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Nothing but tired. Springsteen, Portelli e la classe operaia statunitense

Il 23 settembre 1949 a Long Branch nel New Jersey nasceva Bruce Frederick Joseph Springsteen. Il “Boss” oggi compie oggi 70 anni. Qui un articolo di Michele Dal Lago che, a partire da un saggio di Alessandro Portelli, riflette sul rapporto tra il cantautore statunitense, la country music e le tematiche del lavoro

Nel panorama editoriale italiano Badlands (Alessandro Portelli, Donzelli, 2015) è certamente il libro più importante per comprendere la poetica springsteeniana in rapporto alla storia sociale della classe lavoratrice statunitense. «Tratto tutto – scrive Portelli nell’introduzione – da un punto di vista definito e focalizzato: i temi del lavoro, dei rapporti di classe, e il loro impatto sulle identità e sul “sogno americano”». Sebbene l’argomento sia stato ampiamente sviscerato dalla letteratura, scientifica e non, dedicata a Bruce Springsteen, Badlands offre alcuni spunti interpretativi difficili da rintracciare anche nei più noti testi statunitensi. La riflessione sul rapporto tra classe operaia e popular music sviluppata da Alessandro Portelli a partire dagli anni ’70 contiene infatti una intuizione teorica e metodologica ancora non adeguatamente recepita ed esplorata. Una riflessione innescata dalla scoperta dell’inaspettata complessità sociale e narrativa della musica country, o, come scrive lui stesso, della «serietà della country music», su cui ha cominciato a interrogarsi qualche anno prima di incontrare l’opera di Springsteen.

Per comprendere questo passaggio è necessario fare un passo indietro e rivolgere l’attenzione agli anni ’60, vale a dire il decennio in cui negli Stati Uniti iniziò a manifestarsi in modo evidente la progressiva divaricazione tra i movimenti della nuova sinistra giovanile – composta a maggioranza dai figli dei ceti medio-alti e destinata a divenire un’élite culturale – e la base sociale del movimento operaio. Non è questa la sede in cui approfondire le ragioni di questa separazione, ragioni che affondano nelle grandi trasformazioni sociali ed economiche che caratterizzarono il decennio precedente, oltre che in molteplici fattori politici, non ultima la lunga inquisizione anticomunista che, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, mise a dura prova tutte le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra statunitense. Fatto sta che le componenti giovanili della nuova sinistra – che andava affermandosi nell’immaginario collettivo come espressione di un conflitto generazionale prima che sociale – avevano abbandonato, già a metà degli anni ‘60, la centralità dell’opposizione di classe costruita attorno ad antagonismi economici immanenti in favore di altre linee di divisione e contrapposizione (pacifismo, stili di vita, nuove forme comunitarie, libertà d’espressione, etc). Queste nuove divisioni si riflettevano fortemente nelle scelte estetiche e di consumo, dunque anche in quelle musicali, che si distanziavano sempre più da quelle della classe operaia, arrivando persino a contrapporvisi, come nel caso della country music, il genere musicale più ascoltato dal proletariato bianco statunitense. Se fino agli anni ’50 la country music era considerata tutt’uno con il r’n’r (per la comune genesi stilistica e le reciproche contaminazioni), nel decennio della grande contestazione cominciò a essere ridicolizzata, squalificata e bollata di irredimibili pulsioni reazionarie. Un atteggiamento che, anni dopo, Portelli definirà «il moralismo classista del movimento».

In Italia la composizione sociale dei movimenti era diversa, tanto che arrivò ad esprimere, seppure per un breve periodo, una forte alleanza tra studenti e operai. Ma tanto diverso non era il rapporto della sinistra intellettuale con i consumi culturali dei lavoratori. I gruppi politici, i circoli intellettuali e quasi tutta l’etnomusicologia militante italiana reputavano la musica leggera – quella che oggi definiamo popular music – un oggetto di scarso interesse, se non addirittura uno strumento per assopire le masse. Ad essa opponevano la valorizzazione dei repertori folclorici, considerati autentica espressione della cultura popolare, o la canzone d’autore impegnata, come nel caso del Cantacronache. È in questo contesto ideologico e culturale che Portelli inizia a scrivere di musica. E sarà proprio l’incontro con la country music a mettere in crisi quella rappresentazione del rapporto tra cultura popolare e cultura di massa, facendo di lui un precursore, almeno in Italia, degli studi sulla popular music. Nel 1981, infatti, scriverà: «noi parliamo di cultura popolare e cultura di massa troppo spesso come realtà antagoniste e impermeabili; la country music suggerisce invece la complessità dei loro rapporti: c’è molta cultura popolare dentro il prodotto di massa, determinata dalla resistenza implicita di un pubblico socialmente definito; e c’è molta cultura di massa dentro la cultura popolare».

