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Soli contro tutti


Alcuni brani dal nuovo libro di Militant A degli Assalti Frontali.
Leggi la recensione di Emiliano Viccaro: “Hic manemibus optime. La scuola, il canalone e la fabbrica meticcia”

Dal capitolo: “Dalla parte della vita”.

Noi da quella notte non ci diamo pace. Abbiamo due mesi per organizzare la rivolta e sfasciare il parlamento. Due mesi… prima che il decreto 137 diventi legge. L’Iqbal Masih è in prima fila. “Certo,” direte voi “avete Simonetta Salacone come dirigente”. Avete ragione, abbiamo Simonetta Salacone come dirigente, e poi spiegherò bene chi è Simonetta, ma intorno a lei una comunità prende forma. Siamo assortiti. Ci carichiamo a vicenda. «Blocchiamo la scuola». «Blocchiamo la Casilina». «Blocchiamo l’Italia». Non chiediamo niente a nessuno. Faccia¬mo da soli, eleviamo la sfida, eleviamo la scuola e ci scontriamo direttamente col Governo. La nostra esperienza è unica perché lottare nelle scuole italiane è difficile e nelle scuole elementari ancora di più. Chi ci prova va a sbattere contro un muro di oscurità e indifferenza. «Che volete con quei volantini?». «Non c’avete niente da fare?». «Chieda il permesso!». «Qui non si en¬tra!». «Prenderemo provvedimenti!».

L’istituzione non ama il movimento.

L’istituzione scolastica ghiaccia ogni forma di vita libera che fugge la solitudine per formare una comunità in lotta.

Quasi tutti i dirigenti sono servi del Ministero. Quasi tutti gli insegnanti sono pecore in cerca di piccoli vantaggi personali. Quasi tutti i genitori sono fantasmi coi loro sguardi vuoti.

Nelle scuole ci si dà del lei, si tengono le distanze, per motivi da niente ci si denuncia ai carabinieri. Come si fa a lottare così? Chi vive così non sa più che vuol dire la solidarietà e senza solidarietà tutto muore.

Simonetta Salacone è dalla parte della vita, è dalla nostra. Nella sua scuola le relazioni hanno una qualità che si trasfor¬ma velocemente in rete di resistenza. Appena entrato qui dentro ricordo di aver chiesto alla signora nell’atrio: «Scusi, ma come dobbiamo chiamarvi noi, bidelle o collaboratrici?». «Noi siamo collaboratrici scolastiche, ma io sono Fabiola, chiamami per nome». Lo stile inizia dai dettagli.

Una settimana dopo l’uscita del decreto nasce il coordina¬mento Nonrubatecilfuturo. È venerdì 5 settembre, siamo in cor¬tile, “ammazza che maestre queste maestre” penso tra me, men¬tre stiamo per terra a scrivere insieme lo striscione: CHI LOTTA PUO’ PERDERE CHI NON LOTTA HA GIA’ PERSO. Ci conosciamo poco, ma conoscersi poco aiuta all’inizio, fa pensare che tutto è possibile e i rancori passati non intralciano il passo.

Tre giorni dopo convochiamo un’assemblea cittadina: «Lu¬nedì 8 settembre tutti all’Iqbal Masih!». Si fa da noi, è normale, nelle scuole i dirigenti creano sempre un sacco di problemi coi permessi, le assicurazioni, la sorveglianza, “non si può!”, “non si può!”. All’Iqbal Masih, invece, la scuola è aperta la mattina, il pomeriggio e presto anche la notte. «Non sto facendo niente di speciale» dice Simonetta Salacone «applico la Costituzione. Le scuole sono punti di riferimento per il quartiere. Se non sono aperte come fanno ad esserlo? Mi sorprendo del contrario, che altri dirigenti non partecipino, non vengano alle lotte».

All’assemblea arrivano mamme e papà che a vederli da fuori li daresti per bolliti: stressati dai figli e la piscina, dal catechismo e il prezzo delle zucchine. Prendono parola e dicono: «Blocchia¬mo il decreto!».

«Io ci sono!».

«È troppo grossa!»

È un richiamo della foresta. Le maestre sono lupi nella notte e ululano, cercano una voce che le guidi, un’indicazione. Vo¬gliono lottare. E il sindacato che fa? Si sciopera? Non si sciopera? Tra poco ricomincia scuola e non si sa ancora niente.

