EUROPA

Germania: farmaci e sussidio

La medicalizzazione del disagio sociale nella “locomotiva d’Europa”.

I poveri con la pelle bianca innervosiscono tantissimo le persone con la pelle bianca. Perché dei poveri con la pelle bianca non si può nemmeno dire che abbiano la sfortuna di venire da un posto lontano. Nasce probabilmente da qui il tentativo incessante di trovare una qualche definizione con cui distanziare il proletariato bianco: fannulloni, pigri, ignoranti, disagiati, truffatori, buffi, grotteschi, magari razzisti e pure un po’ nazisti.

In Germania c’è l’hartzer, che non è semplicemente una persona che sta prendendo per un certo periodo il sussidio di base noto come Hartz IV. L’hartzer è chi di sussidio vive da tempo, da anni, senza essere sostanzialmente più in grado di uscire dalla propria condizione o ritornando sempre a questa, in un circolo vizioso. L’hartzer assume il ruolo fisiologico, quasi sistemico, di abitare precariamente la dipendenza completa dal welfare, perdendo così il proprio diritto all’autodeterminazione. Si tratta della condizione di chi è costretto a passare da una formazione professionale all’altra, chi lavora ma non guadagna mai abbastanza, chi il sussidio lo ha ereditato dai propri genitori, chi continua a riempire fogli e moduli senza sosta. Magari è vero, come direbbe il tedesco medio, che tante di queste persone siano faul, pigre. Misterioso, però, è il motivo per cui le epidemie di pigrizia siano sempre diffuse in certi quartieri di periferia, in certe aree del paese a bassa scolarizzazione, nei caseggiati di cemento o nella provincia profonda della Germania.

Il welfare tedesco è solito funzionare in maniera ottimale per chi allo stato sociale può affidarsi temporaneamente, in una fase dinamica di transizione, usufruendo di sostegni non legati alla sola discriminante della povertà o iniziando una reale evoluzione professionale. Ma un sistema di stato sociale è, inevitabilmente, una geometria complessa e da questa complessità derivano conseguenze eterogenee. Una di queste è che all’interno del welfare tedesco ci siano anche cittadini aggrappati a una mera sopravvivenza burocratizzata, cittadini che introiettano presto il senso di colpa della loro condizione e che esprimono la loro insofferenza solo in situazioni particolari.

La verità è che per molti versi quella dell’hartzer di lungo periodo non è solo una categoria economica, ma anche simbolica, culturale, psicologica. Non basta sapere che in altri paesi del mondo un sussidio se lo sognano: la povertà e il valore esistenziale sono concetti che si definiscono anche in relazione all’ambiente in cui si vive. Vale a dire che, anche se non si muore direttamente di fame, non è facile essere poveri in una nazione che il mondo intero giudica ricca. E mentre per le comunità immigrate (comunitarie e non) il sussidio riesce talvolta a essere visto come un incidente (o un’opportunità) legata allo sradicamento territoriale, per gli autoctoni, per il proletariato bianco tedesco, il sussidio può diventare un paralizzante sigillo di fallimento. Per capirlo, ad esempio, è utile volgere lo sguardo verso il fenomeno della medicalizzazione del disagio sociale. Si tratta di un aspetto certamente minoritario, tendenzialmente muto, irrimediabilmente strozzato, ma non per questo meno significativo, presente, viscerale.

Dinamo Volley

Febbraio 2017. Parlo con Ralf (il nome vero è un altro) in un parchetto che sta sul confine tra Marzahn Nord e il Brandeburgo, dietro al capolinea del tram. Ralf mi spiega subito di sentirsi un “Wendekind”, un termine con cui si identifica la generazione della DDR che era bambina o adolescente quando ci fu la “Wende”, la “svolta”, vale a dire la fragorosa caduta del Muro di Berlino. Soprattutto chi era nella tarda adolescenza ha vissuto qualcosa di irripetibile, vedendo improvvisamente crollare quel mondo in riferimento al quale si era appena formata la propria prima identità.

Io giocavo a pallavolo” racconta Ralf. “Eravamo bravi, molto bravi, almeno secondo me. La mia squadra puntava al campionato giovanile nazionale della DDR. Io giocavo e il mio sogno, quello che volevo fare, la sola cosa che volevo fare, era diventare professionista. Sai nella DDR gli sportivi erano quelli che potevano viaggiare di più, vedere il mondo, magari andare alle olimpiadi.” Quando Ralf ha 17 anni, però, cade il muro. Di lì a poco, alcuni degli sportivi già affermati dell’ex DDR trovano spazio nella nuova Germania, ma tante serie sportive minori o giovanili entrano momentaneamente nel caos.

