cult

CULT

Ramy. L’identità pura non esiste

Giunta alla seconda stagione, la serie di Ramy Youssef amplia e aggrava la controversa, esilarante ricerca di perfezione spirituale del giovane musulmano in New Jersey suo protagonista: ragionando sul perché la chiave per trovare noi stessi possa essere abbracciare le contraddizioni implicite della nostra storia

Se molta serialità televisiva americana, specialmente negli ultimi anni, ha affidato al ritratto dei millenials il delicato compito di esplorare il concetto dell’identità, associando spesso a questa ricerca il racconto delle disuguaglianze sociali e delle discriminazioni verso le cosiddette “minoranze”, nessuna storia come quella di Ramy è stata capace di superare queste premesse per immergersi, quasi in chiave slapstick, nel groviglio cognitivo, emotivo e spirituale che l’ambizione di “trovare se stesso” produce nel suo detestabile e irresistibile protagonista.

Dopo una prima, riuscitissima stagione, la serie di Ramy Youssef, Ari Katcher e Ryan Welch alza la propria posta in gioco con dieci nuovi episodi ancora più controversi (e divertenti), ma conferma il proprio centro nello sguardo con cui il giovane musulmano del New Jersey, figlio di padre egiziano e madre palestinese, accosta il mondo che lo circonda, nell’incessante desiderio di diventare un fedele esemplare. Obiettivo immediatamente problematico: perché per Ramy il guaio non è soltanto interpretare i confini tra cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia giusto e cosa sbagliato (e spesso questo basta a rivelare la sua scissione tra posizioni apparentemente inconciliabili, il suo sentirsi costantemente “fuori posto”), ma in definitiva elaborare cosa questa o quella sua presa di posizione sulla vita, la spiritualità o la condotta sociale comportino nelle relazioni con gli altri, da cui ha un bisogno disperato di riconoscimento e amore.

 

 

Potremmo dire, in sintesi, che la serie racconta quanto vorremmo essere salvati dagli altri mentre siamo troppo impegnati a convincerli della nostra piena integrità: vale certamente nella relazione di Ramy con il suo nuovo mentore Ali Malik, un leader sufi capace di rispondere a tono a domande che la moschea “di famiglia” non era più in grado di soddisfare, ma che presto dovrà saggiare le conseguenze della fiducia concessa al ragazzo, anche in quanto futuro sposo di sua figlia. Se infatti nella prima stagione Ramy si trovava smarrito di fronte al binarismo farsesco della sua vita quotidiana – la preghiera in moschea e i party del venerdì sera, la fascinazione per le donne musulmane e insieme il terrore di scoprirle soggetti desideranti e sessualmente proattivi, fino all’ostinazione di vivere il ramadan con massimo rigore precipitando presto nel letto di una donna sposata –, quello che più pesa in questo nuovo ciclo di episodi è il vuoto che il giovane porta con sé al ritorno dal suo disastroso viaggio in Egitto alla ricerca delle proprie radici. Un viaggio che si concludeva con due eventi altamente simbolici: la morte del nonno appena conosciuto, figura evidentemente indispensabile per accedere a quel passato cui Ramy riconduce la propria quête valoriale, e l’innamoramento “proibito”, ricambiato ma presto soppresso, verso la propria cugina a Il Cairo, Amani.

Così mentre l’amico Ahmed, fedele e tuttavia risolto, lo attacca definendolo «il tipo di musulmano più emotivo ed estremo che abbia mai incontrato», Ramy ammette ad Ami Malik senza troppe riserve: «mi sento come se avessi questo buco dentro di me che è sempre stato lì. Solo questo vuoto. E cerco sempre di riempirlo con qualcosa. Come il sesso e il porno. E mi sento come se, più persone sono con me, e più mi sento solo». Niente di più lucido, non fosse che l’unica strada che Ramy concepisce per uscirne è quella di convincere tutti, in primis se stesso, di qualcosa che non è: un buon discepolo, un ottimo futuro marito, un peccatore sulla via della redenzione. Per poter fare questo, si attiva in lui una crudele forma di menzogna inconsapevole, che è la vera cifra della sua auto-narrazione in questa nuova stagione. L’alta qualità di scrittura in Ramy si registra infatti nell’impresa di ritrarre la caduta libera di un personaggio ormai doppio e persino triplo, ma completamente inerme di fronte a questa sua scissione: qualcuno che, ormai incapace di contenere la disgregazione sostanziale del suo rapporto con la realtà e l’Altro, si persuade che, a partire dal linguaggio, sia il valore formale delle sue esternazioni a poterlo mantenere intatto, o a farlo percepire tale. In questo quadro prossimo alla patologia, l’ostinazione che Ramy mostra nel volersi assumere responsabilità sempre più complesse diventerà anche la sua maledizione, conducendolo a un finale di stagione privo di catarsi, certamente aperto a futuri sviluppi.

 

 

Mentre il suo protagonista si ostina a tenere apoditticamente lo sguardo rivolto altrove, verso traguardi che non possono appartenergli, tutto il mondo di Ramy, gli eventi che lo compongono e le figure che lo caratterizzano, parlano al contrario la lingua ineludibile e contemporanea della contraddizione. Quanto più Ramy connette insistentemente la proiezione sul passato (le sue radici) a quella sul futuro (la realizzazione dello spirito e dei sentimenti), tanto più le altre figure della sua famiglia, indagate in singoli episodi, letteralmente si arrangiano all’interno del proprio presente, punto di convergenza di paure, orgogli, omissioni, equivoci e speranze; da non perdere in questo senso l’episodio dedicato alla madre Maysa, piccolo gioiello sul diventare cittadini negli Stati Uniti e omaggio ideale all’eredità morale della giudice Ruth Ginsburg, da poco scomparsa.

Anche per queste ragioni è davvero curioso osservare come Ramy, che porta nel titolo il nome del suo personaggio, metta sul tavolo la contestazione di un’identità incontaminata, suggerendo l’importanza di perdere, o almeno indebolire, i “nomi” che diamo alle cose: quei nomi che tutelano un sapere o un sentire tutto votato alla manutenzione di un rapporto rassicurante con il mondo e con Dio. È accettando l’impurità di un costante divenire, espressione del proprio tempo e capace di liberare le caselle formali cui si ascrive l’identità dell’Io, del mondo e di Dio, che forse è davvero possibile trovare se stessi, ed essere amati. Significa, senza dubbio, imparare a convivere anche con il paradosso. Il paradosso – come ha scritto Deleuze – «è innanzitutto ciò che distrugge il buonsenso come senso unico, ma, anche, ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse». Difficile trovare un’immagine eloquente a supporto del concetto, ma la serie ci riesce alla perfezione quando Ramy, per una serie di congiunture ed equivoci che qui taceremo, si ritrova a masturbare l’amico Steve, malato di distrofia muscolare e incapace di “fare da solo”, per potergli salvare la vita in un albergo di Atlantic City nel pieno di una tormenta di neve. Con il geniale Steve a chiosare questo momento indefinibile: «Non userai il mio sperma per lavare i tuoi peccati!».