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Il queer come modo di produzione

L'(in)attualità di Mario Mieli nella lettura di Federico Zappino. Intervento per il seminario “Desiderio e capitalismo. La differenza è sessuale?”, organizzato dal collettivo Pensare il rovescio e tenutosi al MIT – Movimento identità trans di Bologna, il 26 giugno 2018. Una versione ridotta di questo testo è apparsa su “Alfabeta2”

Con Elementi di critica omosessuale, dato alle stampe nel 1977, Mario Mieli mette a fuoco in modo insuperato la relazione tra desiderio e capitalismo, consegnando alle minoranze di genere e sessuali, nonché alle più ampie maggioranze che “passano” per maggioritarie, quanto di più importante chiunque intenda lottare oggi per rivoluzionare i presupposti della propria subalternità culturale e materiale, dovrebbe fissare saldamente nella testa.

La prima cosa che Mieli ci dice è che il sistema capitalista in cui siamo immersi si nutre delle “differenze” che esso stesso dichiara invece, in modo illusorio, di liberare; peraltro, le sfrutta. La seconda cosa che Mieli ci dice, tuttavia, è che questa sussunzione e questo sfruttamento delle “differenze” accade senza che venga minimamente intaccata la struttura sociale da cui quelle differenze dipendono, in modi che sono spesso indiscernibili dalle diseguaglianze, dalle oppressioni, dalle violenze, dall’odio, come anche dalle forme di tolleranza, e di inclusione condizionale. Il capitalismo, infatti, non solo si nutre delle differenze: da esse, piuttosto, dipende per la sua stessa sopravvivenza, poiché su di esse è venuto edificandosi. Ciò che Mieli denuncia nei termini di “inclusione” delle minoranze di genere e sessuali, pertanto, non significa che sia pervenuta a compimento la sovversione di ciò che, delle minoranze di genere e sessuali, ne determinava in altri tempi l’“esclusione”.

Nonostante noi oggi abbiamo del tutto interiorizzato l’idea di essere sempre deficitari, e nonostante questa interiorizzazione si sia tradotta nella rimozione del fatto che la parità di diritti, in ogni contesto liberaldemocratico, dovrebbe costituire il minimo a cui ambire, e non il massimo, perché il massimo dovrebbe consistere nella sovversione delle strutture e dei rapporti di potere da cui dipende la nostra subalternità, e ogni subalternità – nonostante tutto ciò, Mario Mieli comprese quarant’anni fa, con fulminante precisione e lungimiranza, che non vi fosse nulla di rivoluzionario né nelle varie concessioni statali, né nella celebrazione e nell’inclusione delle differenze che oggi ci prospettano il capitalismo delle piattaforme digitali, quello della gig economy o quello delle grandi multinazionali, che sempre più spesso “ospitiamo” come sponsor dei Pride. Per Mieli, se non c’era nulla di rivoluzionario o di trasformativo in tutto ciò, è perché tutto ciò è funzionale solo ed esclusivamente a ratificare il primato e la necessità, culturale e materiale, di quella che definisce Norma eterosessuale. È la critica della Norma eterosessuale, infatti, a costituire per Mieli il prerequisito di ogni altra critica possibile nei riguardi dello stato o nei riguardi del capitalismo. E questo prerequisito dovrebbe sempre informare ogni critica più o meno contemporanea delle varie forme di pinkwashing da parte degli stati e del capitale. In effetti, se gli stati e il capitale possono sfruttare strumentalmente l’inclusione delle minoranze di genere e sessuali per fare guerra a qualcuno, per sfruttare qualcun altro, o per vendere qualcosa, ciò è reso possibile da una struttura sociale eterosessuale. Elementi di critica omosessuale ci esorta pertanto a non confondere mai la critica degli effetti con la critica delle cause. È dalla sovversione delle cause che deriva la sovversione degli effetti.

Benché questa certezza sopravviva oggi nella rabbia, nella solitudine, nella precarietà, ma anche nelle pratiche e nel desiderio di pochissime tra noi, per Mieli era invece semplicemente ovvio che pur di preservare la propria egemonia, la Norma eterosessuale fosse disposta addirittura a far rientrare “le perversioni […] dalla porta di servizio”, in modi che fossero funzionali al Capitale e alle sue relazioni di produzione, allo Stato e ai suoi apparati disciplinari e repressivi, nonché alla Famiglia e alle strutture della parentela eterosessuali.

