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“Vivere Mille Vite”: un’autobiografia che parla di videogiochi

Lorenzo Fantoni scrive “Vivere mille vite”, un libro che è saggio, diario e racconto. Nella terra ibrida dei generi letterari vive il racconto del videogiocatore italiano, nuovo archetipo della storia italiana.

 

«Non so come sarei oggi senza quel posto, senza Jolly Bar, non penso mi interessi saperlo».

 

Ci sono le estati al mare, dove il gracchiare dei cabinati del bar si fonde al suono del mare. Le strade di Firenze, Via Ripoli e un negozietto tenuto dal sosia di Piero Pelù. C’è una storia d’amore e un divorzio, il racconto di un bambino innamorato del padre. Anzi, è soprattutto, Vivere Mille Vite, la storia dell’amore per un padre e quello di un padre per suo figlio. In mezzo ci sono i videogiochi: che sono l’amalgama della crescita, un contorno che per alcuni è stato indispensabili mentre si diventava adulti. Lorenzo Fantoni scrive Vivere Mille Vite con la conoscenza e l’acume di chi ha lavorato nel settore per anni: ha trattato di videogiochi per chiunque, da “La Stampa” a “Wired”, è il direttore della rivista online N3rdcore  e ha collaborato per format sulla cultura nerd per Sky e DMAX. Fantoni traccia storie per lo più di epica americana d’anni Ottanta, gli anni del ribollire dello yuppismo e del capitalismo dopato, periodo storico nel quale un giorno eri re e quello dopo sul lastrico. Si racconta di Jay Miner, l’informatico geniale che rivoluzionò il sistema Atari e avrebbe prototipato il sistema Amiga. Anni incredibili in cui i programmatori di videogiochi quando protestavano lasciavano messaggi nascosti nel codice, come quello che scrisse «We made the Amiga, they fucked it up» nel sistema operativo,  messaggio indirizzato a una poco acuta classe manageriale  dedita al solo profitto. E poi ci sono gli ultimi giorni di Commodore International, che aveva dominato il mercato fino all’inizio dei Novanta. 

 

 

C’è spazio per raccontare la crisi del settore del 1983, di quando Atari seppellì nel deserto del New Mexico migliaia di cartucce invendute del tie-in di ET – L’extraterreste. E poi la storia di come nacquero gli hacker, al Tech Model Railroad Club del MIT, nel 1959, notti in laboratorio passate a far suonare con degli oscilloscopi una Toccata e fuga di Bach. Ci sono storie anche ultranote come l’entrata di Nintendo nel mercato americano. L’approccio di Fantoni è stato quello di voler scrivere un libro per tutti, rischiando di essere poco interessante per gli storici del videogioco più incalliti ma che immaginiamo possa diventare un potente documento per quelli che invece non conoscono la storia del medium. «Scrivere una storia dei videogiochi che non tralascia niente è difficile se non vuoi scrivere una enciclopedia in più volumi e non era ciò che volevo fare. Allo stesso tempo non volevo scrivere solo una storia personale, perché sarebbe stata autoreferenziale, non serviva a nessuno. Ho cercato quindi di rimanere un po’ a metà del guado. Se penso a un’opera cui ho tentato di avvicinarmi penso a Extra Lives di Tom Bissell, che ovviamente rimane lontanissimo», mi fa sapere l’autore quando gli chiedo qualcosa sulla genesi del libro. C’è poi l’intenzione, da parte dell’autore, di voler scrivere di come il piano umano  si sia più volte incrociato con il layer dell’alter ego virtuale. Il caso più evidente è il capitolo dedicato a una storia avvenuta attorno a  World of Warcraft, un videogioco di ruolo online (il più famoso di tutti, dopo Ultima Online) che verso la fine degli anni zero era diventato così popolare da finire anche  in una puntata di South Park (Make Love Not Warcraft): Byron Bernstein si tolse la vita a trentuno anni. Byron era una persona fragile e alla fine non ce l’ha fatta. Ma Byron era anche uno dei personaggi più noti nella community del gioco di Blizzard. «La sera stessa del suo suicidio migliaia di persone si sono riunite nella cattedrale di Stormwind, si sono inginocchiate e gli hanno reso omaggio. Persino alcuni esponenti dell’Orda, che normalmente non potrebbero neppure entrare nella capitale dell’Alleanza senza venire attaccate a vista, hanno affrontato il viaggio». Dopo la morte del ragazzo centinaia e centinaia di giocatori si sono connessi al mondo virtuale, dandosi appuntamento in un luogo prestabilito, un grosso edificio in una delle città principali del gioco. Come un funerale o un elemento simbolico e celebrativo nei confronti di Byron. Il racconto mediatico sui videogiochi è spesso crudele: storie di dipendenza, il grande dibattito sui videogiochi violenti spesso affrontato con borioso puritanesimo dei politici e dei giornalisti, oppure in tempi recenti casi come il Gamergate hanno fatto venire a galla i comportamenti tossici da parte della comunità di videogiocatori; racconti che hanno spesso alzato un muro di negatività che nasconde il lato splendente dei videogiochi. Eppure quello che è successo dopo la morte di Byron ci racconta una storia diversa, dove ogni singola vita conta. Che sia pur virtuale, che siano cinque, dieci, cento o mille.

