approfondimenti

MONDO

Il razzismo come scienza politica: intervista a Miguel Mellino

La razzializzazione delle popolazioni è uno dei dispositivi fondamentali del neoliberismo, afferma Miguel Mellino, antropologo e attivista del movimento antirazzista italiano e europeo, che lavora all’Università di Napoli “L’Orientale.” La negritudine, il razzismo, i processi postcoloniali sono i temi che lo sollecitano portandolo a legarsi a esperienze militanti nel movimento antirazzista italiano e europeo così come a letture originali di Fanon, Sartre e ora Agamben.

 

Cosa definisci con il termine “negritudine”?

Possiamo dare due definizioni di negritudine: una è quella che si può chiamare “storiografico-letterale” l’altra è quella di tipo “sociologico-strutturale”. Entrambe costituiscono i vertici di quella che, nella tradizione dei “Black Studies”, è stata chiamata l’immaginazione politica radicale nera. La prima ha a che fare con il movimento filosofico-letterario lanciato a Parigi negli anni ‘30 da intellettuali caraibici e africani come Aimé Césaire (Martinica), Leopold Senghor (Senegal) e Léon- Gontran Damas (Guyana francese). È questo movimento che ha creato il neologismo “negritudine” con un significato antropologico, filosofico e politico che va dalla rivendicazione delle “civiltà africane” all’eredità africana (nera) in tutte le culture e identità del gruppo afrodiscendente del mondo. Su questo fermento si genera il fenomeno più potente del movimento, la sua estetizzazione artistica e letteraria, una delle cui maggiori espressioni è stato il famoso testo poetico Diario del ritorno al paese natale (1933) di Césaire.

Il movimento della negritudine è stato una delle prime espressioni globali di quello che più tardi si sarebbe chiamato “orgoglio nero”: si trattava della riaffermazione positiva di un’identità culturale negata, inferiorizzata, patologizzata e anche razzializzata dai dispositivi di potere e dai saperi coloniali.  Si è trattato di uno degli affluenti più importanti della potenza culturale e politica che più tardi avrebbero dispiegato i movimenti anticoloniali in Africa e nei Caraibi, cioè il terzomondismo di queste latitudini ma anche il Black Power degli anni ‘70 principalmente negli Stati Uniti. Un testo che forse unisce questi due momenti è il Discorso sul colonialismo (1955) dello stesso Césaire, pubblicato dalla casa editrice Présence Africaine a Parigi e destinato a trasformarsi in uno dei testi politici più importanti del secolo ventesimo, un merito che non gli è stato sempre riconosciuto fuori dalla tradizione politica e accademica “nera”.

  

Questo movimento ha un rapporto con Frantz Fanon e il processo di decolonizzazione algerino?

Esatto, il testo di Fanon I dannati della terra è stato uno dei suoi referenti più immediati. Il movimento della negritudine considerava – dalla sua concezione profondamente umanista e non senza contraddizioni – il razziale come una costruzione ideologica, politica, culturale e coloniale, una invenzione occidentale, se vogliamo. Ma non lo negava, al contrario enfatizzava il processo storico e culturale sorto da questa invenzione.

 

Come si collega questa definizione letteraria o culturale della razza con quella che hai chiamato la concezione “sociologico-strutturale”?

La complessità politica della questione razziale sorge, precisamente, da questa connessione. Già negli Stati Uniti, una corrente sociologica e letteraria sviluppata da autori afro americani – come W.E.B. Du Bois (The Souls of Black Folk, Black Reconstruction) e Richard Wright (Native son, Black Boy), o caraibici come C.L.R. James (Black Jacobins) tra gli altri – investigavano nelle loro opere quello che oggi possiamo chiamare il razzismo come “fenomeno strutturale” moderno, cioè come condizione strutturale della produzione e riproduzione sociale delle società coloniali e post coloniali e come elemento alla base della costruzione degli stati-nazione sorti dalla dominazione coloniale.

 

 

 

Qual è l’importanza politica attuale di questi movimenti?