La scoperta della country music come espressione del mondo operaio statunitense avviene per Portelli in modo quasi casuale, come racconta lui stesso in un bell’articolo apparso su Il manifesto nell’ottobre del 2004: «Atlanta, Georgia, 1973. Ero ospite di giovani attivisti bianchi del Sud che avevano rischiato la vita per i diritti civili, stavano in tutte le lotte ambientali e sindacali, e collaboravano a The Whole Earth Catalogue, la rivista controculturale di Gary Snyder e Ken Kesey. Con stupore, vidi che i loro scaffali erano pieni di dischi di country music. Credevo che fosse musica fascista per bianchi reazionari del Sud. Glielo dissi, e mi risposero: comprati un disco di Merle Haggard. La prima canzone dei Greatest Hits, Okie from Muskogee, confermò tutti i miei pregiudizi: una requisitoria contro i pacifisti coi sandali e le collanine, in nome dell’America western con gli stivali. La seconda, Mama’s Hungry Eyes, fu una rivelazione: “rivedo ancora la fame negli occhi di mia madre, l’accampamento di profughi della Depressione in cui sono cresciuto, sapendo che era un’altra classe quella che ci teneva in quelle condizioni”. In nessun disco rock avevo mai sentito la parola ‘classe’. Imparai più da quei cinque minuti di disco che da anni di studio».

Non solo, Portelli si accorge che il tema del lavoro, difficile da rintracciare nelle liriche del rock della controcultura, è onnipresente nella discografia country di quegli stessi anni. Infatti, al posto della libertà individuale, della trasgressione, delle droghe espansive e della sperimentazione poetica e linguistica che caratterizzavano il rock alternativo dell’epoca, nella country music troviamo le fatiche del lavoro, la nostalgia e lo sradicamento dei giovani che abbandonano il sud agricolo per il nord industriale, il deterioramento fisico e mentale di chi lavora nelle miniere. Anche le ballate amorose hanno una connotazione di classe: al posto dell’amore libero troviamo matrimoni precoci, tradimenti (le cheating songs sono addirittura un sotto-genere della country music), divorzi e conflitti sull’affidamento dei figli. La percezione stessa dei grandi eventi storici, della loro rilevanza, è profondamente diversa. Nella musica rock degli anni ’70, ad esempio, non vi è quasi traccia – salvo rarissime eccezioni tra cui figura proprio Bruce Springsteen – della crisi economica che stava mettendo a dura prova ampi segmenti della working class statunitense. Nel mondo della country music – in cui era ancora vivido e presente lo spettro della grande depressione – troviamo invece centinaia di brani che denunciano il ritorno degli ‘hard times’. Bobby Bare e Merle Haggard, due tra le più famose country stars dell’epoca, vi dedicano addirittura due interi album (rispettivamente Hard Time Hungrys, 1975, e A Working Man Can’t Get Nowhere Today, 1977).

Semplificando al massimo potremmo dire che la country music pone Portelli di fronte a una contrapposizione inedita: da un lato una sinistra senza classe, dall’altro una classe senza sinistra. Così, al contrario della vulgata “marcusiana” che tendeva a liquidarli come semplice indice del grado di integrazione culturale e ideologica della classe operaia (un concetto teoricamente debole e fuorviante), i consumi musicali dei lavoratori divengono per Portelli essenziali per comprendere la complessità, le contraddizioni e i conflitti che attraversano la condizione operaia statunitense. Anche e soprattutto nelle aree dove – in assenza di forme estese di organizzazione e rappresentanza sindacale e politica – la classe lavoratrice non si costituisce come forza sociale unificata, come soggetto antagonistico. L’esperienza dello sfruttamento non è mai completamente rimossa o negata. Al contrario, è sempre presente e raccontata, seppure in forma distorta, e a volte addirittura rovesciata nei suoi effetti politici: «Merle Haggard mi spalancò gli occhi su un’altra dimensione: il patriottismo macho e bellicista non era il segno dell’“integrazione” ma il suo contrario, una dislocata compensazione al senso di emarginazione e di impotenza dell’America proletaria e rurale». Lo stesso senso di impotenza che ritroviamo in The River, nella famosa frase “on account of the economy” cui Portelli dedica addirittura un capitolo di Badlands: «è la rappresentazione della relazione schiacciante fra il singolo lavoratore e le forze del mercato che gli sembrano inevitabili, imperscrutabili, ineluttabili […] in quella parola c’è un altro punto di vista, il punto di vista concreto di una persona in carne e ossa, non ideologico ma comunque di classe».

