MONDO

Terrorismo sull’informazione

Si tratta dell’ultimo capitolo di una storia già nota. Uno scontro di poteri in corso in Turchia da quando due ex alleati sono diventati acerrimi nemici. Fra gli arrestati eccellenti dell’impressionante operazione di polizia messa in campo dal governo turco nei confronti di giornalisti e rappresentanti dei media , ci sono Ekrem Dumanlı, il direttore di Zaman, uno dei principali quotidiani d’opposizione, e Hidayet Karaca, presidente del gruppo mediatico molto popolare Samanyolu.

Entrambi gli importanti mezzi di informazione sono notoriamente vicini al movimento politico fondato da Fetullah Gulen, il potente Imam che dal suo esilio negli Usa si contende con il Presidente Erdoǧan il consenso dell’elettorato religioso. Dopo, aver riportato INSIEME in auge il progetto di un Islam politico, divergenze di idee e parità di ambizione hanno fatto si che fra i due iniziasse una guerra di bassa intensità esplosa con lo scandalo corruzione che travolse il Governo dell’allora premier Erdoǧan, che si difese con la teoria del complotto di stato ordito proprio da Gulen, il cui movimento, oltre a fare capo a una rete di scuole religiose in tutto il Medioriente, influenza porzioni della magistratura e della polizia turca. Il trionfo elettorale di Erdoǧan alle successive amministrative e la sua elezione a presidente mostrarono non tanto l’inconsistenza delle accuse quanto la maggiore capacità di creare consenso rispetto a quella di un leader religioso che per quanto potente e carismatico è confinato da anni in una sorta di autoesilio negli Stati Uniti. Ma evidentemente per Erdoǧan la guerra a quello che lui esplicitamente chiama “lo stato nello stato” e più implicitamente a quello che è il suo unico avversario in campo politico-religioso non è finita. Per tutte le 31 persone ora in carcere l’accusa, secondo il procuratore capo di Istanbul, è di aver messo in piedi un’organizzazione terroristica e di aver diffuso falsità e calunnie. Molti degli arrestati sono altri giornalisti, oltre all’ex capo dell’antiterrorismo di Istanbul.

Ma c’è anche un’altra storia, più antica: quella di un paese che conserva brutte abitudini antidemocratiche come quella di prendersela con l’informazione. Secondo il CPI (Comitato Internazionale per la protezione dei Giornalisti), la Turchia è uno dei paesi al mondo con il maggiore numero di giornalisti in carcere; almeno 40 al primo dicembre 2013, più che in Iran, Cina o Eritrea. A consentire un dato cosi rilevante per un paese democratico che garantisce la libertà di stampa nella sua Costituzione, le leggi antiterrorismo del 2006, che puniscono chiunque si renda responsabile di fare propaganda a un’organizzazione illegale. Spesso i giornalisti vengono arrestati solo perché stanno facendo il loro lavoro, cioè scrivere quanto riferiscono i membri di queste organizzazioni illegali, e i giudici condannano come propaganda ciò che è un servizio alla comunità. Quindi carcere, spesso torture e poi strategia del processo vuoto e infinito, come quello inflitto a Hrant Dink, assassinato nel 2007 dopo una lunga persecuzione giudiziaria scaturita da dichiarazioni e articoli sul genocidio degli armeni, o quello a carico di Pınar Selek, sociologa e attivista per i diritti umani, accusata di terrorismo in seguito ad una ricerca da lei effettuata sul PKK ( Partito Curdo dei Lavoratori), organizzazione considerata illegale. La sua vicenda giudiziaria dura dal 1998: assolta tre volte, rinviata a giudizio, condannata all’ergastolo la quarta volta e riprocessata per la quinta; la prossima udienza avverrà fra pochi giorni, il 19 dicembre. Da 5 anni si trova in esilio in Francia.

E che dire di alcuni aspetti della recente riforma della giustizia, come quello che introduce il “ragionevole sospetto” al posto del “valido sospetto basato su prove concrete” per autorizzare le perquisizioni da parte della polizia? E ce le ricordiamo le chiusure di Twitter e Youtube nei giorni dello scandalo e le restrizioni durante la campagna elettorale.

Sono molti i modi con cui lo Stato turco, da sempre, si impegna per sopprimere le voci fuori dal coro, e quello di Erdoǧan, nonostante le sue velleità democratiche ed europeiste, non fa eccezione.