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EUROPA

Quale Europa nella pandemia?

I contagi tornano ad aumentare in tutta Europa, gli Stati europei continuano a rispondere in maniera scoordinata, mentre si aspetta lo stanziamento dei nuovi fondi approvati a luglio. Cosa altro ci aspetta?

Una canzone punk autoprodotta della fine degli anni ’90 degli Oltraggio urlava in microfoni gracchianti «cos’altro ci aspetta?» Ed è un po’ la sensazione di questo agosto 2020. Di certo non sappiamo rispondere alla domanda, ma ripercorrendo le tappe della pandemia possiamo cercare di comprendere come le istituzioni europee abbiano deciso di gestirla. Il dibattito pubblico italiano delle ultime settimane incentrato sulle discoteche e i giovani incapaci di autoregolarsi cela maldestramente la questione centrale: la pandemia non è mai finita. Il Covid-19 è ancora presente in Europa, così come nel resto del mondo, e ora i contagi tornano ad aumentare. Insomma, la rimozione collettiva attuta da maggio in poi non ha certo cancellato la pandemia. Eppure di fronte a questo nuovo aumento dei contagi, la collaborazione tra i paesi europei rimane altalenante, i governi decidono in solitudine sulle proprie misure sanitarie, mentre non si ha nessuna remore a lasciar morire le persone migranti nel mar Mediterraneo.

 

Lo scoppio della pandemia

A marzo l’Italia e poi l’Europa, si sono trovate a diventare il secondo epicentro, dopo l’Asia, dell’epidemia di Covid-19. Questa crisi sanitaria si è presto dimostrata una crisi dei servizi sanitari europei, per divenire una crisi economica con numeri negativi a doppie cifre. Nonostante l’Unione Europea nel decennio procedente (2009-2019) avesse già affrontato una crisi economica e finanziaria molto grave, che aveva messo a repentaglio l’esistenza stessa dell’euro, è sembrata trovarsi, di nuovo, senza mezzi di coordinamento sufficienti per gestire questa ennesima crisi.

La pandemia globale è iniziata in Cina alla fine del 2019, secondo uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet, il primo caso confermato può esser ricondotto a un laboratorio di Wuhan, dove un paziente viene curato per una polmonite molte forte dall’inizio di dicembre. Alla fine dell’anno si identifica la sequenza genetica del nuovo virus: Covid-19. Riconosciuta la sua carica virale, il governo cinese attua misure drastiche di quarantena mai viste prima nel mondo. A fine gennaio l’intera provincia dell’Hubei è chiusa e più di 56 milioni di persone sono in quarantena. Eppure le istituzioni globali ed europee ancora non riconoscono il virus come un problema globale, ma anzi molti capi di governo sminuiscono il problema additando la colpa a usanze popolari cinesi considerate anti-moderne come mangiare animali selvatici nei mercati.

Similmente nel 2008, quando scoppiò la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, le istituzioni europee e i governi nazionali si affrettarono a ribadire che quella crisi era un problema americano di un capitalismo sfrenato non assimilabile al “modello sociale europeo”. Quando la crisi superò l’oceano Atlantico per arrivare sulle sponde del mar Mediterraneo, si corse ai ripari inquadrando il problema come una questione nazionale greca, un paese che aveva vissuto al di sopra delle proprie possibilità, falsificando i numeri dei propri bilanci nazionali. Così, quando a marzo l’Italia si è trovata a essere il primo paese colpito dai contagi, il Covid-19 viene narrato come una questione nazionale e il problema qualche italiano non in grado di rispettare il distanziamento sociale.

Nei mesi seguenti abbiamo compreso come il virus, al contrario di molti politici, non presta attenzione alle linee immaginarie disegnate sulle mappe né tantomeno agli stereotipi nazionali. Questa mancanza di cooperazione all’interno dell’Unione Europea raggiunge il suo apice con il blocco delle esportazioni di materiale sanitario approvato dal governo tedesco unilateralmente il 4 marzo. Solo l’entrata in gioco della Commissione Europea, e la minaccia di sanzioni, ripristina la libera circolazione del materiale sanitario nel mercato unico europeo, limitando, invece, le esportazioni verso l’esterno.

 

 

Quando l’epicentro è diventato l’Europa

A metà marzo è chiaro che l’Europa è il nuovo centro dell’epidemia e la Lombardia la regione più colpita. Dopo diverse esitazioni, l’11 marzo l’OMS dichiara ufficialmente lo stato di pandemia, in quei giorni si contano oltre 118.000 casi di Covid-19 notificati in 114 paesi e 4.291 decessi. Pochi giorni prima il Presidente Trump via Twitter aveva scritto che il Covid-19 non era nulla di più che una normale influenza. Il 13 marzo, il Premier del Regno Unito Johnson farà le sue famose dichiarazioni sull’immunità di gregge. Mentre l’Italia restringe il lockdown, la Spagna dichiara la chiusura drastica dell’intero paese. E la Francia, dopo aver lasciato svolgere le elezioni amministrative, il 16 marzo, chiude tutte le attività. Seguiranno, in maniera frastagliata e diversificata tutti i paesi europei. Nelle settimane seguenti il Covid-19 si diffonderà in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’India, dal Brasile all’Australia. All’inizio di aprile si contano più di 3 miliardi di persone in lockdown e il segretario Generale delle Nazioni Unite dichiarerà che la pandemia rappresenta la peggior crisi del mondo dopo la Seconda guerra mondiale. L’Unione Europea a questo punto non può più rimanere ferma.

