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White Guitar Music #2: dal blu al viola

La seconda puntata di “White Guitar Music”, il nostro viaggio nella razzializzazione della storia della musica americana, si concentra sulla musica blues e sul mito della sua origine nera, folk e rurale

Long study of folklore and folklorists has convinced me that there never were any “folk”, except in the minds of the bourgeoisie.

(Charles Keil, Who Needs “The Folk”?)

 

What is often called the black soul is a white man’s artifact.

(Frantz Fanon, Black Skin, White Masks)

 

Uno degli aspetti più disturbanti della cultura rock è senza dubbio la rappresentazione mitologica e inconsapevolmente razzista costruita attorno al blues. Intere generazioni di raffinati musicisti neri – che più di chiunque altro hanno innovato e trasformato la pop music del novecento – sono percepiti e idolatrati dai rockers come selvaggi, primitivi, demoniaci, affascinanti, oscuri, animali, espressione della terra, della schiavitù, dei campi di cotone. E la loro musica è erroneamente considerata folclorica e arcaica. Cercheremo dunque di ricostruire brevemente l’origine di questa falsa rappresentazione.

Elijah Wald, nel saggio Escaping The Delta: Robert Johnson And The Invention Of The Blues, descrive in tono scherzoso la figura stereotipica (e mistificante) del musicista blues presente nell’immaginario collettivo: «Cercate qualunque immagine di un bluesman delle origini. È maschio e nero, ovviamente. Suona la chitarra. È un solitario, un vagabondo, senza soldi né fissa dimora. Un personaggio di un altro mondo, non come il vicino di casa, o un familiare, o qualcuno che conosci bene. La sua musica è perturbante, violenta e ti scuote nel profondo»[1]. Niente di più affascinante, suggestivo, e allo stesso tempo niente di più falso.

Il blues fece la sua comparsa in contesti urbani, ad opera di musicisti professionisti e affermati che pubblicavano e incidevano arrangiamenti orchestrali destinati alle sale da ballo. Gran parte di essi erano, almeno fino ai primi anni venti, bianchi. Inoltre, vi era una netta predilezione per le voci femminili. Città, orchestre, danze e cantanti donne: un’immagine speculare e rovesciata rispetto a quella tratteggiata, ironicamente, da Wald.

Negli anni della cosiddetta blues craze[2] (1913-1915) le voci maschili e femminili erano quasi tutte bianche, specializzate nell’imitare quello che si credeva fosse il dialetto dei neri (si trattava in realtà di una pronuncia caricaturale derivata essenzialmente dai minstrel show). Come scrive Richard Middleton in Voicing The Popular: «la blues craze fu scatenata da pubblicazioni che vedevano la presenza di band bianche e nere, e di cantanti principalmente bianche – Gilda Gray, Blossom Seeley, Marion Harris – almeno fino a Crazy Blues di Mamie Smith del 1920 […] Le cantanti nere che vennero dopo Mamie Smith, e che cantavano ‘vaudeville blues’, erano parte di questa ricca e inter-razziale cultura di canzoni commerciali – di cui il blues era solo un aspetto – e svolsero il ruolo più importante nell’affermare la presenza dei neri nelle performance live, esibendosi in tutto il Sud e disseminando le proprie incisioni anche nelle città del Nord. Ma negli anni ’20 il blues era allo stesso tempo un elemento chiave del repertorio delle cantanti bianche»[3].

 

 

Insomma, le fonti a nostra disposizione sembrano oggi dare ragione a Charles Keil nel sostenere che l’origine nera, folk e rurale («the delta origin myth of the blues», per usare le sue parole) sia puramente mitologica. Al contrario, il blues nacque come fenomeno «urban and white mediated»[4]. Tutte le incisioni solitamente catalogate come “folk-blues”, “country blues” o “down-home blues” – che la maggior parte di noi percepisce come arcaiche, primitive e originarie – sono successive alla blues craze.

Furono le azzeccate strategie promozionali delle case discografiche a generare questa inversione prospettica. La Paramount pubblicizzò la prima incisione di Blind Lemon Jefferson come «a real old-fashioned blues by a real old-fashioned blues singer . . . old-time tunes . . . in real southern style». Il blues acustico degli anni ’20 e ’30 fu venduto con l’etichetta di old-time music – un ritorno a delle origini mai esistite – perché gli impresari dell’industria musicale avevano intuito che l’attrattiva essenziale di questa musica risiedeva nel senso di autenticità incarnato dai suoi interpreti.