Vi sono molte analogie tra la poetica country e quella springsteeniana: la mobilità orizzontale, geografica, come surrogato di una impossibile mobilità verticale, l’orgoglio proletario, l’eta adulta non come condizione psicologica ma sociale e materiale. «A parte qualche momento del rhythm and blues» – scrive Portelli in Note Americane – «l’unico genere dell’industria musicale che si è rivolto coscientemente a gente adulta che lavora e ha parlato della sua vita è stata la tanto biasimata musica country». I protagonisti delle canzoni di Bruce Springsteen, come quelli della musica country, sono spesso giovani anagraficamente, ma si trovano ad affrontare problemi e responsabilità adulte.

Tuttavia le differenze sono ancora più interessanti, e la più importante riguarda proprio quel «punto di vista concreto» citato poco fa, reso da Springsteen attraverso l’uso della prima persona («la tua voce scompare nella voce di quelli di cui hai scelto di scrivere. Sostanzialmente, trovo i personaggi e li ascolto» dice lo stesso Springsteen a questo proposito). Ma soprattutto si tratta di un punto di vista interno, simile a quello espresso dalla country music, eppure profondamente diverso. Nel caso di Springsteen, infatti, non si tratta del riflesso di una condizione sociale, ma di una scelta, narrativa e politica, che diviene sempre più consapevole nella lunga riflessione che si sviluppa da Born To Run a Born in The Usa. Una scelta resa possibile dalla vicinanza sociale e biografica con il mondo operaio e, contemporaneamente, dalla parziale emancipazione culturale ed economica che Springsteen ha raggiunto grazie alla professione di musicista. Come spiega Portelli: «Bruce Springsteen non ha mai lavorato né all’autolavaggi, né in fabbrica, ma ha visto gli occhi di amici e familiari che ci lavoravano. Forse è proprio questa combinazione di familiarità e distanza che gli permette di raccontare le vite degli altri con un realismo che è indicibile per chi ci è intrappolato dentro».

L’assunzione del punto di vista interno implica la rinuncia al commento politico esplicito, ossia a quell’elemento che ha sempre stabilito una asimmetria, un rapporto pedagogico tra il cantante di protesta e i suoi destinatari. Springsteen vuole evitare a tutti i costi di ricadere nella canzone di protesta, perché comporterebbe la perdita di quel punto di vista interno e, con esso, la potenza comunicativa e innovativa della sua scrittura, oltre che il rapporto simmetrico, empatico e partecipato che ha instaurato con il suo pubblico. I personaggi delle sue canzoni raramente denunciano in modo esplicito e politicamente articolato i processi sociali ed economici all’origine della loro condizione. Al contrario, li percepiscono come inevitabili e immodificabili alla pari degli eventi naturali. A volte incolpano se stessi. Ma non si tratta di una falsa coscienza che conduce il soggetto a sentirsi erroneamente responsabile di una condizione determinata in ultima istanza dalla coazione degli agenti economici. Non c’è nessuna forma di autoassoluzione dissimulata nelle canzoni di Springsteen; tutt’altro, c’è la consapevolezza che, al netto della pressione sociale, c’è un parte di responsabilità, un fare i conti con la propria vita, le proprie scelte e i propri errori che resta sempre e comunque in capo al soggetto. Come spiega Portelli, «nel racconto in prima persona è come se fosse il personaggio (e Springsteen stesso) a interrogarsi su di sé, a sentirsi internamente lacerato». Le storie operaie di Springsteen non si riducono mai alla loro dimensione sociologica; raccontano sempre un tormento esistenziale in cui tutti si riconoscono, al di là della propria condizione sociale.

L’operazione di Springsteen è più razionale e consapevole di quanto si creda, come dimostrano alcune sue scelte spesso equivocate dagli stessi springsteeniani. Due esempi su tutti: la decisione di non inserire nell’album Darkness At The Edge of The Town la bellissima The Promise, perché avrebbe svelato definitivamente il carattere illusorio della fuga, del sogno di mobilità orizzontale che il protagonista di Thunder Road prospetta alla sua donna; o quella di eliminare da Glory Days la strofa che raccontava il licenziamento del padre.

