MONDO

Verso il ritorno dello stato di polizia in Tunisia?
Nel paese simbolo delle rivolte che hanno segnato il mondo arabo ormai una decade fa, ed esempio dell’unica reale transizione democratica nella regione, si ingrossano le nubi di un futuro incerto segnato da una possibile regressione sul piano dei diritti civili e politici
In questi giorni l’Assemblea dei rappresentanti del popolo (il parlamento tunisino) é chiamata a discutere l’approvazione di complessi provvedimenti che stanno agitando l’opinione pubblica, tra cui il progetto di legge sulla «protezione delle forze di sicurezza e delle dogane» che rischia di garantire un regime di sostanziale impunità alla polizia tunisina.
Il controverso progetto legislativo ha una lunga storia, risalente al 2015, annus horribilis per la Tunisia con diversi attentati terroristici, su tutti quelli al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. In realtà un primo tentativo di far approvare una legge contro «le aggressioni» alle forze dell’ordine era stato già presentato nel 2013, ma subito accantonato. Lo stato d’emergenza e la legge anti-terrorismo del 2015 hanno rimesso al centro la questione, divenuta fortemente d’attualità in seguito all’omicidio, nel novembre dello stesso anno, del comandante di polizia Riadh Barruta da parte di un presunto membro dell’ISIS. Proprio la ricorrenza di attentati di matrice terrorista ai danni di agenti di polizia ha rimesso ciclicamente al centro del dibatto tale progetto di legge, che non è stato ancora approvato grazie alla pressione di un ampio spettro di associazioni ed organizzazioni politiche tunisine.
Nel novembre 2017, in seguito all’uccisione di un poliziotto davanti al parlamento tunisino, i sindacati di categoria sono tornati alla carica per far approvare il progetto di legge, tentativo ancora una volta fermato grazie all’intervento del mondo associativo in difesa delle libertà civili e politiche.

Nel corso degli anni il progetto di legge non è mai stato accantonato e ha subito alcune modifiche per renderlo meno inviso alla società civile tunisina e alle principali organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani. Tali modifiche, però, sono state giudicate insufficienti, con la richiesta anche da parte di Amnesty international ai parlamentari tunisini di rigettare il progetto di legge. Al di là dell’impianto globale del provvedimento, a inquietare le organizzazioni civiche e politiche che vi si oppongono è l’articolo 7 che prevede una sostanziale impunità alle forze di polizia nell’uso della forza, anche se omicida, per respingere attacchi non solo verso se stessi, durante lo svolgimento delle proprie funzioni, ma anche verso gli edifici legati agli apparati di sicurezza.
Le diverse organizzazioni civiche, sociali e politiche, raccolte attorno alla campagna حاسبهم (traducibile in italiano come «paghino per le proprie responsabilità») hanno lanciato una mobilitazione permanente in questi giorni in cui il progetto di legge è in discussione. La campagna sta riscuotendo sempre più adesioni, che vanno dall’ampio spettro delle organizzazioni giovanili di sinistra, passando per le associazioni in difesa dei diritti umani ed arrivando fino ad alcuni gruppi ultras schierati contro la repressione. Ieri (6 ottobre) c’è stato un importante momento di contestazione pubblica con un sit-in davanti al Parlamento che è stato caricato dalle forze dell’ordine che hanno fermato diversi attivisti.
Ma le proteste non si arrestano e puntano in maniera decisa, anche grazie a un’incessante lavoro mediatico soprattutto tramite i social network, a non far passare il provvedimento che rischierebbe di far piombare il paese indietro di anni, con la minaccia di un ritorno a uno stato di polizia.

Nonostante alcuni deputati si siano schierati contro e abbiano espresso solidarietà ai manifestanti, mai come in questa fase il progetto di legge ha delle possibilità di passare all’interno di un parlamento in cui scarseggiano forse progressiste e in un clima politico generale non semplice, marcato da alcuni inquietanti segnali di regressione sul piano dei diritti civili. Basti pensare al dibattito che si è scatenato nelle ultime settimane sul ripristino della pena di morte in seguito al ritrovamento del corpo di una ragazza, uccisa in modo brutale dopo essere stata violentata, nei pressi di Tunisi. Persino il presidente della repubblica Kais Saied ha fatto delle affermazioni preoccupanti di apertura ideologica verso l’applicazione della pena capitale.
D’altronde la forte crisi economica, aggravata dalla Covid-19, e le mai sopite fibrillazioni sociali presenti nel paese, come ad esempio nel profondo sud, nei pressi di Tataouine, stanno evidenziando una progressiva crescita della repressione. Segnali preoccupanti per un paese che pur restando un interessante laboratorio di esperienze civiche, sociali, culturale e politiche, vede il concreto rischio di un arretramento delle conquiste fatte in questi anni, tra povertà crescente, storiche disuguaglianze tra aree interne e città della costa del Sahel, scenari regionali sempre precari, instabilità politica e nuovo corso populista del presidente Saied.
Immagine di copertina e dentro l’articolo tratta da: Hasebhom حاسبهم