approfondimenti

OPINIONI

Tradimenti fecondi

Quello di “tradimento” intrattiene rapporti stretti con i concetti di “traduzione” e “tradizione”… Il controverso caso della Malinche, da capro espiatorio a soggetto attivo e liberatorio, creatrice di nuove forme di meticciato

Chi è tradito, in amore o in politica, si avvilisce e rosica. Ma diversamente vanno le cose nell’urto fra culture. È a quel livello che si fa valere il vecchio adagio che equipara traduttore e traditore – in base a un’ingannevole consonanza etimologica – acquisendo nel lungo periodo un significato positivo, differente dal rilievo tragico assunto in Afghanistan e in altri Paesi “liberati” e poi abbandonati dagli Usa e alleati, dove le prime vittime, accusate di collaborazionismo, sono proprio gli interpreti reclutati dai comandi militari degli invasori.


In effetti, tradurre e interpretare – che sono operazioni dello stesso ordine – implicano sempre un certo grado di collaborazionismo con l’altro e di tradimento del simile, solo che in molti casi si tratta di processi di contaminazione che producono innovazione per alterazione e fertile mescolanza. Due prototipi, nel mondo mediterraneo e in quello mesoamericano, sono rispettivamente la falsafa islamica e la figura emblematica quanto controversa della Malinche nella conquista spagnola del Messico.


Quanto il primo caso si svolge al massimo livello di astrazione e di confronto teologico e speculativo, tanto il secondo porta in primo piano il sangue e la carne, la mescolanza dei popoli oltre che delle religioni e delle idee. Protagonista del primo sono intellettuali maschi, del secondo una donna, reale e allegorica.

Nell’area siriano-mesopotamica strappata dagli arabi ai bizantini e ai sassanidi, già i monaci di rito giacobita e nestoriano avevano cominciato a tradurre in siriaco i principali testi filosofici di Aristotele, Platone e dei neoplatonici e i conquistatori omayyadi si erano affrettati a farli tradurre a loro volta in arabo.

(da commons.wikimedia.org)

Non senza esitazioni, come dimostra il dibattito di principio sulla traducibilità delle lingue naturali, convocato a Bagdad nell’anno 938 dal visir Ibn al-Furāt, cui avevano partecipato il cristiano Abū Bišr Mattā ibn Yūnus, difensore del carattere universale della filosofia e specialmente della logica, grammatica universale del pensiero, contro il musulmano Abū Saʻīd al-Sīrāfī, accanito propugnatore del valore epistemico della grammatica di ogni singola lingua, in particolare di quella sacra araba in cui era stato dettato l’increato Corano.

Al-Fārābī, che di Yūnus era stato allievo, riprenderà il primo orientamento con raffinate analisi sulla creazione di un repertorio lessicale filosofico in grado di rendere le categorie aristoteliche e soprattutto imposta una teoria della translatio philosophiae, secondo cui la filosofía greca, offuscata ad Alessandria dall’oscurantisti parabolani cristiani (ricordate il linciaggio di Ipazia!) ed espulsa da Costantinopoli da Giustiniano, sarebbe emigrata ad Antiochia e Ḥarrān e infine a Bagdad, trasformandosi in falsafa. L’Islam si presentava come erede legittimo del mondo antico.


In Al-Fārābī e più tardi in ibn Rushd (Averroè) – entrambi ignari di greco e di siriaco – la volontà “illuministica” di valorizzazione della verità logica e naturale del pensiero e della comprensibilità universale del mondo si oppone a ogni preminenza di rivelazioni teologiche e di idiotismo linguistico (che peraltro anticipa le argomentazioni del relativismo anti-sostanzialistico nietzschiano, per cui la costruzione di verità è una razionalizzazione strumentali utile alla vita sulla base di strutture grammaticali arbitrarie che determinano per ogni lingua il regime di interpretazione dei “fatti”).

