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Vivere o niente. Disincanto e materialismo nella scrittura di Vasco Rossi

È uscito ieri nei cinema “Vasco Modena Park – Il Film” che documenta lo storico concerto dello scorso luglio per i quarant’anni di carriera di Vasco Rossi. Per l’occasione Michele Dal Lago sviluppa una riflessione sulla scrittura e la poetica del cantautore emiliano, che ne mette in luce complessità e profondità. E che smonta anche alcuni luoghi comuni che ancora impediscono un’analisi approfondita della sua opera

Fin dalle origini, i più grandi fan di Vasco Rossi sono stati i cantautori. «È un genio, sprizza verità da tutti i pori» scriveva di lui Enzo Jannacci. De Gregori, Fossati, De Andrè, Dalla, Daniele, Conte non hanno mai nascosto la loro profonda ammirazione per il cantante emiliano. Una ammirazione che – dopo la triste parentesi degli anni ‘90, segnata dalle sgraziate, ingenue e regressive liriche di Giovanni Lindo Ferretti, Manuel Agnelli, Ligabue e Piero Pelù – è stata ampiamente rinnovata dalle nuove generazioni di cantautori. Dente, The Giornalisti, Bugo, Brunori Sas, Le Luci della Centrale Elettrica, Tiziano Ferro sono solo alcuni dei nomi contemporanei che ne hanno studiato a fondo l’opera, incidendo pure alcune sue canzoni. Al di là delle generazioni, chi si cimenta con il mestiere di cantautore resta sempre stupefatto dalla eccezionale complessità e dalla ricchezza della scrittura di Vasco Rossi.

Le ragioni sono molteplici, alcune delle quali squisitamente “tecniche”: la cura meticolosa del verso, sia dal punto di vista linguistico che sonoro; la combinazione di linguaggi e registri differenti; la profonda connessione emotiva ed espressiva tra musica e parole; la concezione dell’arrangiamento come elemento interno alla scrittura, come parte essenziale della canzone anziché come suo “vestito” («there’s a thin line between songwriting and arranging» diceva il grande Warren Zevon); la stupefacente capacità di adattare la lingua italiana alla metrica degli stilemi musicali di origine anglofona, preservandone allo stesso tempo la naturalezza e il suono (l’esatto opposto di Piero Pelù e Ligabue); l’utilizzo musicale del parlato, come in Colpa di Alfredo o Siamo solo noi. Riguardo quest’ultimo aspetto tecnico, Vasco sostiene di averlo appreso dai dischi di Enzo Jannacci degli anni ‘70: «Ho imparato a cantare da Jannacci», racconta durante una recente lezione sulla genesi di Siamo Solo Noi. Eppure lo stesso Jannacci rimarrà nondimeno colpito dall’abilità sviluppata dal suo “allievo”: «Vasco è stratosferico» dirà a questo proposito in una intervista degli anni ‘90 «prende le note fondamentali e parla dove c’è questo suono».

Ma la dimensione tecnica e formale è sempre, nel caso di Vasco Rossi, strettamente legata a quella del contenuto. E viceversa. Tanto che è impossibile comprendere la maggior parte dei suoi testi semplicemente leggendoli.

Un esempio su tutti è la struttura “dialettica” che caratterizza molti suoi brani, da Vita Spericolata a Vivere non è facile, passando per Liberi Liberi, Vivere, Un senso, il Mondo che vorrei e tante altre. Queste canzoni hanno una formula ricorrente che crea un preciso contrasto tra strofe e ritornelli: le prime alludono ad uno spazio di possibilità, di trasgressione, di libertà e di infinito; i secondi sopraggiungono come negazione, come amara consapevolezza del carattere illusorio di quella stessa libertà, come riconoscimento del limite insuperabile della nostra condizione.

La forza emotiva di questa tensione non è meramente legata al testo. Il senso di apertura e di sospensione delle strofe si risolve musicalmente nel ritornello, la disillusione è percepibile negli accordi quanto nelle parole. E il passaggio tra i due momenti è sempre accompagnato e sottolineato da un cambio armonico e di arrangiamento. Il significato dei brani sopracitati, il loro spiccato carattere autoriflessivo (e non istintuale e vitalistico, come alcuni erroneamene credono), scaturisce da questa interazione dialettica tra strofe e ritornelli, da un lato, e tra musica e parole dall’altro.

Questo è solo uno dei tanti elementi caratteristici nella scrittura di Vasco Rossi, presenti fin dalle sue prime produzioni discografiche. Vasco appartiene infatti a quella categoria di autori con una poetica ed un pensiero precisi, che si sviluppano in modo coerente lungo tutta la sua carriera: in un certo senso è una scrittura che si interroga sempre sulle stesse questioni.