Mara, maestra d’italiano alle elementari, sempre elegante, col cappellino e i guanti di pelle nera, rappresentante sindacale Cgil, interviene all’assemblea e carica col suo accento toscano: «Sembra d’esser tornati al Medioevo, quando si persero tutte le capacità. I partiti, i sindacati, la politica, non gli garba di metter su un’iniziativa: faremo da soli. Come corpo docente appog¬iamo tutte le iniziative che partono dalla scuola, coraggio, do-vranno passare sul nostro corpo».

Siamo qui a discutere in cento. Poi in duecento. Poi sempre più insegnanti e genitori vengono a informarsi, a chiedere, a sperare. Ma che succede? Che facciamo? Improvvisiamo. «Il primo giorno di scuola tutti con il lutto al braccio».

«Il primo giorno raccogliamo le firme».

«Io propongo un ricorso al Tar».

«Il primo giorno occupiamo scuola!».

«Sì, occupiamo!».

«Occupiamo!».

«Ma siete una manica di incompetenti, ve lo dico io che dobbiamo fare…».

C’è una grande confusione ma è una bella confusione, po¬tremmo litigare a ogni intervento, ma non lo facciamo. Abbiamo uno spazio in comune, la scuola, un bene in comune, i bambini, e restiamo uniti. Può iniziare un movimento libero e imprevedibile.

Dal capitolo: “Nel cuore dell’onda”.

Ormai è fatta. Mi alzo sul bordo del laghetto, vedo Lettere ricoperta di studenti, il microfono passa di mano, cerco i compa¬gni che ormai sono i soli che conosco qui dentro e li vedo lassù intorno all’amplificazione. Dopo lo sciopero del diciassette la lot¬ta ha accelerato, non si torna indietro. Il premier ieri sera ha det¬to: «Se verrà occupata l’università, interverrà la polizia». Errore.

PREMIER HAI SOFFIATO SUL FUOCO! è scritto su un cartello. Su un altro:SIGNOR LARUSSA IL VIGLIACCO E’ LEI, LA REPRESSIONE NON ARRESTA LA RABBIA DELLE NOSTRE IDEE.

Quale mano tanto educata può scrivere una frase tanto radicale?

Gli argini sono rotti.

Arrivo a Lettere, salgo i gradini schivando studenti e studentesse con in mano quaderni, prendono appunti: è una lezione speciale a cielo aperto. Eccoli lì i miei fratelli vicino alle casse, le mie sorelle vicino a quel cavo elettrico bianco che penzola dalla finestra, avranno portato tutto loro da stamattina, li raggiungo pieno di fiducia: «E ora che facciamo?» dico per salutarli.

«Ora vinciamo» mi risponde Raparelli.

«Sì, la Sapienza è nostra, Tor Vergata è nostra, Roma Tre pure. Milano, Torino, Padova, Bologna, Lecce, stanno per es¬serlo» Rasta carica i compagni intorno mentre chi stava parlan¬do ha finito, posa il microfono e tutti aspettano qualcosa.

Chi è il prossimo? Chi parla adesso? Io penso sempre alla mia idea di andare al Parlamento e rovesciare la maggioranza in strada, è l’obiettivo dal trenta agosto e adesso è il momento. «Sentite, domani inizia l’iter al Senato, manca una settimana al voto per la 137, andiamo tutti lì, andiamo domani a Palazzo Madama».

Raparelli non perde tempo: «D’accordissimo. Lanciamo l’assedio al Senato, prendi il microfono e dillo».

«Io?».

«Sì, sì, vai te».

Rasta tira il cavo del microfono e in un secondo mi ritrovo il mio strumento di lavoro tra le mani, un vecchio Shure 58. Non è un concerto, ma un po’ gli somiglia: devo parlare al cuore, es¬sere convincente, creare un’emozione e non farmene travolgere. Migliaia di studenti guardano all’insù, vogliono cose intelligen¬ti, utili, vere, e possibilmente poetiche.

«Dai, vai!» mi spingono

.

«Sono un genitore dell’Iqbal Masih e vi porto il saluto delle scuole elementari».

Dico questa frase senza quasi pensarci e dalla scalinata e giù, fino al laghetto, mi torna indietro un applauso profondo, caldo, sento migliaia di mani che battono e rimbombano tra le pareti delle Facoltà e non mi permettono di continuare. Mi vengono le lacrime agli occhi e rivedo le immagini dell’occupazione, il cortile, la buca, il corridoio che si riempie. Sono pensieri che scaccio immediatamente, devo stare concentrato: «Insieme pos¬siamo farcela, possiamo vincere, non abbiate paura, i bambini non l’hanno avuta nell’occupare scuola, hanno portato i sacchi a pelo, srotolato i tappetini e durante quelle notti pensavamo: “Speriamo che parte l’università, speriamo che parte l’università”, perché se parte l’università nessuno può fermarci. E adesso non fermiamoci. Questi che stanno al Governo non conoscono la scuola, non conoscono l’università, ma le stanno distruggendo con la vita delle persone che ci sono dentro. Lottate per voi e per i vostri fratelli minori. Domani inizia la discussione al Senato, andiamo insieme a fermarli, blocchiamo la seduta. Se non passa la 137, non passa la 133, la Ministra si dimette e cambiamo la Storia».