Gli artisti stessi erano consapevoli della natura meramente ‘promozionale’ di quella etichetta, e l’origine non folk di quei repertori era evidente a qualunque chitarrista nero. Innanzitutto perché la loro fonte primaria di formazione musicale erano le radio che trasmettevano i successi jazz del momento. Se si ascoltano le parti di chitarra dei musicisti più noti di quella stagione, è chiaramente riconoscibile la derivazione pianistica della tecnica esecutiva. La stile finger-style utilizzato da Blind Lemon Jefferson, Blind Blake, Charlie Patton e Robert Johnson altro non è che il tentativo di riprodurre sulla chitarra – strumento molto più economico e facilmente trasportabile – l’arrangiamento pianistico e ragtime del decennio precedente (il pollice esegue la linea di basso sulle prime tre corde della chitarra – come la mano sinistra del pianista – mentre l’indice suona la melodia sulle altre tre – mano destra).

 

 

Come scrive ancora Wald, «nel momento in cui i primi chitarristi e cantanti rurali iniziarono a incidere attorno alle metà degli anni ’20, il blues si era già affermato come uno dei principali stili del pop americano da oltre un decennio, e tutti loro avevano ascoltato ed erano stati influenzati dal raffinato lavoro dei cantanti vaudeville. Quando le case discografiche decisero di chiamare i loro dischi ‘blues’, fu una scelta commerciale che mirava a creare un legame con le famose incisioni delle blues queens. Le pubblicità sui giornali potevano anche mostrare un vecchio uomo a cavallo di un mulo che si trascina lungo una strada polverosa, ma per un giovane musicista intenzionato a farsi un nome nel mondo dello spettacolo, quella parola (blues) alludeva a buoni ingaggi, lauti guadagni e automobili di lusso. Se qualcuno avesse insinuato alle star blues dell’epoca che in realtà erano musicisti folk portatori di una cultura risalente ai tempi della schiavitù, la maggior parte l’avrebbero probabilmente considerato un insulto»[5].

Questa rappresentazione storicamente capovolta e folclorizzata dell’evoluzione del blues   non fu semplicemente il risultato delle strategie commerciali dell’epoca. I folcloristi fecero la loro parte. Quando John Lomax, padre del più noto Alan, ottenne la grazia per Heddie Leadbetter, allora carcerato nella Angola State Prison (Louisiana), lo portò in giro per tutta l’America spacciandolo per ‘folksinger’ e rappresentante di un cultura in via di sparizione. Durante le esibizioni lo costringeva a vestirsi da contadino e a eseguire i canti di lavoro delle piantagioni. In questo modo Lomax offriva ai salotti della borghesia americana di sinistra un esemplare unico e autentico dello schiavo nero e delle sue canzoni, con tutto il fascino primitivo ed esotico che tale figura esercitava sul ceto intellettuale dell’epoca.

 

 

Bisognerà tuttavia attendere gli anni ’60 per vedere dispiegarsi compiutamente il processo di folclorizzazione del blues. Quando il folk revival statunitense riscoprì i songster del blues acustico degli anni ’30 e ’40, li elesse espressione autentica e originaria della musica dei neri americani.

Oltre alla famosissima Anthology Of American Music di Harry Smith, i cui sei lp rappresentarono – a detta degli stessi protagonisti di quella stagione musicale – la ‘bibbia’ del folk revival, un’altra importante pubblicazione contribuì a rinforzare quella visione: nel 1959 lo studioso Samuel Charters diede alle stampe il libro The Country Blues, accompagnato da un lp con una antologia di brani compilata dallo stesso Charters. Tanto il volume quanto l’antologia offrivano una ricostruzione romantica, esotica e suggestiva del blues degli anni’ 30, legittimando scientificamente la convinzione diffusa dalle case discografiche prebelliche: “that older blues was fundamentally rural music”[6]. Fu il libro di Charters a introdurre l’espressione ‘country blues’ per indicare il blues prebellico (ovviamente escludendo tutte le incisioni con jazz band e voci femminili).

In realtà Charters non solo non era un purista, ma era ben consapevole della forzatura che stava operando. Nella prefazione alla ristampa di The Country Blues del 1975, infatti, confessa di aver deliberatamente romantizzato i bluesmen e la loro produzione prebellica, e rivela di averlo fatto per una precisa ragione politica, ossia avvicinare i giovani bianchi alla cultura afroamericana. Charters pensava in questo modo di dare il suo contributo al movimento per i diritti civili: «Se i miei libri dell’epoca appaiono romantici è perché ho voluto renderli romantici. Stavo cercando di descrivere la musica e la cultura nera in modo che affascinasse un certo tipo di giovane bianco americano di classe media […] volevo che la gente ascoltasse, e quella mi sembrava la via più breve»[7].