La prima vera e importante misura economica presa dalla Commissione il 20 marzo è quella di sospendere il Patto di Stabilità e Crescita attivando la clausola di emergenza. Così con una semplice comunicazione da parte della Commissione al Consiglio si sospende il famoso vincolo di bilancio, che limita il debito al 3% del PIL, dando la possibilità agli stati membri di fare spesa pubblica senza incorrere in richiami o sanzioni. Questa decisione rende evidente come per l’intero decennio precedente di crisi economica, la Commissione Europea abbia scelto consapevolmente di bloccare ogni manovra espansiva anche negli stati membri più colpiti dalla crisi. A questo bisogna aggiungere che dal 2011 in poi, grazie alle riforme della governance economica europea, la Commissione è stata dotata di molti più poteri, soprattutto di controllo e indirizzo nei confronti degli stati membri. Basti pensare che oggi con il ciclo del Semestre Europeo, la Commissione controlla ex ante ed ex post ogni legge finanziaria degli stati membri e le indirizza tramite le Raccomandazioni Specifiche per Paese. Le ultime sono uscite il 20 luglio in vista delle discussioni nazionali sulle leggi di bilancio in autunno.

 

 

Recovery Fund: una nuova fase per l’Unione Europea?

Il Consiglio Europeo del 14 aprile decide finalmente sulle prime misure economiche per tutta l’Unione. I fondi stanziati sono in totale 540 miliardi divisi tra fondo SURE, destinato alle misure per la disoccupazione, investimenti alle imprese gestiti dalla Banca Europea per Investimenti (BEI), e il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Come già evidenziato, tutti questi finanziamenti sono erogati in forma di prestiti, e anche se le loro condizioni sono favorevoli, non si fuoriesce da quella che Marco Bersani chiama la trappola del debito. Inoltre, i fondi che passano tramite la BEI rientrano tutti in una logica competitiva in cui le stesse istituzioni pubbliche sono messe in gara tra loro per riuscire a ottenere i fondi europei, mentre i fondi del MES seguono la logica dell’austerità attivata con la crisi del 2008. Questo modo di governance europeo è definito da alcunæ studiosæ un coordinamento per competizione, dove le diverse istituzioni europee, nazionali e locali, attori privati, pubblici e del terzo settore, sono inseriti in un meccanismo di costante competizione tra loro. Questo, insieme alla logica dell’austerità, è il nucleo fondativo del modo di governance neoliberale europeo.

Però il passaggio più importante, e che ha segnato una svolta epocale, nella gestione della crisi della pandemia è l’approvazione, dopo quattro giorni di trattative, del Next Generation EU a fine luglio. Un fondo di 750 milioni di euro, di cui 250 a fondo perduto e 500 sotto forma di prestito agevolato. I fondi verranno stanziati grazie all’emissione di obbligazioni emesse dalla Commissione e garantite dal bilancio europeo. Dopo più di un decennio, quindi, si arriva a una sorta di mutualizzazione del debito, con un piano approvato e supportato dalla Germania insieme a un’alleanza dei paesi mediterranei. Certo i fondi sono pochi, e probabilmente non sufficienti. Ma si segna sicuramente un cambio di rotta rispetto alla logica dell’austerità imposta nel decennio precedente.

Ciò che invece non sembra mutare, e che invece determinerà la modalità di gestione sia a livello europeo che nazionale di questi fondi, è la logica del coordinamento per competizione. Le istituzioni pubbliche su ogni livello, così come le imprese private, verranno messe in competizione tra loro per la gestione di questi fondi. Una competizione spietata, considerando che per dieci anni nessuna istituzione pubblica è stata veramente in grado di investire. Lo strumento di questa logica competitiva sono programmi di investimento basati su bandi pubblici e gare di appalto, che nel nostro paese, ma non solo, hanno alimentato esternalizzazioni, una corsa al ribasso in termini di salari e diritti e logiche clientelari.

Questa competizione la vediamo già all’opera in questa fine estate, dove riesce difficile anche coordinarsi sulle misure di contenimento del contagio tra stati europei, nonostante siano state allentate solo pochi mesi fa. Ma si sa, se i traumi non si elaborano, le rimozioni tornano come incubi a turbare la falsa quiete di superficie.

 

 

Immagini da pixbay.com