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Short Theatre, manifesti politici fra corpo e parola

“Hacer Noche” e “Manifesto Transpofagico” sono due performance che, attraverso strumenti quasi opposti, investigano le contraddizioni sociali del presente e provano a vedere nel teatro uno spazio di consapevolezza politica

Un parcheggio al termine della notte

Non sempre i manifesti politici hanno un carattere assertivo, o vengono urlati alla folla. Talvolta, possono prendere un taglio maggiormente introspettivo, all’apparenza più sommesso e sfumato. È il caso di Hacer Noche della drammaturga spagnola Bárbara Bañuelos, in prima nazionale lo scorso venerdì al festival capitolino di Short Theatre: uno spettacolo in cui gli elementi di maggiore impatto performativo vengono oltremodo “abbassati” e de-potenziati, a favore di una messa in scena che assume i tratti della conversazione informale, della ciarla, quasi di una seduta (para)psicanalitica. Attorniati da un cerchio di sedie e illuminati flebilmente da alcuni led che penzolano dal soffitto, al centro del palco ci sono la stessa Bañuelos e Carles Albert Gasulla, un guardiano di parcheggio che soffre di una depressione diagnosticata e che l’artista iberica ha incontrato nel corso di un lavoro precedente. Carles parla con una cadenza affrettata ma espressiva, lo strascico delle parole lascia intravvedere una personalità sfaccettata e complessa, o comunque sembra rimandare a un qualche aspetto irrisolto del proprio carattere: non “recita” nel senso classico del termine e, in qualche modo, si schernisce dal pubblico, ma proprio per questo si mostra a un grado più profondo di sincerità. Esordisce leggendo l’incipit di Viaggio al termine della notte di Céline.

La storia di Hacer Noche è, né più né meno, la storia di questo incontro. Ora Carles si auto-racconta da solo, ora lo fa in un dialogo serrato con Bañuelos – in cui anche la drammaturga condivide alcuni, piccoli, frammenti che riguardano la sua vita e il suo percorso artistico – ora vengono riprodotti degli stralci di lettura dal diario che scriveva durante le notti di guardia al parcheggio. In mezzo, ci sono anche ampi e variegati riferimenti teorico-letterari, dal David Graeber di Bullshit Jobs, dal Libro dell’inquietudine di Pessoa alle critiche all’evoluzionismo di Kropotkin… Perché la storia di Carles, e la storia del suo incontro con la sensibilità di Bañuelos, è a tutti gli effetti particolare e al tempo stesso paradigmatica: parla di una discrepanza fra le proprie aspirazioni e le proprie capacità e le possibilità offerte da un mondo del lavoro sempre più schizofrenico (Carles è laureato in filologia, parla cinque lingue e, inizialmente, il suo tentativo fu quello di trovare impiego come interprete), parla del precariato come dimensione sia economica che esistenziale (e di come, in effetti, sia ben diverso il precariato di chi lo subisce senza reali alternative e quello di chi, come ammette Bañuelos stessa, se lo auto-infligge per perseguire la propria piena realizzazione creativa), del neoliberismo e di come la corsa alla competizione globale produca guerre sociali e guerre di eserciti. La sovrapposizione è dunque fin troppo esplicita: proprio come il romanzo di Céline, lo spettacolo Hacer Noche rappresenta un “viaggio al termine della notte”, uno scavo chirurgico e doloroso nella condizione umana degli ultimi (e dei penultimi), aggiornato alla contemporaneità.

