ROMA

Colosseo Quadrato: bene pubblico o pubblicitario?

Quando “valorizzare” il patrimonio culturale della città equivale a sottrarlo ai suoi cittadini.

Dal Colosseo rotondo a quello quadrato, alle fontane monumentali: sulle immagini dei simboli di Roma sta calando l’esclusiva dei privati.

È stata derubricata come una questione di omofobia la lettera con cui i legali di Fendi chiedevano al Coordinamento del Roma Pride di cessare immediatamente l’utilizzo dell’immagine del Palazzo della Civiltà Italiana.

Oggetto del contendere la campagna di comunicazione “Chi non si accontenta lotta” lanciata per promuovere il Pride di sabato 11 giugno in cui una serie di persone diverse erano ritratte ai piedi dello storico edificio razionalista. Una pessima figura per un’azienda che pure ha sempre intrattenuto un discreto rapporto con la comunità LGBTQI.

Un po’ come quando il presidente del gruppo Barilla dichiarò che non avrebbero usato gay nei loro spot pubblicitari oppure come quando la Melegatti manifestò il proprio fondamentalismo etero con un pessimo annuncio su Facebook: “Ama il prossimo come te stesso… basta che sia figo e dell’altro sesso!”.

Tante proteste sui social, inviti al boicottaggio e rapide scuse da parte delle aziende coinvolte.

Eppure questa volta c’è qualcosa di più grave, anche se non ha direttamente a che vedere con l’omofobia. Non si tratta solo di interrogarsi sulla ragione per cui analoga lettera non risulta sia stata mai inviata ai diversi gruppuscoli neo-fascisti che in decine di occasioni hanno utilizzato l’immagine del Colosseo Quadrato su locandine e manifesti. Questa volta è in gioco qualcosa di diverso.

Scrive Fendi nella lettera al Roma Pride: “Con l’ideazione del progetto di ristrutturazione del Palazzo ed il successivo trasferimento della sede legale della nostra società, l’immagine di Fendi e del Palazzo si sono legate in maniera indissolubile. In aggiunta, si precisa che Fendi è divenuta altresì licenziataria esclusiva dell’immagine del Palazzo”.

I fatti risalgono all’estate del 2013 quando nel tentativo di mettere in sesto le casse dissestate di Eur Spa, il Palazzo della Civiltà Italiana viene affittato tra le polemiche per 2.800.00 euro l’anno alla holding del lusso LVMH (con sede a Parigi) che detiene i marchi Louis Vuitton, Bulgari, Dior, Fendi e tanti altri.

Sulla stampa di parla di svendita, di ristrutturazioni, di rispetto dei vincoli per uno spazio espositivo, della collocazione dei diversi uffici. Nessun riferimento a una improbabile e incredibile “licenza in esclusiva” a un privato sull’uso dell’immagine di un edificio che sottoposto al vincolo dei Beni Culturali, dovrebbe essere utilizzato esclusivamente per tali finalità. Peraltro la realizzazione del Palazzo si conclude oltre i 70 anni con cui la legge sul diritto d’autore disciplina anche le opere architettoniche ma questo è un dettaglio. In generale l’interpretazione giuridica del diritto d’immagine dei Beni Culturali è sempre stata decisamente orientata alla libera fruizione e utilizzo, ponendo semmai la possibilità di vincolo alla sola amministrazione pubblica laddove l’utilizzo sia lesivo dell’immagine della cosa rappresentata. Così è avvenuto ad esempio quando il Comune di San Quirico si oppose all’utilizzo delle immagini delle sue colline per una campagna pubblicitaria di McDonald. O quando un’azienda statunitense usò il David di Michelangelo per vendere i suoi fucili.

Il meccanismo delle sponsorship sta invece occultamente ribaltato questo approccio. Se l’accordo per la conservazione del sito archeologico di Ercolano, sponsorizzato dalla Packard Humanities Institute, una fondazione senza fini di lucro (sebbene legata alla multinazionale dell’informatica Hewlett-Packard), contemplava come uniche forme di ritorno d’immagine per lo sponsor la pubblicizzazione del contributo dato dalla Fondazione – ma mai dall’azienda – su riviste scientifiche specializzate e su targhe esposte sul luogo di modeste dimensioni, con l’accordo firmato nel 2011 dal Ministero dei Beni Culturali e la Soprintendenza all’archeologia del comune di Roma con il gruppo Tod’s di Diego Della Valle per il restauro del Colosseo le cose cambiano radicalmente.

Quell’accordo, infatti, garantisce all’imprenditore il diritto in esclusiva allo sfruttamento in Italia e all’estero di un logo e dei segni distintivi del Colosseo per la durata di 17 anni, anche per “pubblicizzare prodotti e marchi dello sponsor”. Il tutto per 25 milioni di euro: meno di un milione e mezzo l’anno per avere l’esclusiva globale sull’immagine dell’Anfiteatro Flavio.

Se vi pare una cifra congrua è perché forse non conoscete quali sono le cifre che circolano nel mondo della pubblicità. Qualche esempio. L’immagine di Beyonce è costata a Pepsi 50 milioni di dollari per soli tre anni. Nicole Kidman costò a Chanel 12 milioni per un anno. Nespresso ha pagato George Clooney 40 milioni di dollari per sette anni, senza esclusiva e solo fuori dagli Usa. Non sappiamo quanto spese Della Valle per avere Gwyneth Paltrow nel 2008, ma gli ordini di grandezza sono questi. Ben altre cifre rispetto ai 2 milioni e 800 mila euro l’anno, comprensivi di affitto di 12.000 metri quadrati, che pagherà Fendi. O qualcuno pensa che l’immagine di un’attrice americana possa valere più di quella del Colosseo?

Non sappiamo quali siano i contenuti specifici dell’accordo tra Eur Spa e Fendi, come non sono noti gli estremi del recente restauro che sempre Fendi ha realizzato sulla Fontana di Trevi e degli annunciati interventi di altre quattro fontane monumentali di Roma ma se esiste lo spazio di manovra per valorizzare economicamente il patrimonio pubblico questo dovrebbe essere perseguito senza cedere mai in esclusiva a nessuno la possibilità di sfruttarne l’immagine.

Invece, quell’incredibile diritto in esclusiva viene riaffermato nel comunicato congiunto di chiarimento firmato da Fendi e dal Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, capofila del Coordinamento Roma Pride e organizzatore della parata: “FENDI ha chiarito l’equivoco con Roma Pride autorizzando l’utilizzo di Palazzo della Civiltà Italiana nella campagna”.

Fendi autorizza l’utilizzo? Ci si aspetterebbe che piovessero interpellanze e interrogazioni parlamentari, editoriali di giornale, intellettuali che si indignano. Invece il leitmotiv della “valorizzazione del patrimonio culturale” quale risorsa per Roma sembra seguire una strada ben precisa, in cui il coinvolgimento dei privati nella gestione dei luoghi d’arte della città diventa una svendita e una sottrazione dei beni pubblici ai cittadini. Perché se non si è più liberi di riprodurre l’immagine di colossei quadrati o rotondi vuol dire che quei monumenti non sono più di tutti.