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Haunted Alabama. ‘Did you wonder who fired the gun?’

Alla luce degli eventi di Charlottesville, il nuovo film di Travis Wilkerson appena presentato al Festival del cinema di Locarno scava nell’inconscio politico razzista degli Stati Uniti e mostra quanto è profonda e radicata la cultura suprematista bianca del Sud.

Secondo la vulgata liberal e democratica – in una parola, clintoniana – ormai divenuta mainstream, il movimento dei diritti civili negli Stati Uniti iniziò l’1 dicembre 1955 a Montgomery, Alabama quando una donna di colore di 42 anni di nome Rosa Parks decise di non rispettare la divisione “razziale” delle sedie allora in vigore sul sistema pubblico di trasporti locali. È lì che tutto iniziò e che portò il movimento fino alla marcia di Selma e quella su Washington, il Voting Rights Act e Martin Luther King. La Parks, stanca dopo una giornata di lavoro con i piedi che le facevano male, in un pullman traboccante di passeggeri di colore che tornavano a casa dal lavoro, decise di occupare uno dei posti vuoti in una delle prima quattro file che erano riservate unicamente ai passeggeri di “razza bianca”. Si trattò insomma di un gesto di rifiuto isolato, motivato unicamente dalla “resilienza” di una donna sola e coraggiosa, che funzionò da scintilla per uno dei più importanti movimenti di emancipazione del Novecento? L’idea cara ai liberal democratici americani è che il razzismo del Sud degli Stati Uniti fosse un fenomeno già allora anti-storico, fuori dal tempo, “oggettivamente” intollerabile e che in buona sostanza quello che accadde tra gli anni Cinquanta e Sessanta era semplicemente il compiersi di un percorso di democratizzazione della società americana iscritto nel suo DNA. L’idea di includere Martin Luther King nel pantheon dei grandi padri della nazione va proprio letta in questo senso: dopo la costituzione, la guerra civile, l’abolizione della schiavitù, il movimento dei diritti civili è parte di una sorta di progressivismo necessario secondo cui il progetto emancipativo americano divenne sempre più inclusivo fino ad accettare ogni forma di minoranza rendendo possibile un’uguaglianza formale che era già presente in nuce nella sua costituzione.

La cose furono in realtà molto diverse. Rosa Parks innanzitutto non era una donna sola e coraggiosa, ma era un’attivista di lunga data, esperta politicamente, che preparò l’azione di disobbedienza civile del 1955 già forte di un ampio consenso sociale e ben conscia di quelle che sarebbero state le conseguenze di un atto dal forte contenuto simbolico. La parola insomma che viene rimossa dalla narrazione liberal è proprio organizzazione: il fatto cioè che il movimento dei diritti civili fosse l’esito per nulla scontato di un lungo percorso di politicizzazione dal basso costruito attraverso una molteplicità di conflitti collettivi e locali. Rosa Parks era infatti un membro del NAACP, il National Association for the Advancement of Colored People: uno dei più importanti strumenti della politicizzazione black americana fondato a inizio secolo da W. E. B. Du Bois. Già nel 1944 in qualità di segretario locale dell’NAACP venne mandata a Abbeville, Alabama a investigare su un odioso crimine a sfondo razziale: lo stupro di gruppo di sei suprematisti bianchi ai danni della venticinquenne Recy Taylor. Il movimento di Montgomery, Alabama fu l’ultimo passo di un lungo processo di organizzazione che mise al centro l’autodifesa e che combatté l’impunità della violenza maschile bianca (soprattutto a danno di donne di colore).

Gli anni Quaranta nel Sud rurale degli Stati Uniti furono il teatro di una lunga serie di crimini a sfondo razziale molto simili a quello di Recy Taylor. Tra i tanti ve ne fu uno non molto noto che avvenne poco lontano da Abbeville, a Dothan nella contea di Houston, a pochi chilometri dal confine con la Florida, e che interessò un uomo di colore sulla quarantina di nome Bill Spence. Spence venne ucciso con diversi colpi di rivoltella all’interno di un negozio di alimentari dal titolare del negozio, tale S. E. Branch, a seguito di una non ben specificata “minaccia”: una tesi che tuttavia non venne mai corroborata da alcuna testimonianza, tant’è che l’omicida venne presto scagionato da ogni accusa e non subì alcuna condanna. Con Did You Wonder Who Fired the Gun? Travis Wilkerson prova a ricostruire le vicende di questo enigmatico omicidio adottando lo sguardo non tanto del giornalista d’inchiesta che vuole ricostruire i nessi causali della verità giudiziaria quanto quello interno e soggettivo di una verità che è partecipe proprio perché ne è implicata.

