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WW84, o la distopia del desiderio

In WW84 (dal 28 gennaio in Italia) l’eroina interpretata da Gal Gadot si confronta con l’edonismo reganiano degli anni 80 e con la sua appropriazione del desiderio a fini capitalistici. Ma dietro all’avvincente intreccio si scorge una riflessione inquieta e matura su come sia proprio il confronto contraddittorio con il cuore ambiguo che abita ogni soggetto ad aprire lo spazio per una diversa idea di verità, oltre la fantasmagoria del capitale

WW84 (Wonder Woman 1984) non è solo un viaggio a ritroso nel tempo, un lungo flashback in quel 1984 che troneggia nel titolo del film, ma è molto di più: è il tentativo coraggioso di fare i conti con gli anni ‘80, di evocare l’immaginario di quel decennio per coglierne l’essenza e per provare a svelarne l’arcano. Con una capriola dialettica di tutto rispetto, in questo secondo capitolo della saga di Wonder Woman (impersonata da Gal Gadot) il sempreverde mito del supereroe, anzi della supereroina (dettaglio tutt’altro che secondario) si rovescia mirabilmente in una rigorosa critica dell’ideologia: l’ideologia dell’“edonismo reaganiano”, per citare l’ineffabile Roberto D’Agostino di Quelli della notte (lo show di Renzo Arbore che allietò il palinsesto di Rai2 nel 1985). La stessa ideologia, tra l’altro, di cui si nutriva il paninaro impersonato da Enzo Braschi in Drive In, altro popolare show di quegli anni, questa volta però su Italia 1 (andò in onda tra il 1984 e il 1988).

Ma prima di entrare nel vivo dell’anno domini 1984, il film ci accompagna con un flashback di ammaliante bellezza su Themyscira, la lussureggiante e misteriosa isola delle Amazzoni che avevamo già ammirato nel capitolo precedente della saga, per rievocare un episodio decisivo dell’infanzia di Diana, la futura Wonder Woman. Spinta da un’ambizione divorante, Diana vorrebbe vincere a tutti i costi una gara. Per riuscirci però prende astutamente una scorciatoia, convinta di farla franca. Verrà invece fermata sulla linea del traguardo dalla saggia Antiope (sorella della regina Hippolyta, madre di Diana) che le impartirà un insegnamento fondamentale: non si deve barare perché nulla è più importante della verità, perché «non c’è che la verità» (truth is all there is) e «nessun vero eroe è nato dalle menzogne»(no true hero is born from lies). Il prologo pone dunque il film sotto il segno della verità. Essenziale è «il coraggio di affrontare la verità» (the courage to face the truth), come ribadisce Hippolyta, anche e soprattutto quando la verità è dolorosa o insopportabile. E per la piccola Diana era certamente difficile accettare di non essere ancora pronta per vincere.

 

 

Con uno stacco passiamo quindi da Themyscira, dal tempo immemoriale del mito, al tempo storico. Una caduta nella storia piuttosto brutale. Siamo infatti nel cuore dell’Impero: Washington, D.C., estate 1984, tra il traffico cittadino e qualche jogger in colori fluo. Dagli schermi televisivi in vetrina un imbonitore dal tono suadente scandisce uno slogan che riassume efficacemente lo spirito dei tempi: «Life is good… but it can be better!» (difficile non notare una qual certa somiglianza, almeno nei toni, con il tycoon dalla zazzera arancione…). Eccolo qui il nucleo incandescente del capitalismo rampante dell’era reaganiana: la mobilitazione permanente del desiderio acquisitivo, la promessa irresistibile del successo e dei dollari facili, il sogno di un benessere senza limiti. Protagonista dello spot è Max Lord (Pedro Pascal, scelta azzeccata), faccendiere prossimo alla bancarotta che diventerà nel corso del film l’antagonista contro cui Wonder Woman dovrà scontrarsi per salvare il mondo dalla catastrofe nucleare. Va ricordato ai più giovani infatti che i primi anni ’80, a cui si guarda oggi da più parti nostalgicamente (secondo quelle dinamiche di “retromania” magistralmente descritte da Simon Reynolds), furono sì caratterizzati dalla spensierata adesione al consumismo più sfrenato e dall’intrattenimento a buon mercato delle televisioni commerciali (in Italia quelle di un certo Berlusconi), ma anche dalla minaccia incombente di una guerra atomica tra Usa e Urss – minaccia che comincerà a diradarsi solo dopo il 1985 grazie a Gorbačëv (personalmente ricordo che rimasi profondamente turbato nella primavera del 1984 dalla visione di un film post-apocalittico intitolato The Day After).

