MONDO

Gaza, la tregua che mantiene lo status quo

 

La tregua tra Hamas e Israele alla fine, com’era prevedibile, è arrivata dopo aver fatto sudare sette camice ai mediatori egiziani. Una tregua che, al pari degli altri cessate il fuoco “permanenti”, annuncia nuovi conflitti. I droni e i jet israeliani hanno smesso di lanciare bombe e la popolazione festeggia, Hamas gonfia il petto presentando l’accordo come una vittoria mentre Bibi Netanyahu deve tenere a bada gli uomori di un pezzo consistente di società isrealiana e della destra di governo che avrebbero più morti e distruzione.

Ora che le bombe hanno smesso di cadere e le pallottole di fischiare è opportuno provare a capire le ragioni e le conseguenze dell’ultimo conflitto scatenatosi sulla Striscia di Gaza.

– Alla luce dei risultati della campagna militare isrealiana è sempre più evidente come l’obiettivo principale di Israele sia mantenere lo status quo. Per farlo ciclicamente è necessario indebolire le capacità militari dell’avversario e le sue infrastrutture, mobilitare il paese contro il nemico (questa volta presentato con il volto efferato degli assassini di tre giovanissimi coloni), evitare la riunificazione della leadership palestinese. Quella contro Gaza, per quanto la conta dei morti sia tragiaca, non è una guerra di annientamento ma uno strumento di governo e gestione di un territorio, della sua popolazione “ostile” e delle risorse.

– La guerra guerreggiata rafforza le ragioni di chi vuole continuare con gli insediamenti illegali, i muri e l’apartheid, spostando in un domani indefinito la possibile soluzione del conflitto: se non è possibile immaginare così la nascita di uno Stato palestinese, per quanto a sovranità limitata, che avrebbe per le forze politiche isrealiane le caratteristiche di uno “stato canaglia”, figuriamoci un’unica nazione arabo-isrealiana!

– Il conflitto ha messo in luce come dentro Israele ci sia sempre meno spazio per l’opposizione alle politiche di apartheid: le immagini delle manifestazioni di contestazione ai raid su Gaza aggredite da squadracce di destra parlano chiaro. Lo stesso meccanismo è in atto in diverse comunità ebraiche nel mondo, dove l’identificazione con le politiche isrealiane “senza se e senza ma” annichilisce il dibattito e le posizioni dissonanti. Un circolo vizioso che si alimenta ad ogni nuovo conflitto ripropone lo schema binario amico/nemico senza possibili sfumature: se sei isrealiano, o di religione ebraica, devi stare con Israele, pena l’accusa di tradimento. In questo contesto appare sempre più urgente consolidare la solidarietà internazionale con le voci dell’opposizione isrealiana.

– Le manifestazioni e i riot in Cisgiordania hanno mostrato come sia possibile lo scoppio di una terza intifada, della disponibilità ad una rinnovata mobilitazione di ampi strati, in particolar modo giovanili, della società palestinese, anche al di là delle leadership dei partiti politici, laici o islamisti che siano, ampiamente screditati

– Al centro torna la questione della democrazia come possibile grimaldello per rimescolare le carte. Israele appare sempre di più una etnodemocrazia, il cui primo obiettivo è mantenere la maggioranza isrealiana ed ebraica dei cittadini con pieni diritti. Per farlo usa tutti gli strumenti a sua disposizione: le leggi di accesso alla cittadinanza, l’occupazione militare, l’arbitrarietà dell’accesso alle risorse e della libertà di movimento della popolazione araba dentro e fuori Israele. Il regime di apartheid deve cessare, per farlo è indispensabile una rinnovata mobilitazione internazionale che inventi nuove pratiche di azione diretta e di solidarietà.