Era perfettamente chiaro, a Mieli, che già negli anni Settanta del Novecento l’“Etero-Stato” lanciava i primi sassi nello stagno dei dibattiti riformisti sul matrimonio gay, mentre nascondeva la mano delle stragi nei riguardi delle froce dissidenti, i cui progetti non consistevano esattamente nella possibilità di pronunciare, in un futuro non troppo lontano, lo stesso sì, a suggellare lo stesso amore. Mieli non immaginava questo tipo di eguaglianza, intesa come progressiva conformità a un modello di soggettivazione e di relazione già esistente – quello eterosessuale, chiaramente.

Di quel modello Mieli auspicava la sovversione, piuttosto. E con questo non intendo dire che Mieli fosse contrario all’eguaglianza, genericamente intesa, specialmente se essere contrari all’eguaglianza significa parteggiare per la diseguaglianza, o affidarsi, forse con troppa ingenuità, a una irenica società delle differenze. Si può dire, al contrario, che Elementi di critica omosessuale prendesse le mosse non solo dalla volontà, cosciente, di scardinare una diseguaglianza, ma innanzitutto dall’esperienza della diseguaglianza – dall’esperienza dell’oppressione, dall’esperienza della violenza, dell’insulto, della minaccia, della maggiore esposizione alla vulnerabilità, o all’impossibilità, e dal desiderio di esperire qualcos’altro, qualcosa di meglio. E si può dire, anche, che Mieli avrebbe concordato col fatto che pronunciare espressioni come “società delle differenze” serva solo ed esclusivamente a occultare, o a normalizzare, che anche quelle differenze sono in realtà diseguaglianze.

D’altronde, ciò che ci consente di nominare le differenze – e se possiamo nominarle è perché sono in qualche modo rilevanti dal punto di vista simbolico, politico, ed economico – è la loro storia di diseguaglianza. E nel momento in cui nominiamo le differenze, noi nominiamo il significato culturalmente costruito, e costruito gerarchicamente, di ogni differenza.

Tutto ciò è per dire che non ha nessun senso maneggiare concetti teoricamente spessi, come quello di eguaglianza, in senso generico, né ha senso dichiararsi genericamente a favore o contro l’eguaglianza. Sappiamo infatti che l’eguaglianza intesa in senso liberale non è l’eguaglianza intesa in senso socialista o comunista, e ciò significa dunque che questo concetto assume significati diversi a seconda del regime di enunciazione. Dalla mia prospettiva, costituendo l’eguaglianza un concetto relazionale (io sono uguale a qualcuno, o diseguale rispetto a qualcuno), esso dovrebbe sempre guidarci, innanzitutto, nel proposito di sovversione della relazione tra termini diseguali – della relazione nell’ambito della quale, per meglio dire, l’oppressione di uno dei due termini deriva dal dominio e dal privilegio dell’altro.

In qualche modo, le riflessioni di Mieli dovevano girare nella mia testa quando, in Sovversione dell’eterosessualità, ho scritto che la nostra lotta per l’eguaglianza dovrebbe consistere innanzitutto nella sovversione del potere, o del diritto, di qualcuno di escludere o di includere qualcun altro. Eppure, la domanda che resta aperta è: come si sovverte questo potere, o questo diritto? Mieli riteneva che l’emancipazione politica delle minoranze di genere e sessuali alla quale assisteva, alla fine degli anni Settanta, si stesse compiendo di pari passo con la loro “inclusione totale nel sistema” eterosessuale, a mezzo mercato, a suon di illusioni e sfruttamento, e a un prezzo molto alto in termini di normalizzazione. Ma non era sorpreso, né scoraggiato: tutto ciò, piuttosto, costituiva il punto di partenza per una lotta più radicale, specifica e necessaria contro la Norma eterosessuale stessa, senza mai cedere sulla relativizzazione dell’urgenza della sua sovversione.