Senza addentrarci ulteriormente nella trama molto avvincente del film, possiamo dire che i termini del problema sono posti con chiarezza in queste prime sequenze: da un lato la verità, anzi il coraggio di affrontare la verità come virtù eroica, dall’altro il sogno ad occhi aperti che alimenta la proliferazione bulimica dei desideri. Schematizzando: da un lato Diana Prince alias Wonder Woman, dall’altro Max Lord, il clone di the Donald. In mezzo a loro lo strano oggetto della contesa intorno a cui ruota il plot: una misteriosa e portentosa “pietra dei sogni” (Dreamstone) che garantisce a chiunque tenendola in mano esprima un desiderio la possibilità di vederlo avverarsi. Ma che cosa accadrebbe se qualcuno esprimesse il desiderio di diventare lui stesso la pietra dei sogni? Il film prova a raccontarcelo e nel farlo ci invita a interrogarci sulla natura stessa del desiderio e sul nesso tra desiderio e verità.

 

 

Per cominciare, vale la pena soffermarsi su una precisazione di ordine lessicale. Il “desiderio” di cui la dreamstone garantisce la realizzazione è semplicemente un wish, non certo un desire. Ed è evidente che c’è un abisso tra gli innumerevoli wishes indotti e alimentati dalla società dei consumi da un lato, e il desiderio come istanza inconscia intimamente sovversiva dall’altro. Uno dei meriti maggiori di WW84 è di mostrare in maniera esemplare nella figura di Max Lord come il presupposto stesso dell’immaginario ipercapitalistico degli anni ’80 sia la cattura del desiderio e la sua ingannevole riduzione a wish. Paradossalmente la proliferazione telecomandata dei wishes ha durevolmente barrato la possibilità di misurarsi con il (proprio?) desiderio. Abbagliato, sedotto, rapito dalla merce, il soggetto infantilizzato si illude di “avere” dei desideri, e addirittura di poterli esprimere, come se fosse intento a scrivere una interminabile letterina a Babbo Natale. Max Lord è colui che porta questo inganno al parossismo, arrivando così suo malgrado a smascherarlo. Facendosi tutt’uno con la pietra dei sogni, arrivando a incorporarne gli oscuri poteri, egli ottiene due piccioni con una fava: da un lato riscatta definitivamente la sua condizione di loser (che all’inizio del film fa di tutto per dissimulare agli occhi di suo figlio), in quanto verrà riconosciuto universalmente come oggetto del desiderio (imponendosi dunque hegelianamente come l’unico Signore, persino al cospetto del presidente degli Usa!). Dall’altro lato, si garantisce una sorta di accesso illimitato alla realizzazione dei propri desideri, dal momento che per ogni desiderio che esaudirà potrà esprimerne uno a sua volta.

È la logica inesorabile del “monkey’s paw” (zampa di scimmia), dal titolo del celebre racconto di William Wymark Jacobs del 1902, da cui in tutta evidenza gli sceneggiatori di WW84 (tra cui la stessa regista Patty Jenkins) hanno attinto a piene mani: per ogni desiderio esaudito c’è da pagare un prezzo talmente salato da far rimpiangere lo status quo («It takes as much as it gives», si dice nel film). WW84 è leggibile dunque come una vera e propria parabola capace di veicolare un insegnamento morale e politico di indubbia urgenza oggi, che richiama da vicino la lacaniana “etica della psicanalisi”: affidare ai propri “desideri”, nel senso di wishes (auspici, augurii), il senso della propria vita significa fondamentalmente barare (come aveva cercato di barare la piccola Diana nella scena iniziale del film). Barare con se stessi, prendersi in giro, trascinarsi fatalmente in una sorta di miserevole autoinganno.