Una l’abbiamo citata poco fa, quando abbiamo fatto accenno al sentimento del finito. Vasco è veramente ateo e materialista, in senso filosofico e politico, più di ogni altro cantautore italiano. Nella scrittura quanto nella vita quotidiana: «Per me la vita non è un dono, come pensa chi crede in Dio. È un caso» ha detto più volte. Già nel 1982 cantava:

«Ora sai che vivere
non è vero che c’è sempre da scoprire e che l’infinito
è strano ma per noi, sai
tutto l’infinito
finisce qui»

(La noia)

Ma il disincanto, la consapevolezza della contingenza radicale dell’esistenza, non sfociano mai nel compiacimento nichilista, né in una falsa liberazione dionisiaca. Anzi, la lucida disperazione di Vasco è allo stesso tempo ricca di comprensione e di tormento. Non è mai soggettivamente risolta né normalizzata: «Niente dura, niente dura, e questo lo sai / Però, non ti ci abitui mai / Chissà perché» canta in Dannate Nuvole. Come non ci si abitua al fatto che, per quanto si possa imparare dall’esperienza, il caso, ciò che sfugge al nostro controllo, continua a determinare il corso degli eventi: «Quante volte sono arrivati i guai / anche se ero già migliore ormai» (Quante Volte).

 

 

 

Non c’è morale né lieto fine nelle canzoni di Vasco. Vi è però il potere consolatorio della musica. Anche in questo caso il rapporto musica-parole e l’arrangiamento svolgono un ruolo centrale. C’è un verso molto famoso della canzone Vivere, un verso in sé disperato, che tuttavia ottiene un effetto emotivo particolare, un misto di commozione, pietà, empatia e sollievo. Tanto che pure i detrattori di Vasco ne restano spesso colpiti. Si tratta del quarto verso della seconda strofa: «Vivere, anche se sei morto dentro».

Poco prima, accompagnato solo dalla chitarra acustica e dal basso, Vasco sta cantando quasi con leggerezza: «Vivere, è come stare sempre al vento / Vivere, è come ridere…». A questo punto il tono emotivo del brano cambia bruscamente. E sono proprio l’ingresso della batteria e il salto di ottava della voce a conferire al verso successivo («Vivere, anche se sei morto dentro», appunto) quella forza empatica così difficile da spiegare. Tanto che, in ogni concerto, la reazione del pubblico è sconvolgente. Viene cantato in coro, gridato, tra abbracci e lacrime. Il potere consolatorio di quel singolo verso disperato e rassegnato è più efficace di tutti gli inviti alla positività di Jovanotti e Ligabue messi assieme (peraltro, se uno sta male, la cosa peggiore che si può fare è proprio invitarlo a “pensare positivo”).

Lo comprese bene Enzo Jannacci che, nel 2000, rese omaggio a Vasco Rossi dedicandogli un verso della struggente ballata autobiografica Lettera da lontano. Jannacci cita, non a caso, proprio la canzone Vivere e il suo potere consolatorio:

«Lettera per il tempo
Che a vent’anni nessuno ti dice che vola via
Come un tipo particolare di vento
Lettera a Vasco Rossi
Mi piace sentirgli dire che oggi è spento»

La pietà, per se stesso e per gli altri, che le sue canzoni trasmettono è certamente una delle ragioni del suo successo, nonché del rapporto personale e intenso che si instaura tra lui e i suoi fan, quel senso di prossimità umana che si percepisce chiaramente anche in uno stadio con 80.000 persone. Vasco non è mai idolatrato, tutt’altro.

L’assenza di compiacimento e l’impossibilità di trovare soluzione alle tensioni confliggenti che attraversano la vita di tutti, la sensazione che ci accompagneranno fino alla tomba, sono una costante di tutta la sua opera, non solo delle canzoni più “filosofiche”. I brani amorosi, così come quelli in cui affronta la pulsione di morte e l’illusione di raggiungere un rapporto pacificato, definitivo, con il godimento, esprimono lo stesso sentimento. Vasco in questo è portatore di una particolare saggezza psicoanalitica, come dimostra il modo singolare con cui affronta il rapporto amoroso, visto attraverso la categoria delle differenza e non della fusione o dell’appianamento dell’asimmetria.

La tematica amorosa assume in Vasco dei contorni inediti nella storia della canzone italiana. Innanzitutto le donne esistono davvero, mentre per molti dei suoi colleghi cantautori non sono altro che uno specchio dove riflettere la propria immagine di poeta e il proprio letterario tormento. O addirittura, come capita a volte nei testi di Guccini, sono ingenue e poco edotte, al punto che la voce narrante assume una posizione pedagogica e autoassolutoria (si vedano Eskimo, Vedi Cara o Quattro Stracci). Nelle canzoni di Vasco invece la presenza femminile si esprime in tutta la sua differenza, opacità e traumaticità. Aspetto che lo accomuna, seppur solo in parte, a Tenco e Conte. Ma la sensibilità psicoanalitica di Vasco è ben più profonda.

La psicoanalisi mostra infatti come il rapporto amoroso si coltivi sempre a partire da una differenza e mai dal mutuo scambio di posizione equivalenti. In Vasco Rossi c’è sempre la consapevolezza che un rapporto d’amore non è mai l’idillio della simbiosi. Semmai il duro lavoro di attraversamento di una differenza irriducibile, che divide innanzitutto se stessi.

Le storie d’amore raccontate da Vasco viaggiano sempre sul filo di un equilibrio precario, di un fraintendimento, di una distanza. Non per compiacersi di un’impossibilità, ma per pensare che la posta in palio autentica del rapporto con l’altro/a sia sempre qualcosa che rompe l’unità compiaciuta e narcisista dell’individuo.