“Non c’è più tempo da perdere”, scriveva a chiare lettere, replicando a un Elvio Fachinelli spaventato all’idea che le froce, prima o poi, avrebbero imbracciato i fucili, forse sulla scia di ciò che contestualmente facevano Angela Davis e le Black Panther, negli Stati Uniti. Eppure, proseguiva Mieli nella sua replica, “Fachinelli sa meglio di me che il fucile è un simbolo fallico. […] Fachinelli, da bravo eterosessuale, ci teme armati di fucile perché evidentemente teme il rapporto omosessuale; c’è da augurarsi che questo timore etero si trasformi in desiderio gay e non in Terrore – sottolineava Mieli, scrivendo “terrore” con la maiuscola – tale da costringerci a impugnare i fucili veramente”.

Chissà come avrebbe reagito, Mieli, alle dichiarazioni di un individuo secondo cui le minoranze di genere e sessuali, i modi in cui amano e si relazionano, sono “schifezze”. Si tratta di quello stesso individuo che di lì a poco sarebbe diventato ministro, e avrebbe detto che “le famiglie omogenitoriali non esistono”, dall’interno dello stesso governo la cui propaganda razzista avrebbe prodotto, come macabro effetto, la materializzazione della violenza razzista come diretta conseguenza.

Come potremmo leggere quella dichiarazione di non esistenza, alla luce di questa materializzazione performativa della violenza razzista? Potremmo forse leggerla come un’ingiunzione a non esistere? O come l’atto linguistico performativo che prelude a una analoga materializzazione? Che alle “schifezze” venga infatti concessa la possibilità, aleatoria, di un’integrazione disciplinata, o di quella che oggi, e almeno fino ad ora, possiamo definire inclusione condizionale, non significa nemmeno lontanamente, per Mieli, che sia pervenuta a compimento la sovversione di ciò che le produce innanzitutto in quanto tali, ossia in quanto tendenze “perverse” rispetto a quelle “normali”.

Se il Ministro della Famiglia e della Disabilità dell’attuale governo italiano può rivolgersi alle minoranze di genere e sessuali chiamandole “schifezze”, o stabilire l’inesistenza delle loro modalità di fare famiglia, non è perché lui sia particolarmente retrogrado, o ignorante, o genericamente fascista, come a molti piace pensare. Attraverso le sue dichiarazioni, egli rende piuttosto esplicito ciò che pensa la maggioranza, anche quando si rifiuta educatamente di dirlo, e cioè che tutti i modi non conformi all’eterosessualità di esistenza e di relazione sono e restano perversioni – o schifezze, appunto. E ciò è testimoniato dal mero fatto dello statuto minoritario delle minoranze di genere e sessuali.

La maggioranza, la maggioranza dei normali, è composta di persone che si tengono per tutta la vita il genere assegnato loro alla nascita, riproducendolo meticolosamente, e che si relazionano affettivamente e sessualmente con persone del genere opposto. È questa la normalità; il resto sono perversioni. Perversioni sulle quali la Norma riverbera “il marchio dell’infamia”, scriveva Mieli, affinché le persone si sentissero scoraggiate dall’abbandonarsi ad esse, anche in assenza di un tribunale o di un ministero che le vietasse formalmente, quelle perversioni. Perversioni da prevenire, da tenere a freno, da estirpare. Oppure da tollerare, secondo l’ideale liberaldemocratico, ai fini della messa a valore. “Ma la tolleranza”, scrive Mieli, “è ancora repressione […]. La tolleranza è ancora negazione della libertà”. E non è certo la libertà liberaldemocratica a emendare questa negazione: “La libertà che agli omosessuali garantisce la legge non è nient’altro che libertà di essere degli esclusi, degli oppressi, degli sfruttati, degli oggetti di violenza morale e fisica, o libertà di stare chiusi in un ghetto”. Da tutto ciò, scrive Mieli, dovremmo piuttosto dedurre che a dimostrare segni evidenti di perversione è la stessa Norma eterosessuale. E specificava:

se l’amore di un essere umano per un altro di sesso “opposto” non è affatto, in senso assoluto, patologico, l’eterosessualità quale oggi si presenta come Norma è invece ampiamente patologica, poiché il suo primato si regge come un despota sulla repressione delle altre tendenze dell’Eros. La tirannide eterosessuale è uno dei fattori che determinano la nevrosi moderna e – dialetticamente – anche uno dei più gravi sintomi di questa nevrosi.