dal capitolo: “Il sogno di Metropoliz”

Dal primo piano scende uno striscione: LA CRISI VE LA CREIAMO NOI. Sulla porta è attaccato un manifesto scritto a pennarello: A GRANDE RICHIESTA! ABBIAMO APPENA OCCUPATO UNO SPAZIO ENORME IN VIA PRENESTINA 913, CONTATTATECI. BPM.

«E chi sono questi Bpm?».

Sblang! Il portone si apre. Dalle scale scende un uomo con un dente di squalo al collo: «Che state a fa’ qua?».

«Stavamo leggendo».

«Vi interessa Metropoliz?».

«Metropoliz?».

«Sì, Metropoliz, ce sto anna’ mo, c’avete n‘a machina? Seguiteme, io so’ er Francone, detto “dente di Squalo”».

Nemmeno aspetta la risposta, sale su una jeep grigia parcheggiata lì davanti e parte a duecento all’ora sorpassando contromano sulle strisce. Gianlu e gli altri montano al volo in macchina e lo inseguono attraverso Centocelle, vicoli e contro vicoli di Quarticciolo, prendono via Prenestina domandandosi: “Ma che cazzo fa? Ci vuole seminare?”. Rischiano di perderlo, di fare incidenti mortali, alla fine Dente parcheggia proprio al 913 di via Prenestina, davanti al cancello d’entrata, fresco e sciolto, scende e dice: «Mò ve faccio parla’ co’ Giacomo».

Gianlu gli va dietro, Maria segue Gianlu, Ion e Luisa seguono Maria sulla salita che porta dentro un mondo nascosto. Ecco Metropoliz: un edificio lunghissimo con una torre davanti e intorno un milione di persone che montano, smontano, passano coi ferri, i cavi, mamme, bambini, per terra qualcuno disegna linee ovali che si intrecciano, ma sì, è il disegno di Michelangelo sul pavimento del Campidoglio, il centro del mondo, il centro di un nuovo mondo. Su un muro c’è scritto: BLOCCHI PRECARI METROPOLITANI – BPM. Ecco che vuol dire. Bel nome, compatto, mette la carica.

Arriva Giacomo, vestito tutto di nero, piccoletto, diretto e schietto: «Ciao, che c’è? chi siete?».

Gianlu cerca di essere rapido: «Siamo un’associazione che si chiama Popica…» e racconta dei campi, della scuola, dell’idea di occupare case.

Mentre parla vede Giacomo che con la mano si mette a giocare col collo, se lo tira e lo lascia, lo guarda con l’occhio che non si capisce se ascolta o guarda altrove, dopo qualche minuto col suo ciccetto tra le dita, lo ferma e dice: «Se pò fa’, se pò fa’».

«Se pò fa’?».

«Dente, faje vede’ Metropoliz. Se vedemo in cima».

Giacomo chiude così e se ne va. Gianlu segue Dente verso la cima della torre, Maria segue Gianlu, Ion e Luisa seguono Maria lungo le scale buie, i gradini spaccati.

«Attenti a dove mettete i piedi!» urla Dente, arrivati in cima scavalcano il muretto di sicurezza e salgono sulla terrazza più alta.

Gianlu è felice, Ion terrorizzato, Maria si rolla una sigarettina, Luisa si mette a sedere sul cornicione. Il panorama è immenso. C’è tutta la zona industriale di via Prenestina e all’orizzonte il tramonto su Roma. Dopo un po’ arriva anche Giacomo portando un sacco di plastica nera: «Che dite, allora… bello no? Qui c’era Fiorucci, il salumificio, laggiù venivano tenuti i maiali, lì uccisi, in quelle vasche lavati e qua sotto insaccati. Quel capannone dall’altra parte del muro è AutoValentino, uno dei più grandi autosaloni di Roma, abbandonato da quindici anni. Abbiamo messo gli occhi anche su quello ma aspettiamo di vedere che succede, aspettiamo i prossimi giorni, se va bene nascerà un sogno, il sogno di Metropoliz. A proposito, conoscete Antonello Sotgia?».