È interessante notare come il processo di folclorizzazione del blues abbia prodotto un sostanziale rovesciamento delle gerarchie di rilevanza dei musicisti. Due dei musicisti che maggiormente contribuirono allo sviluppo successivo del genere – Leroy Carr e Lonnie Johnson – saranno sostanzialmente ignorati non solo dal folk revival degli anni ’60 ma, per lungo tempo, anche dalla saggistica sul blues, impegnata nella ricerca ‘real (folk) blues’ della stagione prebellica. Carr e Johnson apparivano troppo urbani, eleganti e musicalmente colti per il canone ‘folk-blues’ dell’epoca.

Non stupisce dunque l’ironica e provocatoria domanda rivolta da Lonnie Johnson ad un giovane studioso che chiedeva di poterlo intervistare: «Are you one of those guys who wants to put crutches under my ass?» (Sei un’altro di quei ragazzi che vogliono infilarmi delle stampelle sotto li culo?).

 

 

La Anthology Of American Folk Music di Harry Smith, citata come esempio di “invenzione della tradizione”, conteneva nondimeno alcune intuizioni illuminanti. In particolare, come hanno notato Barker e Taylor, «a differenza di tutti coloro che studiavano la musica americana al tempo, Smith riconobbe la natura integrata della musica del Sud e con disinvoltura collocò gli artisti bianchi e quelli neri uno accanto all’altro in ciascuna delle dodici facciate dell’album. Nelle elaborate note interne, omise volutamente qualsiasi riferimento alla razza dei musicisti»[8].

La stagione musicale racchiusa tra le due guerre mondiali era caratterizzata dall’impossibilità di distinguere repertori neri e bianchi, tanto da confondere gli stessi folcloristi. Molti di loro, affidandosi al semplice ascolto delle incisioni, classificavano spesso musicisti bianchi come neri e viceversa. Oggi non è più così. I generi musicali più popolari negli Stati Uniti sono fortemente razzializzati: «nel momento in cui scriviamo, la musica nera e quella bianca in America sono forse più distanti che mai. I musicisti neri suonano R&B e Hip Hop, i musicisti bianchi country e rock, e un repertorio comune è pressoché inesistente»[9]. E il blues, dalla fine degli anni ’60, è tornato ad essere un genere suonato e ascoltato principalmente da bianchi. Possiamo dunque concordare con Keil quando, nella postfazione alla nuova edizione di Urban Blues del 1991, afferma che «potremmo arrivare a comprendere il periodo tra il 1929 e il 1968 come “l’epoca d’oro del blues afroamericano”, preceduta e succeduta da due stagioni di blues bianco»[10].

L’abbandono del genere da parte dei neri dovrebbe essere in sé un argomento sufficiente a mettere in discussione l’esistenza di quel legame profondo – ribadito con insistenza dal cinema e dalla stampa musicale, fino a diventare una delle fondamenta su cui si è costruita l’ideologia spontanea dei musicisti contemporanei – tra blues e identità afroamericana.

Demistificare il mito dell’origine folk del blues – svelarne la natura pop e inter-razziale – significa mettere in discussione una delle costruzioni ideologiche che hanno condizionato la comprensione della questione afroamericana da parte dei bianchi.

Nelle forme di espressione musicale dei neri americani possiamo riconoscere elementi riconducibili alla sfera dell’identità afroamericana e altri che, invece, discendono dalla condizione sociale degli afroamericani negli Stati Uniti, una condizione di subalternità politica ed economica. La folclorizzazione del blues non è che uno dei tanti meccanismi attraverso cui si esasperano i primi per occultare i secondi. Non solo, concentrandosi sulla campagna e sul passato si evita di confrontarsi con il presente urbano e contraddittorio in cui vivono la maggior parte dei neri americani. «There is also an escapist element in these writings» scriveva nel 1966 Keil a proposito degli studiosi che consideravano il blues elettrico degli anni sessanta inautentico e corrotto dalla tecnologia e dal mercato: «focalizzando la sua attenzione sui vecchi bluesman e screditando il blues di oggi come decadente, lo studioso può distogliere lo sguardo dalle condizioni dei ghetti urbani da cui nascono gli stili contemporanei»[11].