Anticipando di qualche anno Judith Butler, Mieli non lesina le sue critiche nei riguardi dell’eterosessualità che permea, consciamente e inconsciamente, larghi strati del femminismo, accusati di voler “riformare la Norma senza eliminarla”. “Di fronte alla specificità omosessuale”, scriveva,

non c’è femminista eterosessuale “che tenga”; né, d’altro lato, noi checche siamo disposte a continuare a farci colpevolizzare dalle donne. Nel corso della vita, di educastratrici educastrate ne abbiamo incontrate, ahinoi, parecchie, e certo le donne contrarie all’omosessualità sono ancor oggi molto più numerose degli omosessuali manifesti maschilisti e asserviti all’ideologia del potere. Molte donne ci hanno offeso e ci offendono, ci hanno deriso e ci deridono, ci hanno represso e ci reprimono. Ora come ora, queste donne non possono che essere contro di noi e noi non possiamo che essere “contro” di loro, se, dal punto di vista gay, intendiamo portare avanti una lotta per la liberazione universale (una lotta, quindi, che coinvolga anche loro, che combatta contro i loro pregiudizi, che sciolga ogni resistenza antigay): ho già detto che la contraddizione uomo-donna e la contraddizione eterosessualità-omosessualità si intrecciano.

Attraverso questa critica nei riguardi del femminismo, Mieli sembra in realtà voler gettare le basi per il superamento dell’opposizione tra “genere” e “sessualità”, e dunque per il superamento dell’opposizione tra lotte femministe e lotte omo-transessuali. Mieli non pensa certo che la relazione tra il genere e la sessualità sia strutturalmente determinata; eppure, in qualche modo, per contrastare il presupposto eterosessuale di quella struttura è necessario poterli pensare in una reciproca relazione dinamica.

In termini psicoanalitici, la relazione tra il genere e la sessualità diventa intelligibile mediante la relazione tra identificazione e desiderio. E Mieli muove la sua critica nei riguardi della logica eterosessuale sottesa a un certo modo femminista di pensare questa relazione tra identificazione e desiderio, con la stessa sfrontatezza con cui si schiera con le femministe, e con le lesbiche, nella critica del pervasivo maschilismo del movimento omosessuale, dal quale prende performativamente le distanze ostentando politicamente la propria contentezza “per essere una checca evidente, femminile”.

Ma anche, aggiunge, “la sofferenza che ciò, in questa società, comporta”. Mieli non scheccava solo nel chiuso dello spazio privato – che fosse la casa, il locale gay o la odierna chat. Lo faceva anche e soprattutto là dove la Norma opera e si riproduce alla luce del sole, nello spazio pubblico, e lo attraversava con le “gonne a fiori e i tacchi argento”, al fine di mettere in evidenza la conformità performativa dei suoi spettatori, e di contestarla con un’asserzione performativa del corpo. E nonostante le donne eterosessuali, a differenza delle lesbiche, non fossero quasi mai complici delle sue performances sovversive (“quando vi sono donne che contestano noi gay perché ci vestiamo ‘da donna’ bisogna sempre ricordare loro da qual pulpito provenga la predica!”, scriveva), ciò non diventa mai un pretesto per alludere a un livellamento tra i generi, a una loro indifferenziata responsabilità nella riproduzione della Norma.

Se vi fosse un’eguale responsabilità, infatti, vi sarebbe anche un eguale potere. Ma per Mieli non c’è eguale potere tra i generi. I generi conformi sono tali in relazione alla Norma eterosessuale, e l’eterosessualità è la relazione tra i generi più conforme alla Norma, certo. Ma non è una relazione simmetrica. D’altronde, a Mieli è evidente che questa asimmetria si traduca nelle violenze sessuali, negli stupri, nonché nello sfruttamento del lavoro riproduttivo gratuito o sottopagato delle donne, dentro o fuori casa. La femminista materialista Christine Delphy o, da altre prospettive, l’economista Mercedes d’Alessandro, sostengono che questo dato, in termini percentuali, persista tutt’oggi inalterato, come nel ’77: il lavoro gratuito o sottopagato delle donne e dei soggetti femminilizzati, dentro casa e fuori casa, è il grande alleato del capitalismo.