 

 

Vivere Mille Vite è figlio del suo tempo, solo oggi, in Italia, si poteva scrivere un libro sui videogiochi che fosse anche autobiografia: i capitoli sono tutti collegati e accompagnati dagli eventi di vita dell’autore.

Negli ultimi trent’anni il videogioco ha assunto una maturità tale da essersi meritato l’attenzione delle accademie e di chi scrive e studia le arti, ma forse questo si sapeva già. Quello che è bello da dire sul videogioco è che finalmente c’è una generazione che è nata, cresciuta e diventata adulta giocando. Fantoni scrive di storia dei videogiochi senza dimenticare la microstoria che non finisce sui saggi: quelle d’amicizia e d’amore, la famiglia, le vacanze, le fughe escatologiche dai momenti difficili, di traumi e di diventare grandi. Lorenzo analizza il medium con la spensieratezza di un fan e l’acume di uno studioso, ma a volte sembra l’escamotage per poter raccontare la propria vita tramite il genere letterario della memorialistica: il dolore della perdita del padre e quello di un divorzio sono scritti con una spontaneità disarmante.  

C’è infine un discorso generazionale, quando nel primo capitolo si parla dei 30-40enni, quelli che non erano nativi digitali ma che hanno attraversato qualcosa di simile. Le prime linee internet a 56k con il cacofonico rumore del modem, gli amici e le discussioni sui forum, la nascita di un linguaggio scritto fondato da una generazione che passava sempre più tempo sugli schermi dei cellulari e dei monitor. E tutto sommato l’elemento fondamentale era il videogioco: non solo il medium che si evolve  prepotentemente da un punto di vista squisitamente tecnologico, che anno dopo anno diventa più complesso di pari passo con i nuovi hardware, ma il videogioco aveva il suo modo di far interagire le persone, come le chat, le passeggiate in mondi virtuali, o quando da bambini si faceva amicizia ai tornei di Winning Eleven, delle sale giochi, degli scambi di cartucce, dei pomeriggi dopo la scuola. Il mondo ibrido tra fisicità e digitalità. Era inevitabile che da questo incrocio nascesse il mondo degli e-sport, figli di un’ epica ben nota nella comunità dei giocatori di picchiaduro. Fantoni si trova lo spazio per poter scrivere di Daigo, leggendario campione giapponese di Street Fighter e di quel leggendario match contro Justin Wong all’EVO (Evolution Championship Series) in California.  Siamo già negli anni zero, ma prima i videogiochi erano già competizione tra esseri umani, fin dal 1972, quando  a Stanford organizzarono un torneo di Spacewar! con in palio un abbonamento annuale alla rivista “Rolling Stone”. 

Uno dei capitoli più interessanti è quello dedicato ai gestionali, nello specifico ai god-simulator. Sono quei giochi che ci fanno gestire il mondo come se fossimo demiurghi, costretti a fare i conti solamente con il caos artificiale dell’algoritmo. Si parla dei giochi (Populus, Civilization, The Sims), ma soprattutto dei loro autori, nomi di artisti che contano quanto quelli di un regista della nuova Hollywood, come Sid Meier o Will Wright.

Quello che rimane alla fine del libro è un dubbio da videogiocatore che ha superato i trenta: possiamo tramandare qualcosa ai posteri? O saremo destinati a essere ricordati come quelli che erano alla fine di un percorso (Generazione X e primi Millennials)  e all’inizio di una nuova era (Generation Z) ? Lorenzo risponde così domanda posta:

«Abbiamo vissuto alcune cose in maniera molto particolare, forse privilegiata, ma a vedere come sta invecchiando male la mia generazione, ho paura di quello che potremmo lasciare. Diciamo che sarebbe bello lasciare voglia di curiosità, di smontare le cose, ma soprattutto di accettare altri nelle nostra passioni senza porre barriere, di non discriminare gli altri come in alcuni casi siamo stati discriminati noi».