Nessuno mi ha più detto cosa dovevo fare. Capisci? Nessuno” racconta Ralf. “Io non lo sapevo cosa fare. Non ne avevo idea. Ho smesso di giocare a pallavolo e poi ho iniziato ad accettare i lavoretti che mi trovava il Jobcenter, che poi non era ancora il Jobcenter, si chiamava ancora Arbeitsamt… All’inizio non capivo più niente, c’era questo Ovest che sembrava dorato, tutto era così nuovo, ad esempio i videogiochi, c’erano delle cose mai viste… Noi davvero non sapevamo dove guardare, dove girarci con la testa. Ma a un certo punto non stavo mica bene. Stavo sempre peggio, non so perché. Una volta stavo così male che sono andato dal dottore. Quello mi ha visitato e mi ha detto che avevo la depressione. Io gli ho chiesto ‘Che roba è? Mi passa in una settimana?’ Non è passata, anzi, sono iniziati anche questi attacchi di ansia, sempre più forti… sai l’ansia, no? Così sono finito a bere sempre di più. A 22 anni ero fuori, completamente fuori dalla vita. Tu ora mi vedi così, ma io prima pesavo 135 kg, non riuscivo nemmeno a salire le scale. Non ho mai fatto cose tipo stare su un lettino: il dottore mi dava un sacco di pillole e io me le ficcavo in bocca.”

Chiedo a Ralf come faccia ora a essere così in forma. “La pallavolo, sì, la pallavolo. Dopo anni in cui non ho combinato nulla, dopo più di dieci anni in cui ero proprio fuori da tutto, dopo tutto quel tempo, il Jobcenter mi ha fatto entrare in un programma di lavoro per persone con dipendenze, diciamo. Per me ha funzionato molto bene, anche perché ho ricevuto sempre abbastanza soldi per sopravvivere e ora avevo anche la possibilità di darmi da fare. Così poi ho trovato lavoro in un archivio e, intanto, ho iniziato di nuovo a giocare. Credimi, la prima volta che ho giocato di nuovo pensavo di morire, là, attaccato alla rete! Però poi ce l’ho fatta. Ora gioco di nuovo da 7 anni, con gli amici e in piccole squadre, gioco ogni volta che posso.”

Mentre Ralf mi parla è curvo verso di me, carico, convinto, agitato. “Uno pensa che a un certo punto nella vita non puoi ritirarti su, che è passato troppo tempo, io avevo passato già i 35. E invece no, non è mai tardi, puoi sempre ritirarti su, sempre. Ora sto facendo di nuovo un minijob da 450 € al mese, non mi basta, e quindi i soldi me li aggiunge di nuovo il Jobcenter… ma la strada è quella giusta, lo so, bisogna darsi da fare.”

Che la sofferenza individuale sia anche una sofferenza sociale, e viceversa, è un dato noto. Per gli strati più deboli della società esiste però una sovrapposizione dei due piani molto più intensa e intricata.

Nel 2005 è stata pubblicata un’ampia ricerca sulla povertà in Germania, “Gesellschaft mit begrenzter Haftung”. Tra le molte interviste presenti nello studio c’è quella svolta dalla sociologa Margareta Steinrücke, che ha dialogato con una psichiatra berlinese attiva nella periferia orientale della città. La donna racconta di una quotidianità in cui il lavoro di assistenza sociale si sovrappone senza sosta a quello di sostegno psicologico, con ritmi che molto spesso non lasciano altra opzione al di fuori di una massiccia medicalizzazione (in questo caso non integrativa, ma sostanzialmente sostitutiva degli approfondimenti terapeutici). “A volte mi sento una spacciatrice”, racconta la dottoressa, che spiega di curare persone erose dal troppo lavoro e, contemporaneamente, di “dare medicine a persone che se avessero un lavoro stabile sarebbero sane”.

Si tratta di uno scenario in cui c’è anche un paradosso: da un lato la povertà viene curata con la medicalizzazione della persona e, dall’altro, capita che ai più poveri non venga comunque riconosciuto un diritto alla sofferenza emotiva come fattore realmente individuale, intimo, personale. La sofferenza sociale viene trattata come sofferenza psicologica, ma alla sofferenza psichica individuale si risponde, poi, nuovamente, con l’assistenza sociale.

C’è da vomitare”

Marzo 2017. Il Jobcenter del quartiere Marzahn-Hellersdorf si trova in un palazzone squadrato in Allee der Kosmonauten, la via che l’ex DDR dedicò agli “eroi del socialismo” che andarono nello spazio. Là, a seconda della giornata, la fila è lunga, molto lunga o lunghissima.

Decido di andare a vedere. Arrivo e mi metto ad aspettare con gli altri. Le persone attendono in silenzio, ognuna di loro ha una cartellina in mano. Dentro alle cartelline ci sono i documenti da presentare agli esigenti impiegati dell’Agenzia del Lavoro. Il sussidio di base in Germania si basa su una trasparenza assoluta, quasi fondamentalista. Va dichiarato ogni centesimo del proprio status finanziario e, soprattutto, bisogna ubbidire al principio di “sostegno a patto di impegno”. In tutte quelle cartelline, quindi, ognuna delle persone attorno a me ha documenti che dimostrano i propri sforzi per uscire dalla disoccupazione, mandando ogni mese un numero preciso di candidature in cerca di lavoro o partecipando alle formazioni professionali assegnate dal Jobcenter.

