MONDO

Trasformare lo “spazio” in territorio. Intervista a Raul Zibechi

Raul Zibechi è un giornalista e analista uruguayano profondo conoscitore di tanti movimenti sociali latinoamericani. Il suo “Il paradosso zapatista” rimane uno dei libri più illuminanti per riuscire a cogliere la profonda innovazione dell’insurrezione indigena in Chiapas del 1994, soprattutto se confrontata con le guerriglie guevariste della seconda metà del ventesimo secolo.

Raul è venuto a Roma assieme alla sua compagna Pola Ferrari, per una serie di incontri con comitati e movimenti italiani e per presentare il suo ultimo prodotto editoriale “Il mondo altro in movimento”

Abbiamo raccolto alcuni delle loro riflessioni, che contengono spunti interessanti rispetto a questioni calde per comprendere la fase che si attraversa in America Latina, le lotte territoriali, il ruolo dei movimenti.

 

La parabola dei governi progressisti latinoamericani degli ultimi anni sembra fortemente crisi. Tu hai spesso criticato le scelte economiche di questi governi. Cosa cambia ora che in molti paesi, come ad esempio l’Argentina, sta tornando la destra reazionaria?

Negli ultimi 15 anni i governi progressisti latinoamericani sono rimasti economicamente estrattivisti. L’unico paese latinoamericano in cui non c’è estrattivismo è Cuba.

Tutti i governi progressisti hanno invece incrementato le politiche estrattiviste. Quasi tutti esportano petrolio grezzo e importano benzina raffinata. Ci sono forme differenti con cui si implementa questo sistema economico. In alcuni paesi l’estrattivismo vuol dire miniere, in altri si perforano mare e terra in cerca di petrolio, in altri ancora si disbosca per produrre soya.

Le differenze tra governi di sinistra e governi di destra in latinoamerica sono principalmente due. La prima è che anche se ci sono episodi di repressione questa non è così forte come quando c’è un governo di destra come ora in Argentina. La seconda differenza è che in periodi di prezzi delle materie prime elevate, i governi progressisti tendono a ridistribuire una parte del guadagno dalla vendita delle materie, con politiche sociali a favore della popolazione più debole. La qualità di vita dei ricchi non è mai intaccata, perché la redistribuzione della ricchezza non avviene tassando le fasce privilegiate, ma redistribuendo la rendita data dal surplus di materie prime prodotto.

Al tempo stesso, in 15 anni di governo progressisti non è cambiata in modo significativo la qualità della vita delle fasce più povere, hanno potuto però avere accesso ad alcuni beni di consumo.

 

Quali sono le forme di resistenza più interessanti che hai trovato nel tuo studio e nell’analisi dei movimenti sociali?

Trasformare lo spazio in un territorio è un passaggio fondamentale per ogni movimento sociale. Come si trasforma? Bisogna trasformare i legami sociali che si vivono all’interno di quello spazio. Quando uno spazio diventa un territorio esso si libera di legami sociali escludenti e gerarchici tipici della società capitalista.

Un territorio è una costruzione permanente. Il territorio deve includere diversità, non può essere un posto omogeneo e ideologico, ci devono essere persone che stanno assieme perché vogliono difenderlo anche se hanno visioni politiche diverse.

Bisogna includere un arco di dinamiche sociali e di persone. Noi lottiamo per un mondo composto da più colori. Come dicono gli zapatisti, un mondo che contenga molti mondi.

Come si può lavorare sulle differenze all’interno di un territorio per tenere assieme la varietà delle persone che lo abitano? Dobbiamo spendere più tempo per integrare la diversità, un lavoro politico che ci permetta di comprendere la logica degli altri, anche se differente dalla nostra. Bisogna iniziare accettando che l’altro possa pensare in modo diverso da me.

L’organizzazione deve essere diffusa, non gerarchica. La possibilità di integrare tutti deve avvenire in forma assembleare e circolare. La logica gerarchica è invece escludente, tipica dei vecchi capi politici e vecchi uomini del movimento. Dobbiamo al contrario puntare a una forma organizzativa interna che deve essere non capitalista, non patriarcale, aperta alla diversità.

 

L’organizzazione di “mondi altri” come fa a sovvertire uno stato di cose presenti in modo radicale e totale? In qualche modo dovremo anche sapere vincere? Almeno per avere un mondo in cui si possa lottare più dignitosamente? 

Il desiderio di una vittoria finale esiste. Bisogna tuttavia essere consapevoli che è impossibile sradicare il capitalismo. Il capitalismo è qui, tra di noi, noi lo riproduciamo tutti i giorni, perché non riprodurlo in quello che consumiamo ogni giorno è impossibile. Possiamo però controllarlo. Nel medioevo la chiesa controllava il capitalismo. E’ solo dal 1800 che si da per scontato che il capitalismo sia incontrollabile.

Il problema è che l’estrattivismo (e il capitalismo che lo sostiene) sono un sistema completamente fuori controllo che cresce con la distruzione e vive con la morte.