Di fatto, mentre Charters, Lomax e Oliver – i tre studiosi del blues più famosi negli anni ’60 – erano impegnati a scovare il più vecchio dei bluesmen tra le piantagioni del Mississippi, Freddie King cantava «Now, what you gonna do / When the welfare turns its back on you?» (The Welfare Turn Its Back On You, 1963).

 

 

Lungo gli anni ’70 pubblico e musicisti neri hanno riconsegnato ai bianchi il blues e tutta la sua mistica dell’autenticità e del passato, per esplorare altri stili musicali più adeguati a raccontare la vita, l’identità e l’immaginario afroamericani negli Stati Uniti contemporanei.

Ascoltando il rap del sud degli Stati Uniti, ad esempio, emergono chiaramente le coordinate materiali e culturali entro cui si muovono oggi i rapper neri del sud e larga parte dei loro ascoltatori. Non ci riferiamo qui al rap cosiddetto ‘conscious’, quello politicamente impegnato, militante, bensì alla produzione di artisti di grande successo come Future e Young Thug, entrambi di Atlanta, o Gucci Mane (originario dell’Alabama, ma trasferitosi ancora adolescente ad Atlanta), che mettono in scena le forme e le figure – socialmente, geograficamente e storicamente determinate – attraverso cui si esprime la pulsione di morte dei giovani afroamericani che vivono nei quartieri neri delle grandi città del sud. I testi delle canzoni raccontano l’abuso di sostanze, la sessualità problematica e tormentata, la seduzione del crimine, il difficile rapporto con il denaro, il presentimento che un rapper nero, non importa quanto in alto possa arrivare, sia destinato ad un brusco e spesso violento declino. La sensazione, più o meno consapevole, di non poter sfuggire alla propria origine razziale e di classe.

E la musica non è certo meno complessa e ricca di significati. La voce di Future, ad esempio, è distesa, “intubata” (effetto ottenuto meditante l’utilizzo di autotuner, compressione ed echo), e si stende su lente basi trap dalla timbriche cupe. L’ambiente sonoro che ne risulta richiama l’esperienza di rarefazione e stordimento causata dall’abuso di sciroppo alla codeina, una sostanza molto diffusa tra i giovani neri che vivono nelle aree urbane. Tutti i riferimenti al colore viola nei testi, nelle grafiche e nei video di questi artisti alludono proprio allo sciroppo per la tosse, che viene solitamente assunto assieme a gassosa e alcol.

Il Purple Drank fece la sua comparsa alla fine degli anni ’60. I primi ad utilizzarlo furono proprio i musicisti blues della scena di Houston. Nel 2018 fa più vittime dell’eroina e della cocaina messe assieme. Per chi volesse oggi, attraverso la popular music, indagare la condizione sociale, la cultura e l’immaginario del proletariato e del sottoproletariato nero, la pista da seguire è quella viola, non certo quella blu.

 

 

La prima puntata si può leggere qui

 

[1] Elijah Wald, Escaping The Delta: Robert Johnson And The Invention Of The Blues, Harper Collins Publisher, New York, 2004, p. 221.

[2] con l’espressione blues craze – moda del blues – si è soliti indicare il periodo in cui il blues esplose come la ‘moda del momento’ negli Stati Uniti, ossia dal 1913 al 1915. Alcuni autori invece estendono la blues craze al 1926, per racchiudere tutta la parabola, ascendente e discendente, del city blues delle origini.

[3] Richard Middleton, Voicing The Popular: On The Subjects Of Popular Music, Routledge, New York, 2006, p. 42.

[4] Charles Keil, «People’s Music Comparatively: Style And Stereotype, Class And Hegemony», Dialectical Anthropology, Vol. 10, No. 1/2, July 1985, pp. 119-130.

[5] Wald, Escaping The Delta, op. cit., p. 13.

[6] Wald, Escaping The Delta, op. cit., p. 241.

[7] Samuel Charters, The Country Blues, Da Capo Press, New York, 1975 (first ed. 1959), pp. x-xi.

[8] Hugh Barker, Yuval Taylor, Musica di Plastica. La ricerca dell’autenticità nella musica pop, Isbn Edizioni, Milano, 2007, p. 48.

[9] ivi, p. 60.

[10] Keil, People’s Music Comparatively, op. cit, p. 121.

[11] Charles Keil, Urban Blues, University of Chicago Press, Chicago, 1966, p. 38.