Dietro di lui è salito un uomo distinto, con un cappotto verde, un paltò, calvo, due baffoni e sigaro in bocca. «Piacere» dice Antonello, e dà la mano a tutti.

Antonello Sotgia, architetto e compagno storico della contro-urbanistica romana, un linguaggio raffinato: «Ha ragione Giacomo a parlare di sogno, perché questo è un sogno e vi spiego come può diventare realtà: al piano terra, per dare aria, dopo tutto il sangue colato negli anni facciamo campi di calcio, palestre, sale riunioni aperte e luminose, dal primo piano in poi duecento appartamenti per la città meticcia, in lista ci sono già italiani, peruviani, marocchini, eritrei. Giacomo mi ha detto di questa idea dei rom e sarebbe bellissimo…

dal capitolo: “Miracolo a Roma”

Mentre a scuola i bambini scrivono i temi, alla “birreria” la battaglia continua. Sono le dieci. I rom si guardano intorno. Col Canalone è finita, questa volta non si torna indietro. Le casette sono tutte distrutte. La “birreria” è buona, ma è bruciata. Sui giornali la vicenda monta, tutti gli occhi sono puntati qui e la polizia arriverà presto. Lo sgombero di ieri è il primo grande sgombero del Piano Nomadi e sta andando male. Il Sindaco sperava di spazzarli via come formiche impazzite, invece se li ritrova ancora compatti e organizzati, ancora protetti.

All’Ex Heineken il cancello è chiuso. Stanno barricati. Passa mezz’ora. Poi un’altra mezz’ora. L’attacco classico dell’alba non c’è stato. I romani che hanno fatto il turno di notte sono andati via. Florìn pensa addirittura a un giro per secchioni, per oggi sembra scampata. L’appuntamento per tutti è all’ora di pranzo. Invece eccoli. Le vedette danno l’allarme: «Polizia!». Non è una macchina, è la guerra. Via dei Gordiani diventa deserta all’improvviso, non passa più una macchina e al cancello bussano tre agenti in borghese: «Polizia! Aprite!». Dietro di loro arrivano due autobus dell’Atac vuoti, si parcheggiano lì davanti e sembrano dire… “SIAMO VENUTI A PRENDERVI! VI STIAMO PORTANDO VIA!”.

Ion si attacca al telefono e l’allarme risuona per Roma: «Tutti all’ex Heineken!».

Partono macchine dal Quarticciolo, dal Tufello, da San Paolo, da Tor Pignattara e da Centocelle. L’appuntamento è all’incrocio tra via dei Gordiani e via Checco Durante, il grande poeta romanesco che scrisse: «Insomma pe’ sta’ in pace su la tera, nun c’è che un modo: s’ha da fa la guera…».

Andrebbero stampati qui quei versi, a futura memoria: «Poi c’è quarcuno che te vo spiegà, a forza de parole e de consiji, che la guera è ‘na gran necessità pè la felicità de li tu fiji».

Arriviamo in cinquanta all’incrocio Gordiani-Checco Durante, Gianlu prova con le buone: «Sono di Popica, fatemi passare».

«Oggi non passa nessuno!».

«Sono il traduttore».

«Non ci serve nessun traduttore».

La Digos è inflessibile. Quattro blindati bloccano la via. L’ordine è di farla finita, sradicare la comunità una volta per tutte, portarli tutti all’aeroporto e imbarcarli su un aereo per la Romania. Ion spiega la cosa per telefono e noi iniziamo a spingere sulla fila dei celerini. «Vorrei sapere cosa state facendo firmare!» urla Maria «lì dentro ci sono persone analfabete, non parlano l’italiano, cosa hanno capito?».

I rom sono cittadini comunitari e nessuno può costringerli a lasciare l’Italia, a meno che… «Firmate! o vi arrestiamo per occupazione abusiva e resistenza a pubblico ufficiale!». Devono firmare un documento di rinuncia alle sistemazioni alternative e di espatrio volontario.

Sono momenti difficili… stanchi, nervosi, con la paura che la polizia possa sottrargli i figli… qualcuno cede, altri seguono, Florìn, Ion, Sandica, mettono una croce sul foglio e salgono sugli autobus.

Il primo mezzo esce dalla Birreria e gira dalla parte nostra, va proprio verso via Checco Durante, verso di noi, i celerini si aprono per farlo passare e ce lo ritroviamo davanti. I nostri fratelli sono lassù che ci guardano. Lucone e RobRock si spalmano sul vetro davanti, tutti blocchiamo l’autobus e battiamo sui finestrini, l’autista apre le porte, i rom escono, la polizia carica. È il gran casino al Casilino.