Credo che ci obblighino a ripensare tutta una serie di questioni attraverso le quali si è formato l’antagonismo politico occidentale: dal concetto di umano dominante nella cultura e nei saperi moderni fino alla dinamica della disuguaglianza, dell’internazionalismo e della lotta di classe, visto che il “marxismo bianco” europeo (e non solo) aveva sempre minimizzato la questione razziale, considerandola come una semplice sovrastruttura, la cui verità stava sempre da una altra parte: nell’economia, nella divisione del lavoro, nella manipolazione politica ecc. Da qui in poi, la razza, resa visibile come dispositivo materiale di dominio globale, tende a influenzare tutti i concetti chiave del pensiero sociale moderno: soggetto, classe, capitalismo, proletariato, stato, nazione ed esige la necessità di ripensare una ricomposizione politica delle fratture. «Il problema del secolo XX è la linea del colore» –  riuscì a dire una volta Du Bois. Più categorico è stato Fanon: «Nei contesti coloniali il razzismo non è una sovrastruttura. Si è ricchi in quanto bianchi, si è poveri in quanto neri. Perciò le analisi marxiste devono essere sempre leggermente ampliate ogni volta che si affronta il problema coloniale» (si può anche aggiungere in quelli postcoloniali).

 

Come entra il concetto di razza nella modernità occidentale?

Le genealogie più plausibili convergono in questo aspetto: il concetto di razza è moderno e occidentale. Il suo ingresso nelle lingue europee, nel suo significato attuale, è datato metà del secolo XVI. Non è una mera contingenza che inizi a entrare nel significato comune occidentale dopo due fatti chiave della modernità: la conquista dell’America e il sorgere del capitalismo come modo di produzione globale. È risaputo che Anibal Quijano colloca la nascita del concetto di razza nell’intersezione di questi due fenomeni: i nativi in America Latina sono i primi soggetti moderni a essere qualificati come “razze” da parte del dominio coloniale. La razzializzazione è la prima giustificazione del dominio a cui è giunto il capitalismo coloniale: un sistema strutturato sull’estrattivismo, la schiavitù e una gerarchizzazione della cittadinanza stabilita a partire da una divisione e controllo razziale del lavoro. A partire da questo momento tutte le categorie etnico-geografiche del pensiero sociale – europeo, indigeno, orientale, africano e occidentale- saranno categorie razzializate.

È meno conosciuto il secondo laboratorio razziale della storia, che aveva anche nella religione cristiana (questa volta protestante) il suo principale detonatore: la conquista inglese dell’Irlanda. La razzializzazione inglese del nativo irlandese durante la conquista coloniale può essere considerata come il laboratorio principale del sistema razziale di piantagione schiavista che si sarebbe sviluppato più tardi nel Sud degli Stati Uniti e nei Caraibi. La genealogia della piantagione schiavista come modo di produzione capitalista ha in Irlanda il suo “grado zero”. Come mostreranno diversi autori, è stato solo durante la tratta degli schiavi a partire dal secolo XVII che la razza ha cominciato a materializzarsi come dispositivo di governo tramite la linea del colore. Da lì in poi avremo è una razzializzazione costante del pensiero e della cultura occidentale. Il brillante lavoro di Enzo Traverso La violenza nazista, una genealogia (2002) mostra in modo molto efficace le origini coloniali del suprematismo razziale nazifascista. Aggiungerebbe che la razza è un concetto moderno e di tipo “rizomatico” cristallizzato a partire da diverse influenze, tra quelle la matrice sessuale-patriarcale e di genere del concetto di razza come suggerisce Elsa Dorin in La matrice de la race : généalogie sexuelle et coloniale de la nation française (2006).

 

Perché continuare a parlare in termini di razza quando già sappiamo che si tratta di un termine senza fondamento biologico?

In primo luogo, razza e razzismo non sempre sono state categorie associate a una concezione biologica o fenotipica di supposte gerarchie sociali. Razzismo biologico, razzismo pseudo-scientifico e razzismo associato al colore della pelle rappresentano solo momenti nello sviluppo del razzismo come dispositivo di dominio. Come sappiamo, l’idea dell’esistenza di razze umane non ha alcuno fondamento biologico. Nonostante ciò, questo non vuole dire che razza e razzismo come dispositivi di dominio siano scomparsi. Mi sembra allora che bisognerebbe pensare il potere di questi dispositivi al di là della loro fallacia costitutiva. Per questo propongo di pensare alla razza come a un discorso: le razze non esistono, non hanno nessun fondamento fuori del mondo sociale, ma il discorso (storico-coloniale) della razza ha ancora effetti materiali e simbolici sui corpi, sulle popolazioni e sulla costituzione materiale delle società contemporanee. Questo aspetto si vede molto bene nella costruzione attuale del migrante come nemico pubblico, come altro, come inferiore, come diverso. Anche nella costruzione della forza lavoro migrante come un lavoro “differente”. Razza e razzismo sono alla base di quella che chiamiamo la colonialità del presente.

