CULT

Short Theatre, ambigui “scarti” del gesto

Un racconto di “Crangon Crangon” e “Mourn Baby Mourn”, performance andate in scena durante la prima giornate del festival capitolino che fanno dell’ambiguità la propria cifra caratteristica

A passo di gambero

Qual è l’inverso dell’espressività? Durante la prima giornata del festival capitolino Short Theatre se l’è chiesto la coreografa Daria Greco con Crangon Crangon (debutto nazionale), una performance per sola danzatrice (Valentina Sansone) compatta e lineare, molto ben calcolata nel suo sviluppo.

Vestita di un costume di scena che volutamente richiama il carapace dei crostacei (“crangon crangon” è infatti il nome scientifico del gambero grigio), la performer si muove nello spazio procedendo all’indietro. In posizione eretta, “incalza” il palco con una camminata misurata, benché al rovescio, mentre una musica, anch’essa apparentemente ri-campionata al contrario, crea un senso di sospensione e straniamento.

Non c’è tensione muscolare nei movimenti della danzatrice, ma una composta rigidità che restituisce l’impressione di pieno controllo, di una consapevolezza sovrana – ancorché non esibita – del gesto. Il viso, che mantiene per tutta la durata un’espressione neutra e a tratti “distante”, rotea meccanicamente a destra e sinistra come a esplorare con lo sguardo l’ambiente attorno.

Ma, appunto, se  lo svolgersi al contrario di tutta la coreografia ci mette di fronte a qualcosa di perturbante e “alieno” dal senso comune, c’è allo stesso tempo la ricerca di una fluidità del disegno complessivo che attutisce gli effetti di questo ribaltamento. Una sorta di “contro-naturalezza” della figura umana che prende mano a mano consapevolezza di sé. Si tratta d’altronde – come dichiarato dalla stessa coreografa Daria Greco – dell’idea sottostante alla performance: il tentativo cioè di mettere in scena una «contro-condotta» (il muoversi all’indietro) nella convinzione che questo possa aprire degli «spazi di verità».

In effetti, il momento di verità che sembra farsi strada nell’arco dello spettacolo è rappresentato da quell’“elastico percettivo” fra abitudine e dis-abitudine, fra il pieno dominio dei propri gesti da parte della danzatrice e un’atmosfera che, senza eccessi, mantiene una natura indefinita, a tratti vacillante e mai pienamente compiuta.

La figura impersonata da Valentina Sansone assume così anch’essa un’“identità ancipite”, al guado tra il farsi piena incarnazione di un’entità animalesca in cerca della propria corporeità e il mettersi a completo servizio del disegno coreografico, parte neutra e meccanica di un ingranaggio più ampio.

Ed è la già menzionata linearità di questo ingranaggio, vale a dire dello sviluppo dello spettacolo, che contribuisce a mantenere questo aspetto ambiguo e indefinito: a parte alcuni improvvisi e fugaci “squarci” (giocati soprattutto sulla musica e sulle luci), lo spettacolo si risolve in una lunga e costante camminata, che traccia linee decise sul palco e compone invisibili traiettorie nello spazio. Non c’è, dunque, uno “sporgersi più in là” della narrazione, uno scarto rispetto alle premesse di fondo.

C’è, al contrario, una coerenza rigorosa e insistita che corrisponde anche alla volontà di creare un anti-ritmo, di sostare in un altrove della grammatica gestuale. Siamo dunque dentro a un ribaltamento dell’espressività corporea, come si diceva in apertura, dei suoi usuali canoni? No, siamo forse più di fronte a una sua sottile flessione, a una potenziale incrinatura della visione che ripercorre – in punta di piedi e “a passo di gambero” – le ragioni del proprio iniziale spaesamento.       

Katerina Andreou_Mourn Baby Mourn, Foto di Hélène Robert

Vaporwave svogliatezza

In una simile atmosfera sospesa, ma molto più caratterizzata, si svolge anche Mourn Baby Mourn di Katerina Andreou, coreografa greca di stanza ad Atene. La scena iniziale si presenta con alcuni mattoni riversi a terra e un muro appena iniziato, mentre multicolori luci al neon delimitano lo spazio dell’azione. Sembrerebbe quasi una performance in tre atti, talmente netta è infatti la scansione dello spettacolo in diversi momenti, che ora vedono la performer semplicemente impilare i mattoni uno sopra l’altro, ora danzare liberamente quando la musica prende il sopravvento e infine “appollaiarsi” sul muro completato e riflettere in una posa introspettiva.

Ma la realtà è che non c’è un vero sviluppo, né narrativo né coreografico. Anzi, per come viene affermato esplicitamente a un certo punto, siamo dentro al «bug di un videogioco», in un cortocircuito della mente.

Stando infatti alla presentazione dello spettacolo, Mourn Baby Mourn è un «manifesto intimo», che intende indagare lo spazio simbolico del lutto. Non tanto il lutto privato di una singola persona o di un singolo personaggio, quanto – verrebbe da dire – il lutto come “dimensione metafisica”, e proprio per questo sotterranea, che investe il presente delle società (occidentali?).           

Pare esserci, infatti, nella performance una precisa torsione generazionale: Katerina Andreou fa capolino sulla scena indossando vestiti che potremmo definire casual-adolescenziali. Pantaloncini corti, maglietta larga e scarpe da ginnastica.

Sul muro di mattoncini, scorrono parole video-proiettate: raccontano di disagio, di voglia un po’ smorzata di urlare la propria rabbia, di frasi sbiancicate fra linguaggio da social e idioletto esistenziale. Ma siamo assolutamente lontani dal realismo, o dalla cronaca.

Il tutto, anzi e come accennato, assume un tono metafisico e rarefatto: le musiche e le immagini di sfondo ricreate a computer hanno un sapore decisamente vaporwave. E lo si esplicita: «Sono incastonata in qualche parte negli anni ‘90», recita il testo.

I movimenti di Andreou, in qualche modo, sono coerenti con questa atmosfera di (s)fondo: nel momento in cui cessano le parole video-proiettate e la musica sale, si abbandona in una danza che sembra quasi improvvisata, lasciva, agitando le esili gambe e braccia a un ritmo che pare essere presente solo nella sua testa. Ed è infatti questo uno degli elementi di maggiore fascino dell’opera: nella sua espressività gestuale, Katerina Andreou prova ad abitare un fuori della (o dalla?) coreografia, che si scardina volutamente dalla musica che accompagna il movimento.

Non è un controtempo o una sincope, ma proprio un’autonomia – calcolatamente spontanea – da quello che sembra suggerire l’incedere sonoro che intanto inonda il palco.

Il ritmo, più che un presupposto del movimento, pare invece costituirne un ostacolo: quando la musica si riduce a puro battito di bassi sparati nelle casse e finalmente i gesti della performer ricalcano l’incedere del fraseggio, infatti, il suo movimento si fa piano piano rarefatto, diminuisce, si riduce a spasmo, diventa stasi.

È questa discrepanza fra danza e ritmo, fra movimento e pensiero a fare da architrave quasi “ideologica” allo spettacolo, o comunque all’identità che vuole mettere in scena: un personaggio, o ancora meglio un/a performer delle proprie idiosincrasie, che maschera con una certa ostentata (e al limite dell’autoironia) spocchia gestuale una fragilità di fondo, l’incapacità di corrispondere pienamente a quel che accade attorno (sia questo l’incedere musicale o un’aspettativa coreografica). Di fatto, un atto di ribellione. Forse velleitario, forse prevedibile, ma che comunque ambisce a essere un “taglio nella tela”.                

Foto di copertina per gentile concessione di Short Theatre