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Viaggio nel mondo del vino

Lo SPECIALE L/IVRE ci accompagnerà per tutta la settimana con un percorso fatto di vini e libri indipendenti. Cominciamo con un’immersione nel mondo del vino, del suo mercato e della sua geografia

Vino, tanto per parlarne un po’: una borgognotta da 75 cl di Romanée Conti di annata corrente (2014) costa oggi 16.449,44 euro. Una di Henri Jayer Richebourg Grand Cru tocca gli 11.150 euro. Frattanto, un cartoncino da 25 cl di San Crispino, bianco o rosso non fa differenza, costa sullo scaffale di un supermercato all’incirca 26 centesimi. Mi state dicendo: non sono paragoni possibili, sono vini completamente diversi, distanti in maniera incommensurabile tra di loro. Non puoi confrontare i due più importanti Borgogna con un prodotto che a chiamarlo industriale gli fai già un complimento. Rispondo e rilancio: questo è il mondo del vino. E questo non potete negarlo.

Ma anche: ogni mondo ha la sua storia, reale o immaginaria. L’ubriachezza impudica di Noè, il Dionisiaco contro l’Apollineo, il “nun chrê methysthēn” di Alceo, le Baccanti di Euripide, il komos dei satiri e dei sileni e i tiasi delle menadi, il gioco del cottabo e quello del Thaliarca, arrivato quasi fino a noi e alle nostre osterie come passatella, o “padrone e sotto” … per la cronaca: andate a rileggervi Livio a proposito dello “scandalo” dei Baccanali e del Senatoconsulto del 186 a.C., con processi che coinvolgono almeno settemila donne e ragazze. E poi altre “storielle”, altri aneddoti ancora, Carlo Magno che proibisce il vino rosso perché gli sporca la fluente barba bianca, e allora inventano per lui il Corton Charlemagne, mentre il benedettino Dom Pierre Perignon crea a Épernay le prime annate di champagne millesimé … Questo per non parlare, e qui un po’ di rispetto se lo facessimo ci vorrebbe, della “sacralità” del vino e della sua ritualità, dal Kiddush ebraico alle Nozze di Cana, all’Ultima Cena e all’Eucarestia sub utraque specie.

La storia è viva quando include il presente. Proviamo a guardare all’oggi del vino. A grandi linee, il vino di oggi appare, almeno da noi, meno “parkerizzato” di quanto non fosse ancora pochi anni fa: riappaiono innanzitutto in vigna e sui terroirs vitigni che sembravano perduti o dimenticati, originari e autoctoni soprattutto. Dei vari lignaggi internazionali si va verso quei cloni o quelle varietà più capaci di adattarsi ai luoghi e all’ambiente e darsi veste e personalità “locale”.

 

In aumento la viticoltura biologica, certificata in gran parte, e quella almeno a conduzione naturale. Ma soprattutto, le “moderne” tecniche e tecnologie di cantina, quelle che avevano trasformato i vinattieri in winemakers, spinte sino ai microfiltraggi e alle osmosi inverse, sono oggi generalmente usate al loro meglio, con quella “moderazione” che non toglie senso al tempo e alla natura. Abbiamo dunque nel bicchiere meno concentrazione, meno carica iniziale, meno profumi di vaniglia, meno legno, meno pronta beva di quanto volesse e auspicasse il nume supremo della critica enologica mondiale, quel Robert Parker fondatore della rivista “Wine Avocate” e della temutissima Buyers Guide che abbiamo prima indirettamente citato. Questo a vantaggio della varietalità e della tipicità, della naturalità fatta anche di discontinuità tra annata e annata, della maggior felicità negli abbinamenti con le varie cucine regionali. Piccola ma necessaria digressione, a questo punto, in merito alle tecniche di assaggio e di degustazione e soprattutto al linguaggio che si usa in tali circostanze: è vero, molte delle espressioni usate dai sacerdoti di questi riti appaiono come esageratamente pretenziose o iperbolicamente sacrali; anche qui, il passaggio critico dovrebbe essere quello della razionalità e della più laica moderazione. Ma per tornare al nostro bicchiere: non è difficile dire che se gli spunti appena detti stanno diventando qualcosa di più di una semplice tendenza, il merito è anche quello della media e piccola produzione. Nessuna mitografia e nessuna mitologia al riguardo, sia chiaro sin da subito: soprattutto quella totalmente sbagliata che il vino del piccolo produttore sia quello “del contadino”, che per fortuna loro nemmeno i contadini bevono più. Piccolo produttore è innanzitutto chi produce quantitativi limitati di vino. Nell’artigianalità dell’azienda, nelle sue dimensioni più o meno raccolte, questo “personaggio”, sempre meno inusuale e “caratteristico”, ha di fronte la necessità e trova l’attitudine a lavorare in prima persona, seguendo l’intero processo produttivo. Le tecniche di coltura e di cantina sono quelle che gli permettono di ottimizzare il suo prodotto senza dover ricorrere a investimenti e costi fuori misura. Se il suo lavoro è buono, ottiene un prodotto naturale e in più, molto spesso, rispettoso dell’ambiente e del territorio. Che questo lavoro sia poi orientato ad utilizzare vitigni autoctoni o desueti, magari di quei pochissimi sopravvissuti alla fillossera che a partire dal 1866 distrusse tutte le viti allora esistenti e rese necessari gli innesti su vite americana, è generalmente frutto insieme di una scelta tanto di orgoglio professionale quanto di marketing.

Il vero problema della piccola e della media produzione vitivinicola è comunque quello del mercato, nel senso più favorevole di quest’ultimo termine: quello dell’incontro tra produttori e consumatori alle migliori condizioni per entrambi. Di giusto rapporto-qualità prezzo, per i secondi, di giusta remunerazione per i primi. Mercato che non è semplice costruire, date anche le difficoltà logistiche e il quasi generale disinteresse della distribuzione di settore, o anche di quella dell’intero agroalimentare, per prodotti “di nicchia”. E che invece occasioni di incontro e di scambio come quella del nostro L/Ivre dei prossimi giorni possono favorire e rendere propizi con generale, reciproca soddisfazione.