S. E. Branch è infatti il bisnonno di Travis Wilkerson. Quelle immagini delle lynch mob di bianchi razzisti che vanno a giustiziare, violentare e torturare i neri della zona che lui, da cinefilo di sinistra, vide in film come in To Kill a Mockingbird con Gregory Peck sono in realtà parte della sua storia famigliare. Ancora oggi sua zia Genie è una suprematista bianca del Sud che fa parte di uno di quei gruppi di razzisti nazionalisti che predicano la secessione del Sud dall’America multiculturale, decadente e liberal delle coste e del Midwest. Insomma, il passato razzista dell’Alabama rurale non è una vicenda del passato, ma è una sorta di spirito fantasmatico che aleggia ovunque Wilkerson vada in giro per luoghi che hanno nomi sconosciuti ai più come Attalla, Dothan, Louisville, Cottonwood: villaggi che a volte hanno giusto qualche centinaio di abitanti e dove al di fuori delle grandi rotte economiche o infrastrutturali la linea di colore si sovrappone a una delle espressioni più estreme del sottosviluppo e della povertà del Sud.

Wilkerson, da cineasta colto e politico, inizia il suo viaggio da un’altra America, che sembrerebbe lontana anni luce: quella delle manifestazioni di Black Lives Matter e degli omicidi di Trayvon Martin ed Eric Garner, ma scopre ben presto che il razzismo del 2017 è in realtà strettamente imparentato con quello dell’America pre-Voting Rights Act e che per andare a cercarlo, oggi come allora, non c’è bisogno di gettare lo sguardo ai margini malati della società ma bensì al suo cuore “sano”. Addirittura in questo caso nel privato dei propri filmini amatoriali di famiglia dove il suprematista bianco S. E. Branch tiene in braccio e gioca spensieratamente proprio con il piccolo Travis. In un film che fa un uso sapiente del ritocco dell’immagine (dipingendo il cielo dell’Alabama di un inquietante rosso sangue) e della color correction per aumentare il senso di inquietudine dei fantasmi dell’America razzista, Wilkerson compie una sorta di autoanalisi della corresponsabilità “oggettiva” dell’America bianca di cui lo stesso regista si trova inevitabilmente a fare parte. E allora: Did You Wonder Who Fired the Gun? ‘Ti sei mai chiesto chi è che ha premuto il grilletto che ha ucciso Bill Spence così come di quello che ha ucciso Trayvon Martin?’ ‘Ti sei mai chiesto chi è davvero il responsabile morale di quell’omicidio così simile a tanti altri avvenuti nell’Alabama degli anni Quaranta e che ancora oggi avvengono in maniera non tanto diversa a Ferguson, a Baltimora, a Staten Island o in tante altre città degli Stati Uniti?’

L’implicita tesi che emerge dal lavoro di Wilkerson – e che va a cozzare con il progressivismo democratico della narrazione liberal e clintoniana – è che la democrazia americana non sia accidentalmente razzista, ma lo sia in modo profondo e strutturale. La linea del colore è quel dispositivo che fa sì che in America le divisioni sociali ed economiche seguano quasi inevitabilmente la razzializzazione dei corpi. Andare ad analizzare il rimosso razzista della cultura bianca sudista vuol dire immergersi nella costituzione materiale del paese che fa sì che la storia di un uomo di colore innocente ammazzato di punto in bianco poco più di 70 anni fa, non risulti nemmeno nei registri comunali e sia stato seppellito in una fossa comune dietro a una chiesa di provincia senza che quasi nessuno ne sappia nulla. Il problema allora non è solo quella di andare a smantellare e a combattere politicamente le caricaturali e volgari organizzazioni razziste del Sud ma di comprendere quali sono i dispositivi di “razzializzazione” che ancora oggi caratterizzano i rapporti sociali in America.

Wilkerson mentre scava nella propria storia familiare e locale inizia a toccare con mano una sorta di orrorifica continuità tra l’Alabama di S. E. Branch e quella di oggi, dove il regista non appena inizia a smuovere qualche verità sepolta inizia anche a incontrare un’inquietante omertà e pure qualche velata minaccia. Inizia insomma a vedere la dimensione strutturale dei dispositivi di “razzializzazione” dell’America di oggi così come di quella di allora. Il film prova a metterli in forma d’immagine avventurandosi efficacemente nel registro dell’horror e del thriller: le case di Dothan e di Louisville sono sempre vuote, abbandonate, come se fossimo in un territorio dove gli umani non vivono più. Il bianco e nero iper-contrastato, le inquadrature fisse e frontali, la voce fuori campo impaurita e quasi sussurrata danno la sensazione di una minaccia incombente, come se il Ku Klux Klan dominasse ancora questi territori. Perché il razzismo nell’America di oggi continua a esistere in una forma immateriale e fantasmatica anche dopo 8 anni di amministrazione di Obama e nonostante una retorica liberal multiculturale sempre più scopertamente ipocrita. E l’unico modo per combatterla – come riconosce anche Wilkerson in un punto del film – è proprio quella di assumerne fino in fondo il dato politico e nient’affatto culturale. Esattamente come fecero Rosa Parks e l’NAACP.

* una diversa versione di questo articolo è stata pubblicata da Uzak.it