Ovviamente siamo su toni e dentro un registro diametralmente opposti ai chiaroscuri violenti del libro. Anzi, l’intelligenza dello spettacolo sta forse proprio nell’estrema e ricercata colloquialità del suo sviluppo, nell’evitare forme sceniche di eccessiva drammatizzazione o di mimetismo tragico senza rinunciare però a ricercare l’universalità della vicenda narrata, a proporre delle riflessioni generali, “di sistema”, e non solo specifiche. Più prosaicamente, dunque, la notte di Hacer Noche non è quella della Prima Guerra Mondiale ma quella anonima e apparentemente tranquilla di un turno di guardia in un parcheggio, il mondo raccontato nello spettacolo non è la Francia o l’Europa lacerate dall’odio o da diseguaglianze profonde ma il mondo interiore dei protagonisti e della loro quotidiana fatica. Similmente, il dato biografico, l’esposizione meta-teatrale, le suggestioni letterarie e politiche, le riflessioni più trasognate e le interpretazioni più teoriche non si contraddicono e non deflagrano l’una sopra l’altra, ma sono come ordinatamente impilate e circoscritte, distinte ma simili come stessimo risalendo i diversi piani di un garage coperto. Ma appunto – sembra dirci Hacer Noche – non è proprio nella normalità e nei rapporti della vita di tutti i giorni che si annidano i segni più evidenti del potere, e dell’alienazione?

In questo senso, allora, lo spettacolo di Bañuelos è un “manifesto sommesso”, un grido potenziale di ribellione che è, però, ancora tutta da inventare. Così come – viene da chiedersi – è ancora forse tutta da inventare una forma teatrale che dal lacerto biografico, dalla testimonianza quasi interamente imperniata sulla parole, operi anche un suo ribaltamento visivo, un’ipotetica catarsi.

Foto di @unfotomatòn

Fra condanna e salvezza

Parziale risposta a un tale interrogativo la offre Manifesto Transpofagico di Renata Carvalho (altro debutto italiano). Questa volta il carattere squisitamente politico e assertivo della performance è già esplicitamente segnalato nel titolo, così come nell’inizio sulla scena: Carvalho, travesti brasiliana e attivista per i diritti trans, è in piedi sul palco (quasi) completamente nuda. Le luci le illuminano il corpo, lasciando in ombra il volto. La forte intensità dei fari rende evidente i dettagli, mette in risalto muscoli e costato, accentua ancora di più le forme del seno. Il corpo di Carvalho, ma potremmo dire il/i corpo/i trans e travesti in generale, sono oggetto e soggetto del testo: una sorta di salmodia punk, un rap di confessione e denuncia, di racconto e di rabbia, di ironia e sofferenza. Anche in questo caso, si parte dal personale ma si arriva senza di soluzione di continuità al collettivo: la protagonista parla della propria storia, della sua transizione e del rifiuto della famiglia come della storia della comunità trans e travesti in Brasile, dalla violenza subita durante la dittatura militare fino all’iconicizzazione pop rappresentata dal carnevale. È un corpo prorompente che si mostra con orgoglio, proprio perché il resto della società lo vuole guardare morbosamente. È un corpo che è non ha vergogna di sé, proprio perché la gente spesso ne ha timore e il potere lo vede come un pericolo.

Ma al contempo non è un corpo che basta a se stesso, non dal punto di vista teatrale: Manifesto Transpofagico mescola infatti con equilibrio parola e movimento, ritmo musicale e gioco d’illuminotecnica in cui spesso è il torrenziale flusso del racconto che va a controbilanciare i momenti di stasi performativa e, viceversa, un maggiore dinamismo fisico a sopperire le pause della narrazione. Senza sperimentalismi o azzardi, ma con un approccio formale libero e felicemente intuitivo nel maneggiare i diversi elementi della messa in scena. Ne esce allora un autoritratto potente e sfaccettato, anche se dato il carattere anche “di protesta” dello spettacolo a tutta prima potrebbe sembrare il contrario, che riesce a parlare di forza e orgoglio ma anche di fragilità e di paura, che si appoggia sì a una biografia specifica e alla vita “ai margini” della protagonista ma che li trascende alla ricerca di un dialogo con l’inevitabilità della finzione scenica. È allora un corpo ambivalente quello portato sul palco da Manifesto Transpofagico, che può essere al tempo stesso motivo di condanna e veicolo di salvezza.

Finito il “manifesto”, la performance si interrompe un attimo per prendere poi una piega diversa: Carvalho esce dal personaggio, chiama sul palco un’interprete e si aggira fra il pubblico dando vita a un botta e risposta in cui vengono esplorati conoscenze, esperienze e pregiudizi rispetto alla realtà delle comunità trans, in Italia. Insomma, pare dirci lo spettacolo, dipende (anche) da noi dirimere quell’ambivalenza.