L’aspetto più interessante, peraltro, di quel processo di traduzione ininterrotta che quanto l’effetto di contaminazione e innovazione che si produce (ed è il secondo aspetto) nei processi di traduzione, soprattutto se tracimanti la correttezza filologica e confinanti con i meccanismi di metonimia e metafora. In generale la falsafa introduce in una cultura monoteistica e creazionistica i concetti dissonanti di eternità del mondo e della specie umana. Sostituisce alla creazione volontaria l’emanazione o un processo di creazione continua, suggerendo altresì ipotesi panteistiche e mettendo in dubbio l’immortalità individuale dell’anima.

Tutti temi che diverranno ancor più deflagranti quando questo materiale, nel XIII secolo, con un processo traduttivo inverso, migrerà dall’arabo all’ebraico e infine al latino, influendo profondamente sulla Scolastica e dando vita al cosiddetto “averroismo latino” o aristotelismo radicale. Facciamo solo due esempi di contaminazione per traduzione e combinazione.

Associando direttamente la facoltà dell’immaginazione all’intelletto agente (entrambe prese dal repertorio aristotelico, dove però non avevano alcun rapporto, essendo la prima una fase intermedia fra sensazione e speculazione razionale e il secondo l’elemento attualizzante dell’intelletto razionale potenziale) Al-Fārābī spiega la profezia e la leadership carismatica sia politica che religiosa (Alessandro Magno e Maometto) con cinque secolo di anticipo sul Trattato teologico-politico e otto su Max Weber, mentre Averroè, forzando le lettura del De anima aristotelico, crea un nuovo “personaggio filosofico”, l’intelletto materiale unico per tutta la specie umana, capostipite di ogni alternativa alla soggettività identitaria, da Spinoza a Marx e Simondon.

E nell’ultimo passaggio al latino una terza figura: la “doppia verità” che destabilizza la tradizione teologica cristiana. Del resto, tradimento (da “tradere”), se non ha rapporto effettivo con traduzione (da “trans-ducere), ce l’ha e strettissimo con tradizione

Qualche parola in più va invece spesa per il caso messicano, quasi sconosciuto anche a livelli colti nell’angusto orizzonte eurocentrico.

Nel 1519 Hernán Cortés sbarca presso l’odierna Vera Cruz e inizia a occupare il Messico centrale, facendo leva sulle contese dei popoli di lingua maya e nahuatl e sull’insofferenza nei confronti del potere azteco che dal XIII secolo esercitava il proprio comando dalla capitale Tenochtitlán. Malinalli aka Malintzin, più tardi La Malinche o Doña Marina, era una fanciulla nobile, istruita e padrone di vari dialetti maya e nahuatl, che la madre, dopo le seconde nozze, aveva venduto come schiava e alla fine era sta “regalata” a Cortés, che ben presto si rende conto della straordinaria fortuna di avere un’interprete eccellente e per di più dotata di grande abilità diplomatica.

(da commons.wikimedia.org)

All’inizio lavora in coppia con Gerónimo de Aguilar, superstite di una precedente spedizione, che parlava maya, poi Malintzin impara rapidamente il castigliano e può servire da interprete unica di fiducia del Capo, facendo da interfaccia fra i conquistatori e le varie popolazioni indigene e anche direttamente con i sovrani Moctezuma e Cuahauhtémoc, cui spiega i dogmi della religione cristiana, cui era stata convertita, e con cui tratta le condizioni della resa.

Il Codice fiorentino, che registra testimonianze indigene, ben più dei resoconti spagnoli che insistono sulla sua storia d’amore con Cortés, ne rammenta e raffigura in disegni l’indubbia autorevolezza e il ruolo di mediazione culturale e politica – doti assai insolite per la cultura dei colonizzati come dei colonizzatori.