 

 

 

Come funziona il discorso del razzismo attualmente, come funziona questo dispositivo specifico e moderno di potere che menzioni?

Propongo di affrontare il razzismo come una tecnologia moderna di governo (di management, di produzione) di popolazioni e territori finalizzata alla estrazione di plusvalore dalle società, cioè alla crescita della potenza produttiva capitalista di un determinato tessuto sociale. Questo vuol dire che il razzismo – lungi dall’essere un elemento irrazionale, anacronistico o residuale del dominio capitalista moderno, forma parte della sua stessa ontologia produttiva primaria, come dimostrano le genealogie a cui abbiamo fatto riferimento. Il discorso della razza è strutturalmente intrecciato con la logica del modo di produzione capitalista dalla sua origine. Come diceva Malcom X, è difficile pensare all’uno senza l’altro.

All’interno delle concezioni dell’economica politica razziale moderna, sfruttamento razziale e post razziale, interiorizzazione, segregazione, marginalizzazione e il dispiegamento della violenza securitaria su determinati gruppi funziona come una condizione minima per la produttività dell’intera rete sociale. Non dimentichiamo neppure che l’espansione e la riproduzione del capitalismo come modo di produzione globale si è data, e si dà ancora, perché questa è la sua ragione di accumulazione strutturale, attraverso la produzione di eterogeneità gerarchicamente relazionate tra di loro e non attraverso il marco della omogeneità, come pensava non solo il Marx più classico, ma anche il marxismo bianco europeo dominante fino agli anni ‘70. Negli ultimi anni della sua vita, Marx iniziò a pensarla diversamente questo punto aprendo quella che si conoscerà poi come “teoria dell’imperialismo”. Un testo che coglie molto bene questa virata marxiana è sicuramente L’ultimo Marx di E. Dussel.

Il razzismo rappresenta quindi una condizione strutturale di produzione delle società moderne: definirlo in questo modo è più efficace che parlare solo di “razzismo istituzionale”, per esempio, perché in questo modo non si assolve il razzismo della società, quello popolare, e neppure l’internità del razzismo alla cultura. Il razzismo è un fatto sociale totale: si manifesta in una pluralità di sfere sociali, anche se non in modo coerente o pacificato in ciascuna di esse. Razza e razzismo attraversano – fratturano – la struttura della classe e la produzione dei generi come dispositivi di potere. Se accettiamo queste definizioni di razzismo, del suo ruolo e funzione come dispositivo produttivo, credo che rimanga chiaro perché è così necessario al neoliberismo, cioè a un sistema economico che si fonda sulla gerarchizzazione della cittadinanza e sulla necessità di produrre continuamente disuguaglianza strutturale come elemento di mobilitazione sociale, nel senso imprenditoriale e di competitività in generale. Come scrive la geografa nordamericana Ruth W. Gilmore: «Il razzismo è la produzione e sfruttamento, legittimate in qualche modo dallo stato, dei gradi di vulnerabilità a morte prematura tra i distinti gruppi sociali, nell’ambito delle geografie politiche distinte ma densamente connesse».

 

Nel tuo lavoro attuale critichi l’idea di razzismo del filosofo Giorgio Agamben, perché lo fai?

L’opera di Agamben è confinata nella bianchezza, nella comprensione del razzismo come fenomeno moderno. Non fa allusione alla importanza del razzismo coloniale, all’espansione del colonialismo e dell’imperialismo, alla configurazione del potere sovrano occidentale. Neppure dice praticamente nulla sull’esperienza della schiavitù razziale o sul problema del nero e dell’indigeno nelle Americhe. Questa cosa è strana se pensiamo che Agamben è stato molto influenzato dal pensiero di Hannah Arendt, che dedica decine di pagine all’argomento in L’origine del totalitarismo. Neppure ci sono referenze al formidabile archivio “nero” di riflessioni e lotte contro il razzismo: un limite epistemico di bianchezza, questo, oggi intollerabile.

