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A Roma c’è una città nella città

C’è una città nella città che raramente viene raccontata. Lo fanno questi tre libri appena pubblicati: “Povera Roma” (ed. Left); “Grande come una città” (ed. Alegre); “Città fai-da-te” (ed. Donzelli).

Qualcosa di fondamentale è cambiato nella trasformazione delle città negli ultimi quarant’anni. La funzione della rendita fondiaria, che fino agli anni ’80 era stata determinante nel costruire le città, si è dissolta. È stata sostituita dalla finanza, che trasforma i territori fisici, ma agisce nello spazio virtuale. Noi non vediamo gli strumenti enormemente complessi che sono stati inventati per cartolarizzare ogni entità e processo, ma ci accorgiamo (e come!) di quello che fanno al nostro abitare. La crisi del 2008 ha reso visibile come i derivati rappresentassero qualcosa di immateriale, eppure le conseguenze per milioni di persone sono state materialissime. La lettura dei contesti locali dunque non può avvenire senza analizzare le tendenze globali altrimenti non si capiscono le trasformazioni odierne, come le diseguaglianze, la povertà, il debito. Oggi il motore dell’economia è l’estrazione di valore da tutto il territorio e dalle città in particolare. Come rileva Carlo Cellammare, «il capitalismo neoliberista mette al lavoro tutta la città trasformandola in un sistema complessivo per la produzione della ricchezza, condizionando fortemente i comportamenti personali e sociali».

Roma è in ritardo su questo rispetto alle altre città? Enzo Scandurra ci ricorda che «c’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione», per poi chiedersi di quale modernizzazione si parla.

Come affrontiamo il problema della casa senza capire come sia stato possibile che oggi il valore del patrimonio immobiliare mondiale (217.000 miliardi di dollari) sia diventato pari al triplo del Pil totale di tutti i paesi del mondo e che questo enorme valore si può scambiare in tempi brevissimi attraverso una vasta infrastruttura di servizio che rende possibili vendite e acquisizioni. Un immobile può cambiare proprietà e valore 35 volte in un’ora! «La mancanza di case e la così detta emergenza abitativa sono un problema complesso e dalla natura globale» – lo sa bene Margherita Grazioli che conosce la crisi abitativa a Roma, dove ci sono 18mila famiglie che da vent’anni aspettano la casa popolare. Le occupazioni garantiscono un alloggio a 13mila persone, mentre più di 7mila vivono in strada. Senza dimenticare i 7mila rom che sono relegati in 16 campi sparsi ai margini della città. Poi aggiunge che «bisogna organizzare, difendere e moltiplicare soggettività e spazi di riappropriazione entro cui immaginare e costruire un mondo diverso, solidale, meticcio e accessibile a tutte e tutti, di vivere la città».

La città continua a essere il luogo dove si svolge la vita di milioni di persone che ogni giorno si trovano ad affrontare mille difficoltà. Roma, come la raccontano le tante voci raccolte in Povera Roma, è stata lasciata senza risorse, in preda al disfacimento, con una rete di trasporti al collasso, ricoperta di rifiuti, con alberi che si schiantano al primo vento. Sarebbe riduttivo pensare che tutto questo avviene per incapacità (che pure gioca un ruolo non secondario!) dell’amministrazione capitolina e non vedere come sia la conseguenza del fatto che gli abitanti sono diventati un semplice intralcio alla possibilità di estrarre valore dal territorio. Nella nostra città ci sono 150mila anziani, come ricorda Giuseppe De Marzo, che non possono far fronte al costo di un affitto, a spese sanitarie e alimentari; un terzo delle famiglie complessive è a rischio di esclusione sociale. Non va meglio per i giovani. Giulia Rodano ci racconta di «una generazione che ha perso prospettive e speranze e di persone giovani, probabilmente sotto-occupate o precarie che vengono espulse dalla città consolidata verso le nuove periferie».