Il signore dietro di me deve avere già superato i 50 anni. Indossa dei mocassini di gomma, di quelli che trovi scontati nei magazzini Deichmann, dei pantaloni sformati e la giacchetta di una tuta sopra una camicia bianca chiusa fino all’ultimo bottone. Appoggiata un po’ sulla pancia, tenendola con entrambe le mani, l’uomo ha una cartellina raffigurante Spiderman che salta da un grattacielo a un altro. Quando sono quasi arrivato al bancone dell’accettazione, lascio il posto proprio a lui, che mi ringrazia con un sorriso e un movimento del capo antiquato ed elegante. Prima di uscire completamente dalla fila, noto una donna giovane, molto magra, con i capelli tinti di biondo platino e dei leggings multicolore. La ragazza sta discutendo con l’impiegato di uno dei banchi della preselezione. Non riesco a capire cosa dicano: lui, soprattutto, parla piano, scuotendo leggermente la testa. Dopo qualche secondo la donna se ne va con il viso rosso dalla rabbia, esclamando “Es ist zum kotzen, es ist zum kotzen!”, che significa che “c’è da vomitare”, anche se vomitare non è la parola più adatta, kotzen è più volgare.

Qualche istante dopo, ritrovo la ragazza fuori dall’edificio, mentre armeggia con il suo telefono. Mi avvicino e le chiedo cosa sia successo. “Questa è la volta buona che spacco tutto, non resta più niente là dentro. Spacco tutto, c’è da vomitare, cazzo! Hai una sigaretta?” Le rispondo di no, non ho una sigaretta, se vuole ho un chewing-gum. “Un chewing-gum? E che mi fumo, la gomma?”

Continuiamo a parlare. Lei lo fa con un accento berlinese stretto e tagliente. Il problema della ragazza è che non si è presentata a una convocazione del Jobcenter. Non è la prima volta e, ora, le verranno tolti dei soldi dal sussidio: si tratta di una sanzione. Oggi la giovane voleva salire dall’impiegata che si occupa di lei, per spiegare le proprie ragioni, ma non le è stato permesso. “Va a finire che mi danno i buoni per fare la spesa. Una volta me li avevano già dati, qualche anno fa. Sai quanto ti vergogni quando stai alla Lidl e devi pagare con i buoni pasto? Sai che vuol dire la gente dietro di te che ti guarda? E la cassiera di merda che domanda urlando alla collega che cos’è quel foglio? Guarda, preferisco morire di fame”.

I buoni sono dei voucher del Jobcenter per comprare il cibo, vengono utilizzati in modo che sia garantita la sussistenza, ma resti la sanzione in denaro. Riceverli è una misura particolare ma, a quanto pare, dopo una prima volta, è più facile incorrere in essa una seconda, una terza e altre volte.

Dopo che le ho detto che sto scrivendo un articolo, la ragazza mi dice che la lettera di convocazione lei non l’ha proprio vista: “Non è che sono pigra o che non ho niente da fare o che passo le giornate a bere, non sono come certa gente asociale o altra merda. Io dovevo stare da mia madre, a Hellersdorf, sai dov’è Hellersdorf, no? Sta male, mia madre, si è messa un sacchetto in testa, diceva che voleva morire, io dovevo stare là, togliere tutti i sacchetti da casa, fare la spesa con quei sacchetti di tela… Mia madre prende le medicine. Le prende da sempre. Comunque ora è finita che le prendo anche io, le medicine, ho fatto bingo!”

La giovane donna parla e si muove in modo sveglio, con l’intelligenza aspra e ironica della Berliner Schnauze. “Da qualche mese vado ogni tanto al centro dell’ospedale a parlare con quella che mi dà la ricetta delle medicine, anche se io posso lavorare, cioè questo lo ha detto l’assicurazione sanitaria, che posso lavorare, ed è ovvio, lo so anch’io, mica sono scema. Quella, la psicologa, mi chiede come va con il lavoro, mi chiede se ho trovato lavoro o se ho iniziato qualcosa. Poi vengo al Jobcenter e qua, invece, quest’altra mi chiede come va nella vita, cioè vuole sapere come mi sento. Mi sa che queste due possono pure telefonarsi tra di loro e lasciarmi in pace, no?”

La ragazza non vuole nemmeno dirmi il suo nome. “No no, lascia stare, ci manca solo che venga a saperlo quella stronza là sopra”. La “stronza là sopra” sarebbe la funzionaria del Jobcenter e, sicuramente, l’impiegata avrebbe da raccontare un’altra versione dei fatti. Ad ogni modo, rispondo che è praticamente impossibile che qualcuno venga a sapere di lei, anche perché scrivo per un giornale italiano che non è molto letto dagli impiegati della Bundesagentur für Arbeit. Ma lei non si fida, mi risponde solo che le ha fatto piacere parlare un po’ e che ora vuole togliersi da quel “posto del cazzo”.

Prima di andarsene, mi lancia ancora un’occhiata mezza divertita e dice: “Ma poi tu sei sicuro che sei un giornalista? A me sembra proprio una stronzata. Dove ce l’hai la telecamera?”.

* Reportage pubblicato su yanezmagazine

La foto di copertina è CC BY-ND 2.0 Gentleman of Decay