la rottura delle divisioni imposte dallo sfruttamento e la deflagrazione delle geografie post-coloniali.

In questo senso dobbiamo guardare con attenzione alla “Marcia per la Dignità e la Giustizia” chiamata a Parigi, nel centro della metropoli, per domenica 19 marzo. Convocata con un appello(6) che denuncia le discriminazioni razziste e l’impunità della polizia, il razzismo di Stato e dei media e la guerra sociale condotta contro i poveri, la marcia potrebbe rappresentare un ulteriore momento di incontro e condensazione delle lotte molto importante.

Foto di Jean Segura

Débordement

L’espressione débordement ha molto circolato in questi mesi nelle discussioni, nei comunicati, nei testi del movimento. La sua ricorsività non denota solo un mutamento del modo in cui si scende in piazza, della forma stessa della manif. A noi sembra che l’espressione stia lì ad evocare proprio quelle istanze di riappropriazione della politica espressa da una nuova generazione. Singolarmente, in questi giorni, sono gli stessi media francesi che hanno richiamato a più riprese il débordement. Subito dopo gli émeutes di sabato 12 febbraio a Bobigny, il quotidiano “Le Monde”, ad esempio titolava: “Bobigny: comment le rassemblement contre les violences policières a débordé”. Al netto del tentativo di isolare due tempi della manifestazione – quello della normalità, e quello del débordement – il titolo, una volta tanto, ci pare calzante. Con l’espressione débordement vogliamo restituire non solo il dato numerico quanto la potenza espressiva di questo nuovo tornante di lotte che si sta dispiegando nella metropoli parigina, con importanti iniziative anche in altre città dell’esagono come Rennes, Nantes, Rouen, Lille, Tolosa e Lione. Attraverso questa espressione ci è possibile infatti tracciare una linea, per quanto obliqua, tra le lotte che hanno attraversato la Francia tra la primavera e l’autunno del 2016 e gli émeutes odierni.

Il movimento contro la loi travail ha fatto emergere in primo piano quella dimensione sociale, cognitiva e cooperativa del lavoro contemporaneo, il cui grado di stratificazione, precarizzazione e impoverimento è conseguenza diretta e immediata della sua autonomia potenziale dal comando del capitale. La rivolta delle banlieues ora illumina un’altra contraddizione che attraversa la patria dei droits de l’homme: la persistenza di confini razziali nelle metropoli post-coloniali, le torsioni e le striature alle quali è sottoposto il dispositivo formale, e astrattamente universale, della cittadinanza. Ciò che è posto al centro, in entrambi i casi, è l’intreccio, nei modi della valorizzazione contemporanea, di modi legali ed extra-legali di esercizio della violenza, i quali producono continue quanto inaccettabili segmentazioni, di razza come di genere, di classe come spaziali.

Le mobilitazioni per chiedere verità e giustizia per Adama e Théo hanno perciò una grande importanza e costituiscono il primo tentativo di incontro tra i giovani del “centro” e della “periferia”. A causa della durissima repressione subita dal movimento di massa contro la riforma del lavoro, la tematica delle violenze della polizia è stata immediatamente assunta come un tema trasversale, permettendo una prima saldatura – niente affatto scontata fino a ieri – tra la composizione racialisé delle banlieues e le componenti più attive del movimento contro la loi travail. Una prima saldatura che si è vista in due sabati consecutivi, a Bobigny e a Place de La République (ma altre importanti iniziative si sono date a Menilmontant, a Belleville, a Barbés). E’ interessante notare come questa prima saldatura sia stata resa possibile anche dall’uso dei social network, in particolare Periscope e Snapchat, che attraverso la circolazione di claim, immagini e appuntamenti, sta favorendo la rottura delle barriere che separano il centro e la periferia.

Non stupisce perciò che siano proprio la stigmatizzazione della violenza poliziesca e la riscoperta della forza della solidarietà a produrre un nuovo comune delle lotte. La posta in gioco è evidentemente quella dell’articolazione di questo comune in forme durature di mutualismo e contropotere. Nella Francia dell’état d’urgence, della disfatta del governo socialista e della minaccia del Front National, l’intreccio tra questi piani di lotta è perciò di cruciale importanza. E lo è altrettanto nell’Europa del progetto neoliberale e del ritorno dei fascismi. Il débordement ci indica così anche una rotta da percorrere: quella della rottura dei confini, fisici e concettuali, che le mistiche della sovranità, della nazione e del popolo che (non ci) manca vorrebbero imporci.

Note

1. Cfr. «Entretien avec Henri Lefebvre: de l’urbain à la ville», in “Techniques et architecture”, n° 359, 1985, p. 112-113.

2. Vedi l’articolo di Toni Negri, Hamon e il reddito di cittadinanza, 10 febbraio 2017.

3. Come bene si evince dal censimento di tutti i casi di violenza della polizia tra il 2005 e il 2015 al quale ha lavorato il collettivo “Urgence notre police assasine” fondato da famiglie delle vittime e consultabile a questo sito: http://www.urgence-notre-police-assassine.fr/123663553

4. Il rapporto è consultabile qui: http://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-enquete_relations_police_population-20170111_1.pdf.

5. L’ennemi intérieur: la généalogie coloniale et militaire de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine, La Decouverte, 2009.

6. Consultabile a questo link: https://blogs.mediapart.fr/marche19mars/blog/191216/le-19-mars-une-marche-pour-la-justice-et-la-dignite