È successo anche altro, però, negli ultimi quarant’anni a Roma. Ha preso vita un laboratorio per la costruzione di un’altra città. Mentre Roma veniva privatizzata dalle politiche neoliberiste e cresceva troppo e disordinatamente, come scrive Paolo Berdini, nasceva «una città nella città: quella delle occupazioni abitative da parte di senza tetto, sfrattati per morosità incolpevole e famiglie povere, formate prevalentemente da immigrati». Non solo occupazioni abitative, ma anche il recupero di immobili lasciati vuoti per anni per farne spazi sociali, una riappropriazione della città che Federica Giardini racconta come luoghi che «mettono in movimento, associano, creano movimenti di solidarietà e invenzioni per provvedere nuovamente a quel che manca, a quel che serve, a quel che si desidera».

Il recupero di spazi abbandonati e la sperimentazione di forme di autogoverno, al quale si attribuiva un valore sociale attraverso la sperimentazione di nuove forme di vita urbana, hanno disegnato territori alternativi. Sono stati attivati processi progettuali e costruttivi di un’altra città, attraverso pratiche urbane, produzione culturale, recupero di spazi. In pratica ci si è appropriati della città, sottraendo spazio alle logiche del dominio della finanza. Si sono create organizzazioni sociali autonome in conflitto con la rendita e a difesa del valore d’uso. Nel terzo municipio nell’ultimo anno è nata un’esperienza di grande attivazione, «un grande desiderio collettivo di esserci, ascoltare, ragionare, restare affascinati da idee ed esperienze». Grande come una città si attiva in un quartiere abitato da 205mila persone, privo di servizi culturali, ma sede di un enorme centro commerciale dove ogni anno entrano 18milioni di persone. Quest’esperienza non nasce dal nulla ma, come raccontano Luca Blasi e Valerio Renzi, «dal radicamento, dal lavoro quotidiano, e dalle lotte di questi quasi vent’anni». Una storia che ha visto l’occupazione dell’Horus Club, per farne uno spazio di produzione culturale indipendente, sgomberato nel 2009 e lasciato da allora vuoto e abbandonato. Stesso destino per l’ex cinema Astra, occupato e poi lasciato vuoto, inutilizzato. Intanto l’esperienza di Astra si trasferisce in via Capraia, mentre nasce la Palestra Popolare Valerio Verbano nell’ex locale caldaie inutilizzato dell’Ater. Dal 2011 c’è anche Puzzle, «laboratorio di nuovo welfare e di autogoverno». Un luogo nato per rispondere a un bisogno abitativo di giovani studenti e precari, mettendolo in connessione con i bisogni del territorio.

La stagione della partecipazione iniziata nei primi anni ’90 «si concluse con molta insoddisfazione e non pochi fallimenti», nota Carlo Cellammare, e oggi «stanno riemergendo con vigore il desiderio e la necessità di partecipazione, dettati forse anche dalla crisi di quella politica che non riesce a dare risposte ai cittadini e ha smarrito l’interesse pubblico, così come testimonia la forte e crescente attenzione sul tema dei beni comuni». È a questo che si lega il movimento di riappropriazioni di luoghi e spazi della città, anche attraverso pratiche illegali che «sono particolarmente illuminanti e hanno qualcosa da insegnarci, proprio perché spostano più avanti i confini del possibile».

Roma continua a dimostrarsi un laboratorio politico, sociale e culturale, evitando di ridurre tutto al mito della partecipazione, del comitatismo locale, del facile entusiasmo del fai-da-te, esperienze che, anche se dettate da esigenze reali, non sono in grado di produrre cambiamenti strutturali.

 

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AA.VV., Povera Roma – Sguardi, carezze e graffi, ed. Left

AA.VV., Grande come una città – Reinventare la politica a Roma, a cura di Christian Raimo, ed. Alegre

Carlo Cellamare, Città fai-da-te, Donzelli Editore

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