Anche la musica svolge un ruolo chiave. Il rock di Springsteen è una sintesi di diverse influenze musicali, r’n’r, soul, country, tutti generi di largo consumo, musica “di massa”: «la rischiosa scommessa di Bruce Springsteen» scrive Portelli «è proprio quella di affidare un articolato messaggio di denuncia a un mezzo di comunicazione che sta dentro l’universo del consumo e risponde a quelle grammatiche dell’ascolto». Una scommessa che Springsteen ha saputo vincere, come dimostra il successo planetario di Born in The Usa, il suo disco più politico e allo stesso tempo più commerciale (chi ancora oggi lo liquida ingenuamente come resa di Springsteen alle logiche dell’industria discografica non deve fare altro che leggere Badlands e poi tacere per sempre).

Nella storia della canzone politica l’esperimento di Springsteen è inedito, non assimilabile a quelli compiuti da altre figure, altrettanto importanti, della storia della musica americana come, ad esempio, Woody Guthrie. Rappresenta un passo in avanti, un’enorme innovazione rimasta unica nel suo genere. Le canzoni «implicitamente politiche», come le definisce Portelli, di Born In The Usa, sono politicamente più efficaci dei canti di protesta, così come delle canzoni «esplicitamente politiche» scritte dallo stesso Springsteen nei dischi successivi. Ha ragione Portelli nel sostenere che la pubblicazione di queste ultime ha svelato e legittimato retrospettivamente la politicità delle prime. Tuttavia The Ghost Of Tom Joad, un brano meraviglioso per molti aspetti, non ha la forza di Downbound Train, di Working On a Highway o di Racing In The Street proprio perché ristabilisce il rapporto tradizionale tra il folksinger impegnato e i suoi destinatari. È una canzone di denuncia sociale, una delle più belle di sempre. Perché Bruce Springsteen, anche quando indossa i panni di Woody Guthrie, li porta meglio di chiunque altro.

Dove ricercare, nella scena musicale attuale, qualcosa di analogo? Oggi come ieri non è al rock alternativo che bisogna guardare. E forse nemmeno al rock in generale. Ci sono però alcuni rapper di successo che sembrano muoversi sugli stessi binari del boss. Uno per tutti, Kendrick Lamar. In lui troviamo la medesima combinazione di familiarità e distanza (con il sottoproletariato nero di Compton, California) che Portelli ha riconosciuto in Springsteen. Anche Lamar scrive in prima persona raccontando spesso storie di altri. La sua scrittura è complessa, ricercata e stratificata – per l’ascoltatore che vuole esplorarne la profondità – e, allo stesso tempo, di immediata fruizione per un pubblico più vasto. Non a caso Pietro Bianchi – filosofo e profondo conoscitore tanto dell’opera di Springsteen quanto dell’hip hop contemporaneo – ha paragonato Good Kid, M.A.A.D City di Kendrick Lamar a Darkness At The Edge Of The Town. E nulla sarebbe più interessante di un’analisi à la Portelli di questi nuovi repertori.

Un’ultima annotazione, non sull’opera di Springsteen, bensì sulla sua figura pubblica. Nessuna grande star del rock si è schierata con le organizzazioni dei lavoratori quanto lui. Tantissimi si sono spesi per battaglie umanitarie, etiche o morali, ma sono veramente pochi quelli che, come lui, hanno riconosciuto nel sindacato la leva più importante per il progresso sociale. Phil Ochs, nella bellissima ballata sulla vita di Joe Hill, cantava: “He headed out to the California shore / there things were just as bad / so he joined the Industrial Workers of The World / ‘cause the union was the only friend he had”. In altre parole, il migliore alleato dei lavoratori sono i lavoratori stessi, nel momento in cui si organizzano collettivamente. Non come singoli, dunque, ma come gruppo sociale che si riconosce tale a partire dalla propria posizione nei rapporti di produzione. Springsteen ne è sempre stato fermamente convinto, e non ha mai perso occasione per ribadire questa sua convinzione. Anche questo ha fatto di lui, tra i cantanti di successo, l’unico vero amico dei lavoratori statunitensi.

Questo articolo è precedentemente uscito su «Lo Straniero», n. 186/187 – dicembre 2015/gennaio 2016, pp. 148-152