 

 

Ma a Mieli è chiaro anche che il capitalismo sfrutti, più in generale, la repressione operata dalla Norma eterosessuale di ciò che lui definisce transessualità originaria. Lo sfruttamento capitalistico di questa repressione avviene innanzitutto mediante la sublimazione nel lavoro, secondo Mieli, nella prestazione individuale e nella competizione tra pari.

Basta entrare in un ufficio – scriveva – in una fabbrica, per accorgersi immediatamente di come tutta l’atmosfera abbruttente del posto di lavoro sia impregnata di omosessualità repressa e sublimata. I compagni di lavoro, rispettando come capitale vuole il tabù antiomosessuale rigorosamente, si mandano affanculo otto ore al giorno più gli straordinari, si esibiscono rivaleggiando nei confronti delle donne, “intendendosela” fra uomini, scazzandosi gli uni contro gli altri, lavorando. In tal modo, essi fanno il gioco… pardon, il lavoro del capitale, stabilendo una falsa solidarietà tra uomini, una solidarietà negativa che li contrappone alle donne e li oppone l’uno all’altro nell’ottica frusta (e frustrante: o grettamente gratificante) della rivalità, del concorso a essere più duro, più virile, più bruto, meno fottuto nel generale fottimento, che – magari fosse fottimento! – altro non è se non asservimento alla macchina capitalistica, al lavoro alienato, e forzato consenso alla repressione mortale della specie umana, del proletariato. Se il desiderio gay si liberasse tra compagni di lavoro, essi diventerebbero allora davvero compagni, in grado di riconoscere e di soddisfare il desiderio che li unisce da sempre; in grado di creare, attraverso la riscoperta attrazione reciproca, una nuova, autentica solidarietà tra uomini e con le donne; in grado di realizzare, tutte insieme, le donne e le cule, il Nuovo Proletariato Rivoluzionario. In grado di dire basta al lavoro e sì al comunismo.

Queste riflessioni di Mieli possono suonare vetuste – dal momento che a tutti noi può forse venire in mente che in un numero sempre crescente di luoghi di lavoro l’omosessualità sia non solo tollerata apertamente, ma anche esplicitamente messa a valore, ed è ciò a cui ci riferiamo nei termini di diversity management. Io penso però che queste riflessioni anticipassero qualcosa di più di ciò che esse, immediatamente, volessero comunicare. Queste riflessioni, ad esempio, anticipano l’idea per cui i generi conformi, esattamente come quelli meno conformi, sono performativi; e proprio per questo, sono messi a valore nella loro totalità.

“Norma eterosessuale”, in questo senso, è il nome che Mieli sembra attribuire al modo di produzione delle risorse umane e simboliche su cui poi si organizza la società e l’economia. Mieli, in sostanza, ci dice che quel bios che secondo alcuni viene messo genericamente a valore sia già da sempre genderizzato. Di più: è proprio questa genderizzazione a consentire la sua messa a valore nei modi in cui essa, materialmente, si dà. La “moltitudine”, di conseguenza, non è ancora secondo Mieli composta di “singolarità”, secondo quella linea che va da Deleuze a Negri, bensì, ostinatamente, di soggetti genderizzati (e chiaramente razzializzati) in qualche modo, e genderizzata (e razzializzata) è ancora la produttività che da essa deriva. È su questo, mi sembra, che si innesta l’odierna critica del “lavoro del genere”, su cui insiste in Italia il Laboratorio Smaschieramenti, nonché la sua esortazione allo “sciopero dei/dai generi”.

Ma l’elemento più importante delle riflessioni di Mieli, tuttora irrealizzato nelle sue potenzialità rivoluzionarie, è l’insistenza sul fatto che anche il genere dell’uomo eterosessuale è il frutto di un’alienazione. Anche la sua transessualità, in altre parole, è assoggettata alla Norma. L’uso che Mieli fa della parola “transessualità” è piuttosto diverso dal modo in cui è venuto affermandosi in tempi ad egli successivi. Mieli, in altre parole, non parla della transessualità intesa come “transizione” di genere o come “riassegnazione chirurgica del sesso”. “Transessualità originaria” è il nome che Mieli attribuisce piuttosto

alla disposizione erotica polimorfa e indifferenziata infantile, che la società reprime e che, nella vita adulta, ogni essere umano reca in sé allo stato di latenza oppure confinata negli abissi dell’inconscio sotto il giogo della rimozione. Il termine transessualità mi sembra il più adatto a esprimere, ad un tempo, la pluralità delle tendenze dell’Eros e l’ermafroditismo originario e profondo di ogni individuo.

