PRECARIETÀ

Finale di Champions League: non è tutto oro quel che luccica

Terza puntata di ST.O.P. (Storie di ordinaria precarietà). “Non ce la faccio più a non bere, vado in cucina e chiedo un bicchier d’acqua; torno al mio posto. Ma ormai il mio corpo ne ha risentito abbastanza e mentre mi ripeto “resisti gli ultimi minuti”, mi sento sudare freddo e crollo per terra”.”

Ah ma hai lavorato a San Siro per la finale UEFA? Che figata!” NO! FIGATAUNCAZZO. “Beata te!” NO! Non eravamo beate nessuna di noi 200 hostess. Che da mezzogiorno ci siamo ritrovate là, sotto il sole a fare appello dopo appello, fila dopo fila, a timbrare il pass una alla volta per ogni spostamento. Poi quelle mezz’ore di attesa che si fanno infinite, aspettare che il personale UEFA ti venga a prendere per mostrarti l’area di lavoro, sentirti spronata a ingozzare qualunque snack ti sei portato dietro, perché, “ricordati che rimangerai solo alle 21!”.

Facciamo il briefing, il tutto sotto la mite temperatura del sole che batte a Milano un 28 Maggio alle 14.00. Un ambaradam clamoroso per indicarci dove sono i bagni, dove i ‘clienti’ avrebbero potuto caricare l’iphone e assicurarsi che avessimo memorizzato la password del wifi qualora ci fosse stato chiesto.

Nel frattempo, al contrario di quanto avevo temuto, ho conosciuto delle ragazze davvero in gamba, con cui sono entrata in sintonia nel giro di poco. Alle 16 ci riportano nel camerino e inizia di nuovo il delirio di file, prima per passare il cartellino, poi fila per firmare che hai ritirato l’abito, poi fila per prender la tua taglia… e mentre sei lì che ti cambi nel giro di 5 minuti ti ricordi di quelle 20 email che ti hanno mandato la settimana prima per ricordarti di quanto devi essere impeccabile davanti al ‘cliente’. Allora raccimoli un po’ di trucco e un po’ cerchi, non so come, di farti passare quell’aria sudaticcia sfinita. E stai attenta al vestito, che per quanto sintetico e brutto a te possa sembrare, se gli succedesse qualcosa ti toccherebbe pagare una bella penale di 100 euro.

Andate in bagno adesso, la prossima occasione è all’ora di cena!” Altra fila. “Ma acqua ce ne daranno?” Certo, ci mancherebbe; ci distribuiscono bottiglie d’acqua e ci invitano a portarcele con noi presso le nostre postazioni. Peccato che le bottiglie erano di vetro e siamo state obbligate a lasciarle fuori dall’area dello stadio. E allora, ciao acqua!

Alle ore 17 siamo pronte a prendere posto e a ricevere ulteriori indicazioni di come essere di massimo gradimento per gli-ospiti-importanti. Così cerchi di fare un esercizio zen e dimenticarti di esser sui tacchi, trovi il sorriso gentile che è in te e dalle 17.45 inizi a dare il benvenuto. “Hello”, “Hi”, “”Welcome”… qualcuno ti fotografa, qualcuno vuole farsi la foto con te, altri non ti cagano minimamente e continuano a fissare lo schermo del proprio cellulare. Vedi passare gente-importante-coi-soldi e fa uno strano effetto. Stai lì e sorridi. Dopo la quarta birra qualcuno quando passa ti fa l’occhiolino o ti guarda il nome stampato sul pass e se la ride… Tu sorridi. Dopo un’ora facciamo cambio postazione e mi metto appena fuori dall’entrata, sotto il sole che per quanto siano le 18, ci tiene a farsi sentire. Anche la sete si fa sentire, ma non si può bere davanti al ‘cliente’. Mi ripeto “resisti, ormai manca poco alla pausa”. Continuo a sorridere e a dare il benvenuto.

Passano i principi-di-qualche-posto, seguiti da due tecnici muniti di una cinepresa più grossa di loro e fotocamere varie. L’evento non prevede nessuna area per fumatori, ci è stato ribadito più volte durante le istruzioni, ma quando la-gente-importante se la accende con nonchalance, nessuno gli dice niente. Loro possono. La sete mi sta asciugando, a malapena riesco a ripetere “Hi”; nel frattempo vedo succhi che girano sui vassoi, cocktail d’ogni tipo, vorrei tanto prender dalla mano del bambino che passa quel bicchiere di cocacola col limone…

Ci riscambiamo posto e finalmente sono di nuovo all’ombra. Non ce la faccio più a non bere, vado in cucina e chiedo un bicchier d’acqua; torno al mio posto. Ma ormai il mio corpo ne ha risentito abbastanza e mentre mi ripeto “resisti gli ultimi minuti”, mi sento sudare freddo, mi aggrappo al braccio della responsabile che passava in quel momento e crollo per terra. Mi portano acqua per farmi ripigliare, mentre mi spostano dietro una parete col logo Champions League Final 2016, di modo da non creare troppo scalpore. Sono le 20 e per fortuna la-gente-importante sta svuotando lo stand e si sta avviando dentro lo Stadio.

Ecco, la pausa ha inizio. “Dai, ora nella pausa ti riprendi, bevi un po’, mangi e vedrai che stai meglio”. Non avete capito: mi viene da vomitare all’idea di cibo; come pensate che regga altre due ore così? Alla fine devo dire che sono stati gentili, mi hanno lasciato andare a casa, anche senza saper bene come sarei tornata dato che neanche loro erano al corrente della situazione metro/taxi; ovvero tutto sottosopra.

Ecco cosa c’era dietro quei sorrisi e quella gentilezza che vi accoglieva. Non ce l’ho in particolare con gli organizzatori di ieri, che come noi seguivano ordini di altrettanti ordini ed erano lì sfiniti come noi, a farsi il culo sicuramente da prima di mezzogiorno. Ce l’ho con questa mentalità degli eventi perbene e impeccabili, per cui pur di renderlo al top per la-gente-importante si prosciugano le energie di chi ci lavora. Ce l’ho con questa mentalità del cazzo per cui agli eventi di uomini-d’affari ci devono essere belle ragazze soprammobile. Sì, perché in quel momento hai la sensazione di essere un soprammobile, che se non beve e non sente la necessità di andare in bagno è meglio. Ce l’ho con la finale di Champions League, perché scoprire cosa c’è dietro tale partita mi ha lasciato un retrogusto amaro del calcio.

E allora continuerò a guardarmi le partite dal baretto dietro casa, che forse è meglio.

 

Questo raccontro è il terzo di una rubrica sulla precarietà lavorativa dei giovani aperta dal sito delle Camere del lavoro autonomo e precario (CLAP). Se anche tu vuoi raccontare una storia, scrivi a: info@clap-info.net. I racconti possono essere pubblicati anche in forma anonima o con uno pseudonimo. Ogni storia merita di essere raccontata! Narrare il lavoro, e sopratutto le lotte sul lavoro, vuol dire aumentare le possibilità di riconoscersi, di fare male a chi sta usando la crisi come strumento per arricchirsi alle spalle dei molti che invece continuano a pagarla.

 

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