Dal mio punto di vista il limite di Agamben sta nel fatto che considera il razzismo come uno sviluppo della biopolitica occidentale, del potere sovrano e dell’eccezione come struttura originaria del politico in Occidente e non viceversa. Il suo secondo limite consiste nel fatto che prende l’antisemitismo nazista come paradigma del razzismo, senza considerare il fatto che c’è una razzializzazione dell’antisemitismo dalla fine del secolo XIX che è un prodotto del ritorno del razzismo coloniale in Europa ed è impensabile senza questo passaggio. Questo punto di vista svuota il razzismo di qualunque connotazione materiale, lo capta come fenomeno che causa morti – come tanatopolitica se vogliamo – ma non come un dispositivo di dominio e di sfruttamento materiale. Quello che voglio dire è che ci sono gruppi e soggetti che sono perseguitati, repressi, sfruttati, esclusi o marginalizzati a causa della loro singolare pertinenza “sociale” o “etnica” e questo non si può spiegare nello schema astratto di Agamben. Quello che abbiamo allora sono differenti gradi di potere sovrano e differenti gradi di eccezione, attraversati dalla questione della razza, del genere, della classe, che non rientrano con lo schema ontologico di Agamben. Ma questo limite di Agamben nella sua concezione del potere sovrano – che lo affronta come qualcosa di indistinto o indifferenziato – è pure presente in buona parte della filosofia occidentale radicale bianca: intellettuali come Badiou, Rancière, Žižek e Butler non hanno mai preso in considerazione la frattura coloniale interna al potere sovrano europeo, nel suo incontro con le società coloniali e con la razza.

 

 

 

Visitando le librerie di Buenos Aires notavi l’assenza di libri sulla negritudine

Salta agli occhi il fatto che buona parte della produzione teorico e letteraria “nera” è praticamente assente dal panorama intellettuale e culturale argentino. Nelle librerie di Buenos Aires, ben rifornite di traduzioni di buona parte di quello che si pubblica in Europa e in altri luoghi, è difficile incontrare testi che appartengano alla tradizione africano-americana, teorica e letteraria. Non mi è del tutto chiaro il perché di questa assenza. Forse uno dei motivi è una qualche invisibilità storica della questione razziale in Argentina. Questa cecità può essere motivata da una certa mitologia dell’integrazione in Argentina, da una certa autonarrazione di quello che è nazionale e popolare come automatico superamento delle differenze e delle vecchie gerarchie razziali coloniali. La realtà, come sappiamo, è molto lontana da tutto questo: “il crogiuolo di razze” è parte di un discorso dominante che alla fine non quadra con la realtà materiale e quotidiana del razzismo in Argentina, né con la colonialità dello stato nazionale. La domanda un po’ banale che farei è questa: perché leggiamo, e teniamo come punto di riferimento, autori nordamericani e europei bianchi, quando la riflessione nera in questi luoghi ci parla molto di più della nostra storia e dei nostri problemi?

 

Che effetto ebbe il peronismo sul modo di concepire la questione razziale in Argentina?

Il peronismo ha reso evidente l’articolazione della linea del colore in Argentina. Il 17 ottobre si può considerare come l’irruzione dell’articolazione specifica della questione razzista/razziale in Argentina. Penso al peronismo nella sua dimensione di movimento dal basso più che nelle sue figure istituzionali di potere. Il peronismo fu il sintomo dell’articolazione razziale del capitalismo in Argentina: come rappresentante di quello che possiamo chiamare la negritudine del paese, da un lato ha cercato di includere nella cittadinanza tutto quello che il liberalismo-razzista aveva lasciato fuori, però dall’altro lato non è riuscito a rompere la colonialità dello stato-nazione argentino: il limite stesso di questa impossibilità è il discorso peronista sulla questione indigena. È come se il peronismo non avesse potuto trasformarsi del tutto, per le sue stesse contraddizioni, in questo eccedente politico di “negritudine” che in buona parte lo ha costituito come fenomeno storico, sociale e culturale. Una parte del problema è stato probabilmente la concezione nazional-popolare e anche di sinistra o marxista della lotta politica in Argentina: lì dove si vedeva nazione o classe si sarebbe dovuto vedere anche razza come elemento problematico di rottura – di discontinuità – nella produzione di gerarchie e identità politiche interne, cioè dello spazio sociale nazionale. Il tema è sempre stato presente ma come uno spettro: quello che manca è un’articolazione teorica della questione razzista/razziale in Argentina. In ogni modo, se si prende il peronismo, a partire dalle cose che stiamo dicendo, come idealtipo del populismo in America Latina al di là dei suoi limiti e contraddizioni, mi sembra chiaro perché non si possa paragonare il populismo latino-americano con quello che esprimono i cosiddetti populismi europei.

 

Intervista comparsa in spagnolo sul sito Decoknow

Traduzione italiana a cura di DINAMOpress