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Trovare le parole per una vita mobile

Crossroads è tornato. Crossroads riparte! Parole e riflessioni di rilancio, dopo un breve di silenzio

Dopo una lunga pausa, proponiamo qui di seguito un testo che raccoglie molti degli interrogativi su cui ci siamo concentrati in questo mese in cui CrossRoads è rimasto in silenzio. Si tratta per noi di condividere non soltanto le nostre riflessioni, a partire dal lavoro svolto, ma anche e soprattutto di una “chiamata alle armi” per un ragionamento collettivo sul tema della mobilità.

Il progetto CrossRoads è nato dall’esigenza di raccontare l’esperienza dello spostamento in prima persona. Dal bisogno di prendere parola oltre gli stereotipi, il senso comune, il lessico consolidato.

L’esigenza che percepivamo e che abbiamo provato a riverberare si è rivelata un’esigenza ampia: in tantissimi ci hanno seguito e inviato i loro pensieri e riflessioni, hanno interagito col sito e con le pagine social. Mano a mano che avanzavamo abbiamo visto emergere una narrazione collettiva multiforme e rincorrersi numerosi elementi comuni.

È a partire da qui che vogliamo provare con questo testo a mettere in luce alcuni punti che ci sono sembrati centrali nel nostro lavoro. Vorremmo inoltre abbozzare un’analisi di alcune cornici discorsive dentro cui ci sentiamo stretti e che vorremmo provare a decostruire e rompere. In questo senso, questa “chiamata alle armi” è un vero e proprio invito a chiunque voglia contribuire a costruire un ragionamento sui temi della mobilità e della precarietà a partire dalla constatazione dell’insufficienza delle analisi già esistenti.

In primo luogo non ci convincono i due racconti mainstream per eccellenza: quello della ricerca del successo e quello nostalgico. Spostarsi non è mai una saga pionieristica, in cui giovani brillanti partono entusiasti alla ricerca di opportunità negate nel paese di origine: chi parte si trova immerso in una rete ben più complessa e profonda, fatta di desideri, necessità ed opportunità. Si passa così da un regime transitorio all’altro, senza sapere esattamente quale sarà il successivo, tanto che l’invito continuo a cercare il proprio ritaglio di affermazione personale diviene uno stratagemma retorico per non parlare delle mille difficoltà incontrate.

Allo stesso tempo nemmeno il racconto nostalgico risulta convincente: non si parte tenendo nel cuore un mondo ideale, una casa a cui si vorrebbe fare un giorno ritorno. Abbiamo invece riscontrato in questo breve e denso periodo quanto, soprattutto i giovani, siano coscienti di quanto stia mutando la realtà, di quanto sia anacronistico cercare in qualche idealizzato modello del passato la propria felicità. Soprattutto, oggi vi è la consapevolezza diffusa che nessun ritorno potrà mai metterci al riparo dal dovere o volere nuovamente partire.

Di fatto questi due racconti mainstream ci sembrano riproporre un’antica dicotomia, a nostro avviso ancora profondamente pervasiva, ovvero quella tra una scelta libera, volontaria, e una scelta obbligata, forzata, costretta. E così da un lato troviamo l’esaltazione di quei giovani che partono perché scelgono, desiderano, vogliono scoprire il mondo, cambiare aria, trovare un lavoro migliore, e dall’altro quelli che invece “fuggono” da un paese in cui non c’è lavoro, quelli che se il lavoro ci fosse certamente resterebbero per sempre. Entrambe queste categorie ci sembrano stridere profondamente con la realtà che viviamo tutti i giorni. Non ci sembra il caso di scomodare riflessioni filosofiche sul rapporto tra libertà e necessità ma ci pare evidente che raramente si parte per una pura libera scelta, così come nessuno parte mai perché non ha nessun’altra alternativa. Le due realtà coesistono, si intrecciano, danno forma a infinite dimensioni soggettive della mobilità che in nessun modo possiamo spiegare con strette categorie sociologiche come quelle appena citate.