[…]

A coloro che si domandano se si nasce o si diventa omosessuali, bisogna rispondere che si nasce dotati di una disponibilità erotica amplissima, rivolta prima di tutto verso se stessi e la madre e poi via via rivolta verso “tutti” gli altri, indipendentemente dal loro sesso, e verso il mondo, e che si diventa, a causa dell’educastrazione, eterosessuali o omosessuali (rimuovendo gli impulsi omoerotici nel primo caso, rimuovendo quelli eterosessuali nel secondo).

Contesterei a Mieli che questo educastrato divenire “eterosessuali o omosessuali” non accada aleatoriamente, o concedendo a entrambi i modi di divenire eguali possibilità… Ma credo anche che Mieli volesse portarci al cuore della questione: al cuore, cioè, del fatto che i corpi, per quanto possano essere diversi tra loro, sono e restano superfici sensibili, penetrabili, accarezzabili. Quali che siano i corpi, i corpi possono entrare in contatto. È questa la transessualità, per Mieli. E la Norma eterosessuale agisce determinando invece quali forme di contatto possano essere possibili, e tra quali corpi.

Per Mieli i corpi sono ciò che sono. Mieli pensa la differenza sessuale in un modo meno raffinato rispetto a Monique Wittig – per la quale la differenza sessuale diventa intelligibile mediante l’oppressione, ed essa fonda ogni società come eterosessuale –, a Judith Butler, o a Paul B. Preciado. Mieli scrive che “il pene è ciò che distingue anatomicamente il maschio” – e aggiunge: “È il fallo nel cervello a impedire al maschio di vedere più lontano del suo uccello. È per questo che la società è retta dai coglioni”. Eppure, Mieli ci invita a guardare a quella differenza oltre la mappatura sancita dalla Norma eterosessuale. Mieli, in altre parole, non ritiene minimamente indispensabile disvelare il carattere gerarchicamente costruito della differenza sessuale, al punto da strutturare la nostra stessa idea di “differenza sessuale”.

 

 

Come già Carla Lonzi aveva fatto pochi anni prima, indicando nella clitoride la possibilità di nuove forme di soggettivazione politiche e sessuali di quei corpi che una clitoride ce l’hanno, così Mieli insiste più semplicemente sull’ano, sul culo maschile, sulla sua penetrabilità. I corpi sono diversi, ma non è affatto iscritto nel corpo il suo uso eterosessuale. Esso, piuttosto, si iscrive sul corpo, ed è così che si compie la piena realizzazione della Norma eterosessuale. Il corpo, infatti, è per Mieli un luogo di possibilità relazionali, e di desiderio. Ecco la sua transessualità. E diventare un uomo eterosessuale coincide con un processo di alienazione proprio di questa transessualità. Questa alienazione è ciò in cui consiste propriamente ciò che Mieli chiama educastrazione, ossia “la trasformazione del bimbo tendenzialmente polimorfo e perverso in adulto eterosessuale eroticamente mutilato, nevrotico, ma conforme alla Norma”.

In un passo che sento vicino, in modo particolare, Mieli ricorda che

la lotta che gli omosessuali rivoluzionari conducono contro i maschi etero ha come fine la trasformazione di questi […] in esseri umani liberi, aperti, non più testardamente e unicamente etero, non più altri, ma omosessuali come noi, simili a noi; e ciò per trovare nei rapporti intersoggettivi gai, disinibiti, franchi, la forza collettiva necessaria al sovvertimento del sistema: per poter fare, veramente, l’amore con loro, tra noi. Questo telos positivo anima la lotta gay contro il maschio etero, che invece, in quanto tale, è necessariamente vincolato allo status quo.

