EUROPA

Svizzera, se le destre vincono il referendum contro “l’immigrazione di massa”

“Di nuovo, in Europa la xenofobia è alimentata da questioni di natura sociale ed economica e di nuovo il nemico da colpire è colui che è chiamato a rappresentare, a costo della propria sussistenza e della propria dignità, il fallimento delle politiche economiche liberiste degli ultimi decenni”

«La Svizzera dice di no all’immigrazione di massa, bravi!»: lo scrive su twitter la leader del Front National francese, Marine Le Pen. «Bene. Presto un referendum anche in Italia promosso dalla Lega». Così il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, commenta l’esito del referendum. (Il secoloXIX, 9 febbraio 2014)

Gli svizzeri hanno approvato il referendum “contro l’immigrazione di massa” promosso dal partito di destra antieuropeista dell’Unione democratica di centro (Udc/Svp) e dalla Lega Ticinese: i sì hanno raggiunto il 50,3%. L’iniziativa referendaria chiede la reintroduzione di tetti massimi e contingenti per l’immigrazione di stranieri in territorio svizzero, compresi i transfrontalieri (60 mila in tutto, soprattutto italiani). A fondamento del referendum l’insofferenza dilagata negli ultimi anni, nei confronti degli “effetti collaterali” dell’afflusso di manodopera europea – accentuata dalla crisi economica – come il dumping salariale [cioè la tendenza a comprimere i salari e a peggiorare le condizioni lavorative], la pressione sugli impieghi, l’aumento degli affitti, i trasporti sovraffollati, la carenza di strutture.

Di nuovo, in Europa la xenofobia è alimentata da questioni di natura sociale ed economica e di nuovo il nemico da colpire è colui che è chiamato a rappresentare, a costo della propria sussistenza e della propria dignità, il fallimento delle politiche economiche liberiste degli ultimi decenni. Di nuovo, il confine, la frontiera, il divieto di circolazione vengono utilizzati come dispositivi assoluti di inclusione ed esclusione.

In Italia siamo avvezzi alle esternazioni della Lega e al trionfo delle dicerie populiste “i migranti ci rubano il lavoro” e, purtroppo, siamo anche testimoni della capacità di una definizione allarmistica di diventare oggettiva, e quindi dominante. Proprio per questo dovremmo guardare questi risultati elettorali “di confine” che coinvolgono molti lavoratori italiani in terra straniera con particolare interesse.

Nel nostro paese la politica della competitività sulla contrazione dei costi (e dei diritti), inscindibile dalla precarizzazione della nuova forza lavoro giovane e immigrata, non solo non produce crescita economica, ma ha provocato un evidente espansione del bacino di lavoro precario quando non irregolare o fortemente sfruttato in cui sono incappati, ovviamente, i lavoratori immigrati. La possibilità di accedere a forza lavoro a basso costo e “sommersa” ha infatti enfatizzato e accresciuto la concorrenza sleale tra le imprese, l’evasione fiscale e contributiva, ma ha anche raggiunto un risultato più drammaticamente rilevante: ha inasprito la cosiddetta “guerra tra poveri”, confondendo i responsabili delle condizioni materiali soggettive e generando fenomeni allarmanti. Tra tutti basta citare il “movimento dei forconi” e la sua pericolosa deriva populista e reazionaria.

Le politiche migratorie italiane dell’ultimo ventennio, dalla Turco Napolitano alla legge Bossi Fini, hanno determinato all’interno di un mercato del lavoro permantemente in crisi, condizioni di lavoro peggiori, segregazione occupazionale, forti differenziali retributivi e dunque anche in Italia un pericoloso effetto dumping salariale e sociale. Tali politiche, completamente dipendenti dalle direttive europee (e/o dalle carenze in materia di asilo e accoglienza), sono l’evidenza del fallimento del “divieto di entrata”. Questo ha prodotto soltanto un complesso di meccanismi che selezionano e distinguono lo status giuridico dei migranti che comunque continuano a entrare nello spazio Schengen, alla faccia di proibizioni e divieti. Migranti che attraverso questo sistema sono diventati merce di scambio nei rapporti di politica internazionale e di negoziazione economica. Come più volte è stato affermato in passato, in barba ai confini e alle ipocrisie istituzionali, i migranti hanno costituito “le cavie” da laboratorio per la messa a punto di dispositivi che non guardano più al colore della pelle nel momento in cui è in gioco l’espulsione dal mercato del lavoro o l’accesso a diritti e servizi.

L’esito della consultazione svizzera rischia sì di mettere in pericolo gli accordi di libera circolazione con l’Unione Europea, la maggior parte dei quali dovranno verosimilmente essere rinegoziati, ma in gioco c’è molto di più. Basta guardare al quadro alquanto eterogeneo descritto dagli ultimi dati Eurostat sull’Immigrazione Europea: un quadro che afferma la coesistenza di nuovi scenari accanto alla persistenza di quelli vecchi attraverso la contrapposizione tra le crescenti migrazioni interne (giovani e meno giovani) e il consolidamento di quelle più tradizionali dai paesi terzi.

Come sempre, tocca ai migranti, ai movimenti, ai lavoratori precari che pagano quotidianamente le conseguenze della crisi economica, affermare un diritto di circolazione e di movimento che non sia risultato di “due pesi e due misure”, di confini interni o esterni, di selezione all’origine della forza lavoro, quanto piuttosto del diritto universale di tutti e tutte a transitare e risiedere nello spazio europeo con uguali diritti.

In Italia, diventa sempre più urgente la chiusura di tutti i Centri di Identificazione ed Espulsione e l’abolizione della Legge Bossi Fini e del “pacchetto sicurezza”, voluto da un precedente ministro degli Interni che, non a caso, anima il partito che guarda la Svizzera di oggi ipotizzando un referendum analogo in Italia.