A partire dalla considerazione dello stato dell’arte del dibattito sulla mobilità giovanile ci pare rilevante sottolineare che anche tra coloro che, come noi, affrontano criticamente questo fenomeno, spesso si ritrovano retoriche e linguaggi che ancora non ha fatto i conti con l’inefficacia delle categorie che stiamo decostruendo. In primo luogo ci sembra che molte analisi critiche tendano a voler spiegare e quindi ridurre il fenomeno alle grandi cause strutturali che lo determinerebbero, quali l’erosione del welfare o la situazione salariale di un paese. Ed è in questo senso che si finisce per ritenere che lottando per un miglior welfare ed un salario più alto le migrazioni si interromperebbero; migrazioni che, in questo quadro interpretativo, costituiscono un’ennesima “perdita” economica per il paese. Per cui, se i giovani partono, se vivono lo spaesamento della mobilità continua, se all’estero come nel proprio paese vivono condizioni di sfruttamento, allora la soluzione è tornare indietro. Così una delle poche campagne politiche prodotte sul tema della mobilità ci dice: torniamo a casa allora, perché #iovogliorestare nel mio paese, l’unico dove pare avere senso rivendicare welfare e diritti.

Ad un livello più generale queste riflessioni si innestano a loro volta in un cortocircuito pericoloso e riduttivo: ovvero riproporre lo scontro tra il grande miraggio della globalizzazione e della libera circolazione da un lato, ed il triste rimpianto per un mondo più stabile, ordinato, fisso, degli stati nazione e dei loro territori dall’altro.

Al contrario ci sembra sempre più urgente elaborare delle categorie e degli strumenti che ci permettano di pensare la rivendicazione di un futuro migliore ovunque ci si trovi, che si voglia andare o tornare, restare o partire, rovesciando le potenzialità e i privilegi della libera circolazione tanto quanto le grandi promesse della mobilità, in nuove ed inedite forme di mutualismo e vita comune.

Per quanto ci riguarda non sentiamo alcun rimpianto per un mondo “solido”, ma nemmeno ci sentiamo di esaltare romanticamente un nomadismo buono forse a farci momentaneamente evadere, ma che non è affatto il regno della libertà bensì, ancora una volta, un insieme di libertà e controllo, di autonomia e sfruttamento. Insomma, ci sembra che nessun ritorno ad antichi ordini sia possibile né desiderabile; ciò che ci pare essere in gioco è il rapporto tra le nostre soggettività in varie forme fugaci e lo schiudersi di nuovi dispositivi di imbrigliamento dei nostri movimenti (soggettivi, lavorativi, affettivi, territoriali).

È di questo rapporto e delle sue contraddizioni che vogliamo parlare. E per far questo siamo convinti, dopo alcuni mesi di quest’avventura, che non si possa fare a meno di un focus sulle passioni e sui conflitti che caratterizzano le soggettività mobili. Questo non per qualche vana pretesa sociologica, ma piuttosto perché abbiamo riscontrato che in un mondo di continue promesse (non mantenute), la gamma delle passioni sia un fatto dirimente nel comprendere le forme di vita, in particolar modo quelle sempre in transito da un territorio all’altro; un elemento centrale nel costruire poi legami, immaginari condivisi, vite comuni oltre ogni ciclico ritorno alla logica stringente dei confini.

Su questi nodi ci siamo confrontati nelle ultime settimane. E a partire da qui vogliamo rilanciare CrossRoads mettendolo a disposizione come spazio di dibattito, per catalizzare e moltiplicare ragionamenti comuni che puntino non soltanto a smontare un lessico e dei discorsi che ci paiono stantii ed inefficaci, ma anche e soprattutto a produrre nuovi strumenti, nuove analisi, nuove parole. Provare dunque a costruire un nuovo lessico che funga non solo da supporto analitico ma anche da armamentario pratico per affrontare le nostre vite mobili.

In questo senso, come ad esempio uscire dalla litania dei “cervelli in fuga”? Che parole e linguaggi nuovi possiamo utilizzare per contrastare l’idea che basti tornare (o restare o partire) per risolvere i nostri problemi lavorativi e realizzare i nostri desideri? Il contesto nel quale ci muoviamo è un oceano sterminato di soggettività, di racconti, di esperienze. Proviamo ancora un volta a non perderci, a non farci disperdere.

Fonte: crossroads