Che la forza collettiva necessaria al “sovvertimento del sistema” sia da rintracciare nella trasformazione dei maschi etero in “esseri umani liberi e aperti, non più testardamente e unicamente etero” può suonare eccessivo, alle orecchie di qualcuno. Può bastare? È in effetti un dubbio fondato. Ancora più fondato, però, è replicare: non possiamo saperlo. D’altronde, i maschi etero sono rimasti tali e quali a quelli contro i quali “lottavano” Mieli e gli omosessuali rivoluzionari. I maschi etero così descritti da Mieli sono sempre gli stessi, e possiamo trovarli come tali in ogni luogo e in ogni classe sociale. A essere più difficilmente rintracciabili, semmai, sono gli “omosessuali rivoluzionari”.

L’educastrazione, per Mieli, riguarda anche le donne, e chiunque, ovviamente. Anche quant* con gioia e con dolore cercano di prendere le distanze dalla Norma, riappropriandosi di quanto è stato alienato per essere messo al servizio di un contratto sociale iniquo. La differenza, semmai, consiste nel fatto che mentre gli uomini sono assoggettati, come donne e froce, alla Norma, donne e froce sono anche a loro volta assoggettate all’uomo – culturalmente, economicamente, e anche eroticamente. “I maschi sono asserviti, ma anziché contro il sistema, essi indirizzano la loro rabbia e il loro odio contro chi appare più basso di loro: la donna e il frocio”. Questa è la sostanza della conformità differenziale alla Norma. Questa è la forma sociale che l’alienazione della transessualità assume, e perpetua. E da ciò, naturalmente, deriva il ruolo che Mieli accorda ai soggetti storici dell’antitesi alla Norma, nella sovversione della Norma stessa.

Si consideri, in proposito, la replica di Mieli a Luciano Parinetto, e alla sua urgenza di pensare la transessualità fuori dalla dialettica oppositiva con la Norma eterosessuale. Per Parinetto, “se non vuole confermare i ruoli sessuali proprio mediante la negazione di essi” la contestazione omosessuale dovrebbe piuttosto pensare la transessualità nei termini di “totalmente altro sia rispetto alla cosiddetta normalità, sia riguardo alla sua dialettica opposizione”. Pur concordando parzialmente, per Mieli la questione aperta resta tuttavia che il “totalmente altro” che Parinetto auspica difficilmente potrebbe pervenire a traduzione, o produzione, in assenza di una sovversione di ciò che, allo stato attuale, lo inibisce, lo reprime, lo sublima nelle relazioni produttive capitalistiche. Mieli parteggia sì per l’utopia, ma per un’utopia “concreta”. E questa utopia concreta

deve necessariamente passare attraverso il movimento delle donne e la liberazione completa dell’omoerotismo, così come delle altre componenti del polimorfismo erotico umano… L’ideale utopico della transessualità, se vuole essere “utopia concreta”, non deve allontanarci o distoglierci dalla “dialettica concreta” attualmente in corso tra i sessi e tra le diverse tendenze sessuali (eterosessualità e omosessualità, soprattutto). Soltanto la lotta di coloro che sono i soggetti storici dell’antitesi fondamentale alla Norma eterosessuale maschile può portare al superamento dell’opposizione attuale tra sessi e tra eterosessualità e altre cosiddette “perversioni”. Se la transessualità è il vero telos, si potrà conseguire solamente quando le donne avranno sconfitto il potere maschile fondato sulla polarità dei sessi e gli omosessuali avranno abolito la Norma diffondendo l’omosessualità universalmente.

Se solo la pensassero così anche le odierne benpensanti! A differenza loro, Elementi di critica omosessuale intende pensare la costruzione della società comunista a partire dalla riappropriazione della transessualità originaria sacrificata sull’altare dell’eterosessualità, e sfruttata dal capitale. Ma anche dalla sua affermazione come obiettivo normativo. O meglio: dalla sua affermazione come modo di produzione. Come modo di produzione della soggettività e della relazione.

