MONDO

Tripoli, 70 giorni di lotta dei rifugiati

La clamorosa protesta è esplosa dopo i rastrellamenti del primo ottobre scorso, che hanno moltiplicato la paura e il senso di insicurezza dei rifugiati. Oltre 4mila sono finiti dietro le sbarre, in maniera arbitraria. E la protesta continua, mentre chiedono sostegno, visibilità e solidarietà

Sono ormai 70 i giorni di lotta dei rifugiati africani che chiedono di essere evacuati dalla Libia verso un qualsiasi paese sicuro. Durante il lungo accampamento davanti al Community Day Centre dell’Unhcr ci sono stati due morti, diversi feriti ed è nata una bambina. Gli attacchi di milizie e forze governative si sono ripetuti. Ha piovuto e grandinato. È arrivato il freddo. Una parte dei manifestanti si è spostata davanti alla sede principale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il centro di registrazione di Al Serraj (sempre nella capitale nordafricana).

La clamorosa protesta è esplosa dopo i rastrellamenti del primo ottobre scorso, che hanno moltiplicato la paura e il senso di insicurezza dei rifugiati. Oltre 4mila sono finiti dietro le sbarre, in maniera arbitraria.

Chi è scampato all’arresto o quelli che poi sono riusciti a fuggire dai terribili centri di detenzione hanno cercato rifugio davanti alla sede Unhcr. Sud Sudan, Somalia, Etiopia, Eritrea le nazionalità prevalenti. In queste 10 settimane nessuna organizzazione internazionale, né alcun governo democratico si è schierato al loro fianco.

La gara di solidarietà scattata in Occidente ad agosto scorso per i profughi afghani è irreale se vista da Tripoli. Le responsabilità italiane ed europee non sono minori a quelle che hanno portato al disastro nel “paese degli aquiloni”. La guerra contro Gheddafi, i soldi alle milizie per fermare le persone in fuga da conflitti e miseria, il sostegno con mezzi e formazione alla «guardia costiera» che cattura chi riesce a partire (è di questi giorni la notizia di altri corsi di addestramento organizzati dall’Italia e di un nuovo centro di coordinamento del soccorso pagato dall’Europa). 

L’Unhcr, intanto, vive con un misto di fastidio e indignazione la protesta dei rifugiati. In alcune occasioni ha denunciato episodi di violenza contro il suo staff, ma non ha mai fornito video a sostegno di queste dichiarazioni. I rifugiati hanno replicato ogni volta diffondendo sui social network le immagini delle aggressioni subite da parte di libici in divisa. L’ultima domenica scorsa.

Mercoledì 8 dicembre, poi, hanno risposto a Jean Paul Cavalieri, capo missione a Tripoli dell’Unhcr, con una manifestazione di massa. Qualche giorno prima Cavalieri aveva affermato che molti manifestanti non sono rifugiati, cioè non sono registrati presso l’organizzazione, e denunciato un clima di «violenza contro i vulnerabili», che colpisce soprattutto donne e bambini.

Dopo quelle parole centinaia di persone, tra cui moltissime donne e bambini, si sono sedute davanti all’ingresso degli uffici di Al Serraj con in mano il loro foglio di registrazione. In alto al centro, inequivocabile, la sigla di colore azzurro dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e il disegno delle mani che proteggono.

«Ci aspettavamo tanto dall’Unhcr, durante e dopo i rastrellamenti. Ci aspettavamo che dicesse al mondo che qui c’è uno stato di emergenza. Ma non l’ha mai fatto», ha detto uno dei manifestanti. Contestano la logica delle evacuazioni, quasi una concessione di cui beneficiano in pochissimi mentre tutti i rifugiati hanno diritto alla protezione. Criticano duramente i criteri di selezione con cui alcune persone salgono sui voli mentre tutte le altre rimangono a terra, nell’inferno di Tripoli. Mettono in dubbio la nozione stessa di «vulnerabilità» che apre le porte del reinsediamento a chi ha il maggior numero di problemi accumulati condannando tutti gli altri, che comunque rischiano la vita ogni giorno, alla Libia. Mercoledì uno dei manifestanti agitava un cartello: «Qual è il ruolo dell’umanitario?». «Vogliamo essere evacuati tutti. Qui la situazione per rifugiati e richiedenti asilo è fuori controllo», hanno ripetuto. 

Con l’arrivo della pandemia i trasferimenti verso Niger e Ruanda, dove i rifugiati fanno la procedura per il trasferimento negli Stati che accettano i reinsediamenti, hanno subito una sospensione per molti mesi. Sono ripresi il 4 novembre scorso: 172 persone salite su un aereo diretto in Niger. Altre 93 persone sono arrivate a Fiumicino il 25 novembre con un corridoio umanitario organizzato da Unhcr, Sant’Egidio, Federazione chiese evangeliche e Tavola valdese insieme ai ministeri Affari esteri e Cooperazione. 

Secondo l’Unhcr mille persone sono in coda per i prossimi voli. Entro la fine dell’anno dovrebbero esserci altre due partenze. Corridoi umanitari e meccanismo di reinsediamento, per ammissione della stessa organizzazione, non potranno mai rispondere alle esigenze delle migliaia di rifugiati che ogni giorno rischiano l’arresto, lo stupro, la tortura e la vita in Libia. Tantomeno ai duemila che da 70 giorni protestano a Tripoli. In totale nel paese nordafricano 42mila persone sono registrate presso l’Unhcr.

Sempre mercoledì scorso, intanto, anche l’Unione Europea è riuscito a prendere parola sulla protesta dei rifugiati. Lo ha fatto il capo delegazione Jose Sabadell con parole incredibili: «Chiediamo alle autorità libiche di assicurare la sicurezza e di proteggere le persone e i locali [dell’Unhcr, ndr]». Il rischio concreto è che il messaggio sia interpretato dai libici come un via libera alla repressione della protesta. Che è nata proprio a causa delle violenze delle autorità di Tripoli.

I rifugiati, però, non demordono. Hanno già detto in diverse occasioni di non avere più nulla da perdere e di essere pronti a lottare «fino alla fine». Il loro coraggio, la loro determinazione, la capacità organizzativa e le parole con cui descrivono la condizione in cui si sono trovati a vivere colpiscono spesso chi ha la fortuna di ascoltarli.

Recentemente hanno aperto un sito internet dove, oltre alla pagina Facebook e al profilo Twitter, si possono seguire tutti gli aggiornamenti della battaglia in corso e firmare il loro manifesto. Attraverso il sito è possibile far arrivare loro delle donazioni, che in questa situazione sono sempre più vitali. 

«Usiamo i soldi per fornire medicine nei casi di emergenza e per comprare il cibo, che scarseggia sempre. Quando riusciamo acquistiamo dei teli di plastica per chi esce dai centri di prigionia. Servono per coprirsi dalla pioggia – dice David, dal presidio – Usiamo i soldi anche per mandare avanti il presidio: comprare striscioni, cartelli, vernice. Siamo stati abbandonati da tutti, ci serve aiuto. Le persone ormai hanno difficoltà a sopravvivere». 

Immagine di copertina da Refugees in Libya