La questione tuttavia non si lascia risolvere semplicemente contrapponendo alla proliferazione inautentica del desiderio-wish una qualche forma di sdegnosa autenticità capace di non cedere i propri desideri al primo imbonitore che passa. Le vicissitudini amorose di Diana Prince, la sua difficoltà a rinnegare il proprio desiderio più intimo (quello di ritrovare l’amato Steve, il pilota che nel film del 2017 si era immolato per salvare il mondo all’epoca della prima guerra mondiale) ci mostrano come i nostri wishes, per quanto ingannevoli possano essere, in qualche modo fanno parte di noi, ci animano e ci sostengono. Non è banalmente la negazione ascetica dei desideri che ci potrà salvare, come vuole una nobile e millenaria tradizione metafisica che va dagli stoici a Heidegger. È piuttosto la nostra capacità di non cedere alla volontà di avverarli che ci permetterà di diventare ciò che siamo. Non a caso, è solo dopo avere rinnegato il proprio wish che Diana diventa pienamente Wonder Woman. In quella che è senza dubbio la scena più bella e toccante del film Diana impara a volare, diventando così pienamente la supereroina che è (qui Patty Jenkins cita ed omaggia poeticamente l’indimenticabile Superman del 1978). Come? Ricordando le parole semplici (e molto deleuziane) di Steve: in fin dei conti basta sapere incontrare l’aria e il vento, basta saperli cavalcare. Una perfetta allegoria di quanto l’accettazione della perdita (l’elaborazione del lutto) ci possa arricchire ben più di quanto non accada cercando ossessivamente e feticisticamente di avverare i propri desideri.

 

 

Film dialettico in ogni sua piega, WW84 decostruisce il tradizionale topos dello scontro tra il bene e il male trasferendolo all’interno di ogni personaggio. Bene e male non sono riconducibili a entità distinte perché riguardano modalità diverse di rapportarsi ai propri desideri. Accanto a Diane e a Max Lord troviamo così un terzo personaggio che funge quasi da mediatore: Barbara (una strepitosa Kristen Wiig), l’imbranata collega bionda alla Smithsonian Institution, impegnata a catalogare la Dreamstone, aspira a diventare disinvolta, sicura di sé, elegante e seducente come Diana. L’interesse di questo personaggio sta nel fatto che esso porta idealmente dentro il film lo spettatore. Barbara siamo tutti noi, avidi spettatori di superhero movies, che nei supereroi ci identifichiamo, che sogniamo a occhi aperti, magari solo per un paio d’ore, di essere come loro. In effetti la pasta di cui è fatto il soggetto è lievitata grazie alle immagini di cui si è nutrito e in cui si è identificato. Come se il cinema e più in generale quella che Régis Debray ha chiamato “videosfera” fossero una sorta di rizomatica Dreamstone accessibile a tutti, ovunque, a ogni istante.

Come risvegliarsi allora dal sogno a occhi aperti, dalla fantasmagoria che ha cominciato a prendere in ostaggio i nostri desideri negli anni ’80? La soluzione non sta tanto nel rinnegare i propri desideri, come il finale del film potrebbe dare adito a intendere frettolosamente, quanto piuttosto nel dare loro la parola. Discostandosi in modo originale dalla tradizione per cui il supereroe trionfa sul male grazie alla sua forza e alla sua astuzia, WW84 mette in scena un’eroina che non sconfigge il suo antagonista grazie ai suoi superpoteri (come già accaduto nell’episodio precedente), ma semplicemente con la parola: Wonder Woman salva il mondo dalle conseguenze devastanti dell’epidemia dei desideri-wishes semplicemente dicendo pubblicamente la verità. Perché, ora lo abbiamo capito, «you can only have the truth. And the truth is enough».

 

PS: mi raccomando, non perdetevi lo struggente cameo dopo i titoli finali!