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Hic manemibus optime. La scuola, il “canalone” e la fabbrica meticcia.

Una recensione del libro di Militant A “Soli contro tutti” da pochi giorni in libreria.

Qui alcuni estratti dal libro che l’autore ci ha voluto regalare, per farveli leggere ancora prima di arrivare allo scaffale.

Non è un caso che Militant A (al secolo Luca Mascini, poeta rap di Assalti forntali, ex Onda Rossa Posse) decida di presentare “Soli contro tutto – Romanzo non autorizzato” (Editori internazionali riuniti) negli spazi di Metropoliz, sogno meticcio spuntato nel marzo del 2009 su via Prenestina, all’altezza di Tor Sapienza, periferia est della capitale a due passi dal Gra. Qui, alla fine degli ottanta, c’erano ancora gli stabilimenti della Fiorucci, famoso marchio di insaccati e derivati. Una ghiotta occasione di speculazione edilizia e commerciale che la Salini spa pensava di non farsi sfuggire. E invece, ad oggi, niente appartamenti di cartone a 400 mila euro, ma una città nella città, un progetto abitativo e sociale davvero unico.

Potremmo essere a New York, a Londra, a Bombay. La sala in cui si svolge la presentazione-concerto è uno dei tanti spazi riqualificati, abbelliti dai murales di Lucamaleonte, al cui interno è stato ricavato anche un bar-cucina gestita dalle famiglie rom che qui abitano insieme a italiani, peruviani, eritrei e marocchini. Più di un centinaio di persone affollano lo stanzone, giovani e meno giovani, famigliole festanti e coppie (ex) punk, maestre elementari e occupanti di case, giornalisti e studenti, militanti della prima e ultima ora. I bambini rom accolgono il pubblico correndo e giocando come pazzi, si avventano sugli strumenti che a breve saranno suonati da il Muro del canto, band che accompagnerà la rap/presentazione del più grande poeta metropolitano di questo paese.

Si parte sulle note di “Sono cool questi rom”, omaggio a quella prima fila di occhi neri e sgamati, di mani alzate e cori in slang italo-romeno-romanesco. Tra un pezzo e l’altro, Militant A, riannoda i fili e le emozioni di questo viaggio nel cuore della scuola pubblica ai tempi del neo-liberismo, descrivendo fatti e persone che affollano il quartiere con nomi di piante e fiori, la scuola Iqbal Masih, le lotte per il tempo pieno e l’incontro con i nuovi “dannati della terra”, i rom romeni del “Canalone”, una lingua di terra nascosta agli occhi comuni e ai diritti, a ridosso del parco dell’aeroporto di Centocelle.

Il microfono passa di mano in mano, attivisti, genitori italiani e non, fino alla vera star di questa storia, Simonetta Salacone, ex direttrice della scuola finita su tutte le tv del mondo. Lo scandalo è noto: aver preso sul serio la Costituzione italiana e aver promosso una didattica che mette al centro l’autonomia dei bambini, l’apprendimento “creativo”, l’allenamento continuo allo scambio, alle differenze, al mescolamento. La scuola come spazio di condivisione e di produzione di cittadinanza.

Le pagine del libro scorrono a tempo di rap, e costruiscono uno spazio (pubblico) della narrazione in cui si mischiano ambienti familiari (il rapporto con le bambine, il legame radicato e complice con Michelle), esperienze politiche, memorie resistenti, concerti in ogni luogo e latitudine dove batte un cuore ribelle, una immensa ragionata appassionata lode alla “scuola pubblica laica e solidale”. Le strade della periferia sud-est, i suoi luoghi simbolo, gli odori e gli umori della sua gente diventano avamposto materiale in cui viaggiano bellezza e miseria, vittorie e sconfitte. La vita come palestra del possibile.

Una mappa della libertà, (de)territorializzata, che parte da una scuola speciale e da una dirigente specialissima, passa per l’abisso di un “non luogo” delle disuguaglianze urbane, per chiudersi in una fabbrica “recuperata” che sperimenta l’accoglienza possibile. Questo incrocio di desideri disegna la contesa del nostro tempo, una vera e propria “guerra ai poveri”: da una parte, il valore di scambio elevato a misura universale, la privatizzazione dei beni pubblici e la rendita come spossessamento della ricchezza sociale; dall’altra, l’esercizio comune dei saperi, degli spazi (anche istituzionali), del territorio, della cittadinanza, del nuovo welfare. In questa guerra, ognuno sceglie la sua parte, a tempo di rap, tra occupazioni notturne, classi miste, scazzi infiniti, egoismi, spazi privati trasformati in embrioni di autogoverno.

Su tutto, l’etica ribelle di Militant A impegnata in un corpo a corpo quotidiano con le trasformazioni di Luca Mascini, una doppia tensione, continua, tra conflitto e relazione, autonomia e scambio, scelta di parte e spazio pubblico. Una ricerca radicale, post ideologica, che danza su un robusto spartito biografico, allenata nei centri sociali, nei teatri e nelle università occupate, nei presidi contro le basi americane, in difesa di una Valle, nelle ferite mai rimarginate che portano i nomi di ragazzi senza tempo: Valerio, Roberto, Auro, Carlo, Renato, Dax.

Nella sua scrittura parlata, Militant A ricostruisce una sorta di microfisica delle resistenze metropolitane, in cui non c’è spazio né tempo per alibi, auto-commiserazioni, deleghe e rabbia cieca. A partire dal bene comune per eccellenza, la scuola pubblica, con le sue peculiari “eccedenze” (il sapere e la pretesa di cittadinanza), difese con le unghie e i denti dall’assalto del mercato e dalla misura capitalistica, che non ammette né valori d’uso comuni né lo scandalo di una diversità che produce uguaglianza e autonomia.

Nei dialoghi mattutini tra un padre con felpa e cappuccio e una figlia selvaggia, in ogni angolo di Centocelle, si svela un punto di vista partigiano fatto di curiosità, mondi rovesciati, vertigini culturali, amore familiare mai familistico né privato.

All’inizio dei Novanta, Militant A inventava il tempo e le parole per una generazione alla ricerca della propria colonna sonora per assaltare (ancora) il cielo. Bisognava “mandare giù un po’ di veleno”, ogni giorno, perché le vecchie ricette e i vecchi ritornelli erano scaduti e stonati.

Oggi Luca disegna una mappa in divenire, senza frontiere, unendo i punti delle stelle (e dei soli) che hanno deciso di splendere senza chiedere il permesso a nessuna autorità. A Centocelle e nelle scuole del tempo pieno, nelle occupazioni di nuova generazione e nella babele dei nuovi cittadini romani. Siamo usciti dal villaggio, a mani piene, e stiamo costruendo un’altra città.