Infatti, la società comunista non è per Mieli una società in cui “le differenze” convivono educatamente – tollerandosi, reprimendosi, sforzandosi di lasciarsi reciprocamente in pace. Questo, infatti, sarebbe già il progetto neoliberale, ma il suo fallimento è sotto gli occhi di tutti, ed è testimoniato dal fatto che questa società non è stata in grado di eliminare la violenza e l’odio alle quali assistiamo pressoché quotidianamente, e che costituiscono semplicemente “l’esecuzione delle sentenze che il sistema ha già pronunciato tramite l’emarginazione e la condanna dell’omosessualità”. La società neoliberale, d’altronde, si fonda sul disciplinamento dell’inclusività, non sull’eliminazione dei presupposti dell’esclusione.

La società comunista, al contrario, sembra essere nell’utopia di Mieli la società che ha sostituito il modo di produzione eterosessuale con quello transessuale, lasciandosi dunque alle spalle l’educastrazione, e annullando così i presupposti di ciò che “trasforma in fonte di orrore e colpevolezza una delle tendenze fondamentali dell’Eros”, di ciò che nega “agli esseri umani la possibilità di avere rapporti erotici con la metà della popolazione”, di ciò che separa e mantiene “lontane le persone”, di ciò che impedisce “l’amore dell’uomo per l’uomo e della donna per la donna, contribuendo essenzialmente al perpetuarsi della contrapposizione tra i sessi”. Mieli crede che tutto questo sia negazione della potenza della vita. Se vogliamo vivere, ci dice, o ci sprona, il comunismo deve prendere le mosse dalla sovversione del dominio, della subordinazione, della proprietà che si dipanano innanzitutto lungo le linee dei generi educastrati, e dalla socializzazione dei corpi e degli affetti. Solo i corpi che si sono riappropriati della transessualità per rivoltarla contro la proprietà possono, propriamente, organizzare altrimenti le forze produttive del comune.

Questo è un punto dirimente perché per quanto Mieli non subordini mai l’urgenza della sovversione della Norma a una più generica lotta per l’emancipazione di una generica umanità colta nella sua indistinzione, emancipazione umana è tuttavia uno dei concetti portanti del suo strumentario, mutuato chiaramente da Marx. Costituendo, agli occhi del lettore desideroso di uscirne indenne, uno degli assunti più fraintendibili di Elementi di critica omosessuale, è bene dire che per Mieli l’emancipazione umana non è un modo per rendere il comunismo gay-friendly, bensì è emancipazione dell’umano dalla Norma eterosessuale, per il bene di tutt*. Non c’è un tentativo di raccordo tra il comunismo e la sovversione della Norma; piuttosto, sono la stessa cosa. Il comunismo non è eterosessuale. Nel centenario della Rivoluzione, che coincide con il quarantennale di Elementi di critica omosessuale, frocializziamo, dunque, Lenin. Mettiamoci sulle tracce delle lettere erotiche tra Marx ed Engels, e divulghiamole senza copyright. Rileggiamo L’Anti-Edipo e Millepiani avendo chiaro che sono libri che parlano dell’amore tra due uomini. Si chiamano Gilles D. e Félix G. Facciamoci sculacciare da Foucault, e in cambio introduciamolo all’uso dei piaceri anche del suo culo. Abbattiamo l’impero mostrando alla moltitudine che il comune è ancora tutto da costruire sulle ceneri della Norma. E Bifo, scriveva Mieli, “vogliamo vederla in un letto… la Bifo! Questo è un desiderio gay, un’avance, non un concetto”.

“Il maschilismo”, ci ricorda Mieli, “è il più grave impedimento alla realizzazione della rivoluzione comunista. Esso divide il proletariato e quasi sempre fa dei proletari eterosessuali i principali tutori della Norma repressiva di cui il capitale necessita per perpetuare il proprio dominio sulla specie”. “Gli eterosessuali maschi proletari”, continuava, “sono corrotti: essi accettano di farsi pagare la misera moneta fallofora del sistema per tenere a freno, in cambio delle gratificazioni meschine che ne traggono, la potenzialità rivoluzionaria transessuale”. So fin troppo bene che a molti, tutto ciò, sembri poco. E mi dispiace per loro, perché anche se il “proletario” del 1977 non coincide esattamente con l’odierno “precario”, a me sembra in ogni caso che la rivendicazione di quella stessa potenzialità rivoluzionaria, nonché la propensione a pensarne l’organizzazione, continui a fare invece l’unica differenza tra le lotte odierne, tutt’altro che univoche, contro il capitalismo.