Braudel diceva che il capitalismo è come un rapace che quando vede una preda, la afferra per guadagnare. Quello che possiamo fare è creare una barriera contro questo rapace, e far sì che all’interno di un territorio non entri.

Se vogliamo sradicare il capitalismo in modo verticista, il rischio è quello di trasformarci in un esercito omogeneo di persone uguali. La sfida invece è difendere dal capitalismo un territorio inclusivo abitato da persone differenti, un territorio che dobbiamo costruire e poi proteggere.

Dobbiamo invece identificare il rapace, difendere collettivamente il territorio e in quel territorio costruire qualcosa di diverso.

La maggior parte delle iniziative di resistenza nella storia non sono cadute per problemi esterni ma per contraddizioni interne, conflitti interni, gestione sbagliata delle relazioni. La contraddizione interna distrugge il collettivo. Dobbiamo lavorare perché le contraddizioni diventino una potenza creativa. La contraddizione non è buona o malvagia: è la vita.

Ci sono due forme di analisi di questo problema. O analizziamo il capitale in modo passivo, e ci troviamo inevitabilmente in una situazione psichiatrica di angoscia. Oppure ci attiviamo a partire dalle cose concrete che siamo in grado di fare, e difendiamo i nostri territori, questo deve diventare la priorità.

Non fraintendetemi: è importante la conoscenza teorica, ma è fondamentale affrontare i problemi veri nel nostro territorio e da quelli produrre cambiamento.

 

Esce spesso nei tuoi libri la questione della spiritualità intesa non come un elemento legato alla religione. Puoi raccontarci cosa intendi con spiritualità? Quali sono le esperienze in cui hai visto questa spiritualità anche aldilà del mondo indigeno?

La spiritualità esiste in tutti i movimenti, mentre mancava nella logica dell’Unione Sovietica dove lo stato burocratico dominava tutto. I popoli hanno sempre avuto una spiritualità profonda, la spiritualità è parte della vita umana. La religione è una formula gerarchica per opprimere le persone, non c’entra nulla con la spiritualità. La spiritualità è invece condividere. Se veniamo qui solo a parlare del mio libro è un atto freddo. Se invece stiamo qui, ci mettiamo in riva al mare, pranziamo assieme, questo è spiritualità. Dobbiamo valorizzare nel collettivo le attività tra amici, attività di fratellanza. Perché non si può resistere assieme alla polizia se non si è fratelli o sorelle, questa è spiritualità. Non siamo uniti per quello che abbiamo letto, ma per quello che condividiamo, tutto questo è spiritualità, ed è parte integrante della lotta.

Purtroppo la spiritualità si intende o come religiosità o come new age. Quest’ultimo è un discorso molto promosso dal sistema. E’ molto importante riconoscerci per la nostra spiritualità. Per esempio, ieri in cucina c’è stata spiritualità: lavoro collettivo, musica, ballo, alimenti. La spiritualità è dentro di noi, siamo noi stessi. E’ qualcosa che in tutti i movimenti e i popoli hanno sempre vissuto. Un gruppo che fa hip hop, cucinare assieme le empanadas, condividere, questo è spiritualità, è dare un senso collettivo al nostro agire.

 

Gli zapatisti un giorno dissero che bisognava cambiare il mondo senza prendere il potere, è uno slogan valido ancora oggi?

Potere e stato sono questioni diverse. Non esistono società senza potere, ma possiamo costruire una nuova società con potere non-statale. Non vogliamo costruire una società senza potere, ma possiamo costruire un potere che obbedisca alla collettività senza burocrazia militare o civile come lo stato, che è oppressivo.

La decisione collettiva deve essere praticata nel concreto. Un collettivo non deve rimanere cristallizzato, ma stare in costante rotazione. Sindacato, chiesa, stato, sono organizzazioni gerarchiche e oppressive per come gestiscono il potere.

In Chiapas c’è un potere non statale controllato dalla comunità fondato su una rotazione permanente che non congeli il potere in un gruppo prestabilito, non è semplice ma è una sfida.

 

Come deve reagire un collettivo quando c’è violenza all’interno del collettivo? Va indicata vittima e aggressore? Si allontana la vittima o la coppia? Si incentra il dibattito solo sullo squilibrio che si è creato?

Le relazioni tra uomini e donne sono parte di questo problema, ma nel momento di crisi deve essere il collettivo che decide. In alcuni casi si allontana la persona, o ci si separa per un tempo, dipende dal movimento o dalla situazione concreta. E’ una aggressione fisica con violenza? Non tutte le persone sono in condizione di far parte del gruppo, alcune devono stare fuori (ladri di denaro collettivo, chi compie violenza sulle donne). Far parte di un collettivo è un processo perché si possa cambiare noi stessi. La tensione interna ad un gruppo è uno dei motivi della sua caduta. Alcuni movimenti in America Latina hanno stabilito un codice interno per aggressione di genere che ha funzionato.