ROMA

San Giuseppe dei Falegnami. Rovine e disastri romani

Quanto un tetto crollato non è solo un disgraziato accidente, ma ci racconta della città e della gestione e tutela dei beni culturali in Italia, ne è la perfetta allegoria

Le distruzioni e i crolli nelle città sono tradizionalmente considerati come un evidente segno di vulnerabilità degli uomini e delle loro costruzioni di fronte alla potenza degli eventi. Le rovine e i disastri sono chiaro simbolo e segno del rapporto ambivalente tra un passato da metabolizzare e conservare e un presente in divenire.

Benjamin vedeva nelle rovine l’allegoria del pensiero stesso e affermava che le allegorie fossero nel regno del pensiero ciò che le rovine sono nel regno delle cose. Mai come in questo caso l’allegoria risulta più esplicita e chiara, la sua valenza simbolica è così evidente che ci arriva dritta come un pugno in faccia, con il rumore della deflagrazione di un solaio di fine ‘500.

Il tetto crollato nella chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al foro Romano ci offre numerose chiavi di lettura e ci apre voragini intere sul mondo dei beni culturali in Italia.

La chiesa fu costruita nel 1597 sui resti del Carcere Mamertino, il carcere di stato di Roma antica, e conserva all’interno numerose opere di pregio come una natività di Carlo Maratta, mentre il soffitto distrutto era in legno a cassettoni laminato d’oro. Insomma, un altro dei numerosi gioielli ignorati nella città. La chiesa si trova infatti nel cuore di Roma antica, nel centro nevralgico del mondo romano, tra il Campidoglio e l’area politica del foro Romano, oggi diventato il crocevia del turismo di massa nella Capitale. Il crollo è avvenuto quindi a ridosso del turbinio quotidiano dei turisti, in uno dei luoghi più conosciuti e attraversati del mondo, di cui fino a qualche giorno fa San Giuseppe dei Falegnami faceva solo da quinta silenziosa e quasi sconosciuta. Ci vuole un disastro per riattivare la conoscenza e la curiosità e ieri, mentre avveniva un altro crollo là vicino al Campidoglio, numerosi erano i turisti intorno alla chiesa, un altro dei mille paradossi delle rovine.

In realtà, fa effetto vedere dal vivo il tetto crollato, la chiesa completamente scoperchiata e ci si chiede come sia stato possibile un crollo del genere. Il tetto e la facciata esterna della chiesa erano stati restaurati circa tre anni fa, pulite le pareti esterne e sostituite le tegole e i coppi del tetto, ma questo intervento sembra non abbia evitato il crollo di ieri, ma rende tutto ancora una volta più paradossale. Come fa un’intera capriata a cedere dopo un restauro di pochi anni fa? Se non fosse assurdo, sembrerebbe che la manutenzione non abbia previsto il monitoraggio della statica delle strutture. A cosa serve pulire una facciata, rifare il trucco di un monumento se poi non ci si cura della struttura, della sostanza? Per sommare paradosso a paradosso, è difficile capire chi può rispondere a queste domande: la chiesa infatti appartiene al vicariato che provvederà alle spese di ricostruzione del crollo, ma la tutela del monumento è di competenza dello stato italiano, anche se all’inizio non era ben chiaro se la chiesa fosse afferente alla soprintendenza speciale o facesse parte dell’area del nuovo parco archeologico del Colosseo-Foro-Palatino, una delle magiche creazioni della riforma Franceschini. La chiesa sorge infatti in un confine poco chiaro fra le due aree di competenza. Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sull’efficacia della riforma, per ciò che riguarda la tutela de monumenti, i crolli di questi giorni parlano da soli. Sembra infatti che aggiungere un nuovo organo di gestione per la zona archeologica centrale, più che migliorare la tutela, abbia solo favorito la promozione del parco (come se ne avesse bisogno!) e moltiplicato i problemi di gestione. In ogni caso, la soprintendenza speciale dei Beni culturali di Roma, l’organo effettivamente competente sulla chiesa, ha aperto una sorta di inchiesta interna per studiare la documentazione dei lavori di restauro e del monitoraggio statico dell’edificio.

Se si accertassero responsabilità interne, la vicenda di san Giuseppe dei Falegnami risulterebbe emblematica di come vengono gestiti i beni culturali in Italia. A scapito della tutela effettiva dei monumenti, si prediligono operazioni di facciata, manovre di marketing e di promozione turistica, l’importante è vendere (e pure male).

È inutile ora gridare allo scandalo, aprire fascicoli su disastri colposi, fare autoispezioni in Soprintendenza, la responsabilità del crollo del tetto, a parte l’inesorabile fatalità del caso, risiede nelle politiche di gestione della cultura di almeno gli ultimi 30 anni. Questa volta non è necessario fare ricorso a metafore o allegorie: il discorso è semplice, se crollano i monumenti è perché non si provvede al loro mantenimento, se non si riesce a fare interventi preventivi è perché i pochi soldi destinati alla cultura vengono spesi in spettacoli di poco gusto nel Colosseo, perché anche dopo l’immissione di 500 nuovi funzionari di Soprintendenza c’è un vuoto di organico anche a Roma e in pochi non si può fare tutto, perché c’è un chiaro indirizzo politico che  mira a far diventare le città d’arte quinte vuote del turismo mordi e fuggi. San Giuseppe e il carcere Mamertino non sono beni facilmente promuovibili e inseribili nei circuiti mainstream, per questo vengono ignorati dagli organi competenti. È inutile recitare mea culpa, il crollo del soffitto ha disvelato magicamente ciò che sappiamo da tempo: il patrimonio culturale italiano diffuso non conta, non conta l’incolumità di chi attraversa e usa questi luoghi (la chiesa ospitava numerosi matrimoni), né tantomeno la loro tutela: chi oggi dice altro sta mentendo e se il nuovo ministro dichiara che questi avvenimenti non dovranno più succedere, non so quanto le sue parole possano essere realistiche e veritiere.