Almeno due volte salva la vita a Cortés rivelando complotti aztechi e rendendosi così corresponsabile del massacro di Cholula. Ebbe un figlio da Cortés, che, all’arrivo della moglie da Cuba, la cedette a un suo luogotenente rendendola però libera e legittimando il piccolo Martín, primo meticcio “ufficiale” della storia messicana.


Nei momenti salienti della costituzione del Messico moderno e della sua emancipazione dal dominio straniero – l’indipendenza nel 1822 e la Rivoluzione del 1910 – le fiammate di nazionalismo portarono a leggere negativamente la figura della Malinche e addirittura a coniare il termine “malinchismo“, nel senso di preferenza per lo straniero a danno della propria patria. In un testo classico e controverso di Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, 1950) il quarto capitolo si intitola “Los Hijos de la Malinche” e mostra come il trauma dell’identità messicana consista nel simultaneo rigetto della storia indigena ancestrale e del passato coloniale, della passività della madre chingada (aperta e violata) e della violenza del padre chingón.

La Malinche diviene così il capro espiatorio, uno dei due termini in cui viene rappresentata la femminilità in ambito patriarcale: la perfida puttana vs la Vergine di Guadalupe. I messicani sono i figli della puttana, dello stupro e allo stesso tempo la condizione coloniale interiorizzata è identificata con quella della donna, mentre se ne staglia, a contrasto, il machismo eroico del ribelle o del dittatore. La Malinche è la controfigura inevitabile del macho: fra Eva e la Vergine, i messicani risultano propriamente orfani.


Una risposta contemporanea l’aveva data Frida Kahlo, che frequentemente nelle lettere si firma “La Malinche” e come tale si raffigura in numerosi autoritratti, scostandosi dalle più ambigue raffigurazioni dei murales del marito Diego Rivera e di Orozco.

Oltre al suo amore per la tradizione preispanica, Frida si identifica proprio con la Malinche spaccata e violata, chingada, proprio nell’assunzione – materiale e simbolica – dell’orrenda ferita con le cui conseguenze lotterà per tutta la vita. Nella novella di Laura Esquivel a lei intitolata (2006, in italiano La voce dell’acqua, Garzanti 2007) alla Malinche è restituito il doppio ruolo di traduttrice e di madre del popolo meticcio, che vuole che i suoi figli crescano in entrambi gli idiomi.

A differenza dei conquistadores e del loro potere fallico di chingón, la chingada ha la forza magica del linguaggio, gestisce i rapporti politici mediante la comunicazione e fa di questa la fonte del meticciato: è soggetto attivo e consuma la sua vendetta su Monteczuma al punto che, come riporta il Codice Fiorentino, gli indigeni chiamano Cortés “el señor Malinche”. Simbolo di matriarcato, la Malinche invita la sua progenie a prendere la parola nello spazio fra le due lingue, prefigurando un universo multiculturale.

(particolare dal Codice fiorentino)


Questa riabilitazione viene ancora più accentuata nella letteratura femminista e queer chicana che prende le distanze dal machismo del nazionalismo chicano e si confronta con la doppia presenza dell’eredità coloniale e della convivenza subalterna con gli Stati Uniti.

Il concetto di ibridazione riguarda non più solo lingua e cultura, ma si estende al genere, facendosi carico della lotta contro ogni forma di patriarcato, anche nazionale, e di binarietà rigida. La Malinche traduttrice e puttana traditrice diventa ora l’archetipo della fluidità di genere e di un’originale intersezione fra lesbismo bianco e rivendicazioni delle Raza women.

Traduttori maschi e femmine, tradimenti culturali e nazionali, meticciato filosofico e razziale fluidificazione delle identità. Ci sono molte cose in comune fra Bagdad e Tenochtitlán, fra al-Andalus e gli altipiani mesoamericani. E non abbiano affatto toccato la traduzione creativa fra pensiero e prassi, il contagio dei movimenti politici in senso gramsciano, le rivoluzioni tradite e passive…

Immagine di copertina: Diego Rivera (foto di Augusto Illuminati)